ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, CREATIVITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, EPISTEMOLOGIA, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA, SOCIETÀ

Creatività: finalmente un ottimo libro (scritto nel 1924)

«Il problema della democrazia è quello di come rendere la nostra vita quotidiana creativa».
Mary Parker Follett

Su Wikipedia ancora nessuno ha pensato di aprire una pagina in italiano dedicata a Mary Parker Follett (1868-1933). Questo particolare la dice lunga sulla scarsa fama di cui gode in Italia questa pensatrice americana, il cui contributo è stato centrale per lo sviluppo del pensiero manageriale delle origini. Il confronto con la psicologia comportamentale e con quella della Gestalt permisero a Follett di elaborare un pensiero originale nel quale le logiche funzionalistiche e gerarchiche dell’organizzazione del lavoro sono rilette secondo una dinamica di valorizzazione dell’elemento umano che anticipa – e per molti versi supera – diversi elementi tematizzati dallo Human Resources Movement.

Il suo testo Esperienza creativa (1924) offre una lettura del tema della creatività di grande valore civile. Anzitutto, creatività non è cosa individuale ma relazionale. Il discorso di Follett sulla creatività è collettivo e sociale, ponendosi come presupposto per una vera democrazia. La creatività è integrazione di diversità e il tema della responsabilità e del confronto non sta nella risposta di un soggetto A a un soggetto B, ma nella relazione fra A, B e il contesto in cui entrambi si muovono. Tutti questi elementi sono dinamici, in continuo cambiamento. La loro relazione non avviene tramite un’entità astratta come la “mente”, ma in concreto, nel mondo, attraverso relazioni fisiche e motorie. La pratica della creatività è il processo di integrazione che scaturisce da questo incontro.

Follett dedica diverse pagine del suo saggio a un tema centrale per le organizzazioni contemporanee e più in generale per la società, quello del ruolo dell’esperto. La cieca fiducia che spesso viene conferita a chi è ritenuto in possesso di una conoscenza “esperta” rappresenta una delegittimazione della relazione di corresponsabilità e, di conseguenza, delle dinamiche alla base della creatività. Il presupposto erroneo di questo tipo di considerazione sta nel ritenere i fatti immutabili e le posizioni dell’esperto assolute. Ma, coerentemente con la dinamica di integrazione esposta da Follett, i fatti non potranno mai essere statici, né le interpretazioni oggettive. L’esperienza delegata non potrà mai prendere il posto di un’esperienza vissuta relazionalmente, dialetticamente. Ecco perché un’educazione al “buon uso” degli esperti, nei confronti dei quali il tema centrale è di nuovo quello del dialogo e dell’integrazione, è un presupposto fondamentale per una effettiva democrazia, tanto in ambito sociale quanto lavorativo.

[ illustrazione: Henry Matisse, La tristesse du roi, 1952 ]

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APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, FRUGALITÀ, MARKETING

C’è solo un modo giusto per montare un mobile Ikea?

La notizia della probabile chiusura del sito Ikea Hackers sta facendo il giro del mondo. Di cosa si tratta, esattamente?

Ikea Hackers nasce otto anni fa dall’iniziativa di un cittadino del Kuala Lumpur che si fa chiamare Jules Yap (è uno pseudonimo) e si definisce fan “pazzo e naif” (sono parole sue) dei mobili Ikea. Nel giro di pochissimo tempo, il suo sito diventa un riferimento internazionale per chiunque intenda fare con i kit Ikea cose diverse da quelle per cui sono stati pensati. Un po’ come comprare una scatola Lego e decidere, invece di seguire le istruzioni per assemblare una caserma dei pompieri, di costruirci altro. Tutto perfettamente legittimo, nonché animato da uno spirito creativo decisamente “jugaad”. I problemi per Jules Yap arrivano, come spesso accade, insieme al grande successo. Quando Jules si rende conto che il sito – che arriva a contare oltre 3000 esempi di hacking di prodotti Ikea – sta diventando un lavoro a tempo pieno, adotta un sistema di advertising che possa garantirgli qualche introito. Ikea se ne accorge e invia a Yap un’ingiunzione di chiusura, invocata in nome di un uso improprio del trademark dell’azienda svedese.

Perché Ikea sbaglia? Per diversi motivi. Anzitutto perché bolla come dannosa una preziosa fonte di pubblicità gratuita. In secondo luogo – come nota in questo articolo lo scrittore Cory Doctorow – perché confonde copyright e trademark con una manovra di dubbia legalità, che somiglia più a un atto di bullismo che a una legittima difesa. Infine, perché non comprende che, per tornare alla logica dei Lego, costringere chi acquista un kit a costruire solo quello che dicono le istruzioni è una indebita restrizione della creatività dei propri clienti, oltre che un passo falso in termini di marketing.

[ illustrazione: post del sito Ikea Hackers ]

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CONCETTI, ECONOMIA, INNOVAZIONE, MANAGEMENT, PAROLE, TEORIE

L’innovatore, un dilemma quasi maggiorenne

«Il diciottesimo secolo ha abbracciato l’idea di progresso; il diciannovesimo quella di evoluzione; il ventesimo quelle di crescita e innovazione. La nostra era ha prodotto la “disruption”, atavica a dispetto del suo mostrarsi futuristica. È una teoria della storia fondata su una profonda ansietà per un collasso finanziario, su una paura apocalittica di una devastazione globale».

Il quadro costruito da Jill Lepore, contributrice del «New Yorker», non può dirsi rassicurante. A diciassette anni dalla pubblicazione di Il dilemma dell’innovatore di Clayton M. Christensen, l’innovazione “disruptive” (improprio tradurla con “dirompente”) è una delle religioni più diffuse nel mondo del business. Professata – più di rado praticata – da orde di fedeli, è riconducibile al filone ideologico dell’innovazione come fine e non come mezzo.

Fra gli adepti, pochi realizzano che l’origine della disruption è di natura negativa. Il dilemma dell’innovatore è quello del fare la cosa giusta al momento sbagliato: la storia è troppo veloce, il cambiamento incalza, i più restano indietro. Chi sopravvive, guida il cambiamento. Le sue innovazioni, se guardate retrospettivamente (come del resto ogni successo, participio passato del verbo succedere), passano alla storia come radicali, dirompenti. Questo, per sommi capi, il pensiero di Christensen.

Il concetto di “disruption” altro non è che una rimasticatura in salsa americana della “distruzione creatrice” teorizzata fin dal 1942 da Joseph Schumpeter. Quanto Christensen vi aggiunge – suffragato da casi studio di cui l’articolo di Jill Lepore mette in luce una certa pretestuosità – è un’indole di spietatezza che antepone il successo a qualsiasi regola, responsabilità e sostenibilità di lungo periodo. Non è casuale l’esempio citato da Lepore in proposito: quando l’industria finanziaria si è messa a innovare in maniera disruptive, ha generato una crisi globale. E tuttavia, proprio come lo scoppio della bolla delle dot.com, la crisi non ha sedato le attitudini disruptive ma le ha rinfocolate. Mostrando tutta la ricorsività di un’ideologia il cui principale alimento è la paura.

[ illustrazione: Free Universal Construction Kit ]

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ANTROPOLOGIA, BENI CULTURALI, CITTÀ, CULTURA, SOCIETÀ

La lenta agonia del pub, bene culturale della convivialità alcolica

«Drinking, while sleeping, strangers unknowingly keep me company. The only words I’ve said today are beer and thank you».
da: Bill Callahan, The Sing

In Inghilterra è in corso una rivoluzione antropologica destinata a influire tanto sull’ethos nazionale quanto sull’immaginario collettivo: il pub, da immemorabile tradizione luogo di incontro, convivialità e sonore sbronze, è scosso da mutamenti collettivi fino a un paio di lustri fa inimmaginabili. Gli inglesi d’oggi si iscrivono in palestra e mangiano gourmet; professano il wellness e ripudiano l’ham and eggs. Fanno tappa in birrifici artigianali e biologici dove fare rifornirsi di alcool in vista di frugali consumi casalinghi. Sembra proprio che la cultura del boozing stia passando di moda, almeno stando alla brutalità dei dati: oggi si beve il 20% meno rispetto al decennio scorso. Quanto ai circa 50.000 pub tradizionali sparsi per la Gran Bretagna, in 28 alla settimana risuona per l’ultima volta la campanella del last call delle 11 p.m.

Fra chi intende opporsi a questo stillicidio, spicca l’organizzazione “Campaign for real Ale”, le parole del cui portavoce Tom Stainer suonano così:

«Non puoi sentirti solo in un pub. Anche se non parli a nessuno, puoi stare seduto in un angolo a leggere il giornale, farti una pinta e sentirti comunque parte della società. Questa è una delle gran cose dei pub».

Difficile non concordare. Ancor più difficile immaginare come mettere in salvo un senso di comunità che rischia di annegare nella frammentazione di miriadi di addomesticate solitudini domestiche.

[ illustrazione: John French Sloan, McSorley’s Bar, 1912 ]

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ARCHITETTURA, CITTÀ, INDUSTRIA, LAVORO, UFFICI

Olivetti e Ivrea: il fallimento del sogno industriale e il declino di una città

Il 1959 è un anno cruciale per Olivetti e per l’intera industria italiana: viene presentato Elea 9003, primo computer mainframe al mondo interamente basato su transistor. Olivetti è l’avamposto italiano della rivoluzione elettronica incarnata dai calcolatori, raccontata per l’occasione da un fantascientifico documentario (regia di Nelo Risi, musiche di Luciano Berio). Rispetto allo sviluppo sul territorio, dopo la sede aperta a Pozzuoli ci si volge all’area di Rho (alle porte di Milano), coinvolgendo l’architetto più in linea con il pensiero olivettiano, Le Corbusier. L’azienda – che complessivamente supera i 50.000 dipendenti – è guidata dall’imprenditorialità illuminata di Adriano Olivetti (1901-1960). Un riferimento che oggi, a oltre 50 anni di distanza, si continua a studiare e celebrare, unione di spirito scientifico e umanistico che affida ruoli dirigenziali a intellettuali e letterati (fra gli altri Musatti, Fortini, Volponi, Ottieri, Gallino). Ivrea, storica sede in cui il padre di Adriano, Camillo (1868-1943), diede avvio all’impresa nel 1908, è un esempio di welfare aziendale senza pari in Italia.

Pochi anni dopo, il sogno comincia a sgretolarsi. Nel 1960, dopo la morte di Adriano, è il figlio Roberto (1928-1985) a prendere in mano l’azienda e il piano per la nuova sede di Rho. Nel 1962 il progetto viene completato, ma vicende interne all’azienda ne rallentano la realizzazione: in seguito a difficoltà di gestione, la divisione elettronica viene venduta nel 1964 alla General Electric. Nel 1965 sopraggiunge la morte di Le Corbusier, che congela per sempre il progetto di Rho lasciandolo in eredità alle future speculazioni degli studiosi di architettura industriale – fra queste spicca il volume Le Corbusier e Olivetti. La «Usine Verte» per il Centro di calcolo elettronico di Silvia Bodei (2014). Alla morte di Roberto, nel 1985, l’azienda è già da quasi dieci anni in mano a Carlo De Benedetti, al quale si deve l’abbandono del mondo dell’informatica a favore di una forse coraggiosa ma certo sfortunata avventura nel mondo della telefonia mobile. Cosa è avvenuto in seguito? Come ricostruito da un articolo di «Pagina 99» del 14.06.14, Olivetti fu vittima di un progressivo piano di smantellamento da molti descritto come “omicidio industriale”.

Oggi l’azienda continua a esistere, come piccola controllata del gruppo Telecom. I suoi dipendenti sono meno di 600, impegnati nella progettazione e commercializzazione di prodotti per il settore bancario e postale che vengono realizzati in Cina. Del progetto di welfare olivettiano restano tracce ovunque a Ivrea: nelle architetture, nello spirito imprenditoriale che ha dato vita a diverse micro-imprese iperspecializzate e, soprattutto, nei risparmi delle classi lavorative degli anni passati, sulle cui spalle si appoggiano i più o meno fortunati tentativi imprenditoriali dei giovani lavoratori d’oggi. Cercando di svincolarsi dal suo passato industriale, Ivrea ha nel frattempo intrapreso due nuove avventure, quella dei call center (oggi messa in crisi dalle varie delocalizzazioni) e quella dello studio televisivo canavese Telecittà, dove si gira da anni il serial tv Centovetrine (che continua a dare lavoro a circa 300 persone, benché nel 2012 abbia rischiato la chiusura). Nel frattempo, la tradizionale “battaglia delle arance” di Ivrea ha segnato nel 2014 il suo record di presenze.

[ illustrazione: show room Olivetti in Svizzera, 1957 ]

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CAMBIAMENTO, COMUNICAZIONE, INNOVAZIONE, LAVORO, MARKETING

Wally Olins, inventore del “brand totale”

In occasione della scomparsa di Wally Olins (1930-2014), «The Economist» dedica un articolo alla carriera del grande consulente di branding inglese. Dopo una laurea in storia a Oxford, Olins si trasferì a Londra per occuparsi di pubblicità. Assunto da Ogilvy and Mather, fu incaricato di gestirne l’ufficio di Mumbai, città ove visse per diversi anni. Di ritorno a Londra alla metà degli anni ’60, fondò con un socio la Wolff Olins, azienda di consulenza destinata a rivoluzionare il mondo della pubblicità.

In un mercato in cui le aziende erano abituate a investire sforzi e risorse esclusivamente per pubblicizzare specifici prodotti, l’intuizione di Olins fu dirompente: perché non iniziare a promuovere l’intera azienda come un brand? Lavorando sull’importanza della connessione emotiva con i propri clienti, Olins riuscì a convincere moltissime aziende della centralità del corporate branding come parte integrante di una strategia di marketing di lungo termine. A riprova del successo dell’idea, perfino individui, associazioni non governative, musei, città e nazioni iniziarono ben presto a coltivare il proprio brand.

Il cambiamento culturale innescato da Olins fu tanto repentino quanto incisivo: a distanza di meno di cinquant’anni dalla sua nascita, il “brand totale” appare uno strumento aziendale così ovvio e indispensabile da sembrare sempre esistito. Oltre a cambiare per sempre il modo in cui le aziende guardano alla propria immagine, Olins riuscì a modificare le logiche di un intero settore lavorativo: la nuova attenzione al brand mise in discussione lo strapotere delle grandi agenzie pubblicitarie e favori la costruzione di un mercato più frammentato, in cui piccole agenzie hanno potuto specializzarsi e crescere coltivando la propria nicchia.

[ illustrazione: caricatura di Wally Olins realizzata da Yann Legendre ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CREATIVITÀ, EPISTEMOLOGIA, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Scrivere a mano serve ancora a qualcosa?

Un recente articolo del «New York Times» raccoglie e commenta le più aggiornate opinioni della neuroscienza riguardo lo scrivere a mano. Se il decadimento dello studio della calligrafia nelle scuole è un dato di fatto – che trova un ironico contraltare nella nuova “alfabetizzazione manuale” imposta alle dita di ragazzi e adolescenti da smartphone e tablet – , quel che soprattutto conta chiedersi è se scrivere a mano e a computer siano attività equivalenti rispetto alle capacità di ragionamento e apprendimento.

Partiamo dai più piccoli: quando un bambino scrive usando una penna, produce parole più velocemente che con una tastiera. Non solo, afferma la neuroscienza: è anche in grado di recepire più idee. Passando alle aule universitarie, chi prende appunti su carta è uno studente più produttivo rispetto a chi lo fa con un computer. Si badi: nonostante quanto l’intuito potrebbe suggerire, la posizione di svantaggio del computer non ha molto a che fare con le distrazioni offerte da una connessione a internet. Ciò di cui il battere sui tasti pare privo è la relazione con un processo di riflessione e manipolazione concettuale che solo lo scrivere a mano è in grado di innescare.

Pensare con carta e penna attiva aree del cervello legate all’apprendimento che restano “spente” quando lavoriamo con un computer; aiuta a memorizzare, a organizzarsi, a sviluppare senso del controllo. La materializzazione del pensiero resa possibile dallo scrivere a mano rappresenta dunque una risorsa fondamentale e a oggi insuperata per lo sviluppo cognitivo e per la capacità di apprendere.

[ illustrazione: foglio dal manoscritto di Elsa Morante per L’isola di Arturo, edito nel 1957 ]

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APPRENDIMENTO, COMUNICAZIONE, SCIENZA, TECNOLOGIA

La “sconfitta” di Turing non è una vittoria per l’intelligenza artificiale

Il 7 giugno 2014, a distanza di 60 anni dalla morte del matematico britannico Alan Turing (1912-1954), il mondo dell’intelligenza artificiale ha celebrato un’attesa vittoria, quella sul celebre test che lo stesso Turing mise a punto nel 1950 e che fino a oggi non era mai stato superato.

Il test di Turing si basa su questa dinamica: un esaminatore dialoga in forma scritta (negli anni ’50 via telescrivente, oggi via chat) con un essere umano e con una macchina. Se quest’ultima riesce a rendersi indistinguibile rispetto alla controparte umana e quindi a ingannare l’esaminatore, il test può dirsi superato. Turing prevedeva che suo il test sarebbe stato “vinto” nell’arco di cinquant’anni; evidentemente, ce ne sono voluti ben sessantaquattro.

Nell’impresa è riuscito il personaggio di Eugene Goostman, “ragazzino virtuale” di 13 anni. I suoi programmatori – di nazionalità russa e ucraina – hanno dedicato gli ultimi dodici anni a questo progetto di “chatterbox”, partecipando a molte competizioni legate al Test di Turing. Ora che l’obiettivo è stato raggiunto, la comunità scientifica internazionale si interroga sul suo significato per la ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale.

Per la verità, la maggior parte degli articoli pubblicati in questi giorni mette in discussione il risultato ottenuto dai creatori di Eugene Goostman. Diverse argomentazioni tecniche dimostrerebbero la non idoneità dell’esperimento rispetto alle regole stabilite da Turing. Per una buona sintesi di questi pareri critici, è consigliata la lettura di questo articolo di Paolo Attivissimo.

Le osservazioni più cruciali sulla vicenda sono in ogni caso quelle presentate sul «New Yorker» dallo studioso cognitivo Gary Marcus. Il problema di Eugene Goostman è che si basa, esattamente come tutti i chatterbox che l’hanno preceduto (su tutti il celebre ELIZA, psicoterapista virtuale messo a punto nel 1966), sul riconoscimento di pattern e non certo su una reale abilità di dialogo e risposta. Marcus ricorda che, dal 1950 a oggi, sono state sviluppate molte macchine in grado di svolgere egregiamente un compito verticale e specialistico, come per esempio il super computer IBM Deep Blue che nel 1996 sconfisse lo scacchista russo Garry Kasparov, allora campione del mondo in carica. Ma nessuna macchina è mai stata in grado di dar prova dell’intelligenza “orizzontale” tipica degli uomini. Per tornare a un argomento qui trattato ieri, nessuna macchina – conclude Marcus – può nemmeno lontanamente avvicinarsi alle capacità di apprendimento e intelligenza di un bambino. In questo senso, ammesso che il test di Turing possa considerarsi realmente superato, la ricerca sull’intelligenza artificiale non fa certo passi avanti grazie a Eugene Goostman. Per rendersene conto, basta fare una chiacchierata con lui qui.

[ illustrazione: ritratto fotografico di Alan Turing ]

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APPRENDIMENTO, BIGDATA, LAVORO, SCIENZA, TECNOLOGIA

Perché i computer non saranno mai all’altezza degli uomini? Perché non sanno essere infantili

Durante gli anni ’80, gli studi sull’intelligenza artificiale hanno iniziato a scontrarsi contro un’evidenza: se simulare con un computer un livello “adulto” di intelligenza è relativamente semplice, risulta praticamente impossibile trasferirgli le abilità di un bambino di un anno.

Il “paradosso di Moravec” (dal nome dell’esperto di robotica austriaco Hans Moravec) descrive la difficoltà – attualmente irrisolta – di condurre un elaboratore elettronico a impadronirsi di capacità umane primordiali. Come ha notato lo studioso americano – e co-fondatore del MIT – Marvin Minsky, le facoltà umane su cui è più difficile applicare processi di “reverse engineering” finalizzati alla loro simulazione sono proprio quelle più basiche e, per molti versi, inconsce.

C’è un aspetto controintuitivo che rende preziosa questa scoperta: mentre ci immagineremmo arduo simulare abilità che per noi comportano un apprendimento faticoso (relativo per esempio a cognizioni ingegneristiche, matematiche e in generale a tutto ciò che etichettiamo come “scienza”), queste risultano in realtà molto più facili da trasferire a un computer rispetto a facoltà “innate” legate alla percezione, all’attenzione, alle capacità motorie e sociali.

Le abilità più recenti sulla linea temporale dell’evoluzione umana comportano per noi maggiori difficoltà di apprendimento proprio perché relativamente nuove e non interiorizzate; quelle più remote, benché molto più complesse, ci appaiono semplici perché agite in maniera trasparente e spontanea. I computer, privi del nostro background biologico e ben lontani da qualsiasi forma si spontaneità, incontrano grandi difficoltà nel simulare le seconde mentre ottengono buoni risultati nelle prime.

Secondo lo studioso cognitivo Steve Pinker, tutto questo ha un risvolto che dovrebbe tranquillizzare quanti sentono il proprio posto di lavoro minacciato da computer sempre più potenti. Se alcune professioni risultano effettivamente a rischio, altre non lo saranno mai, o quasi, proprio per via del paradosso di Moravec: i posti di lavoro di analisti finanziari e ingegneri petrolchimici saranno forse assunti da macchine nel giro di pochi anni; quelli di giardinieri, receptionist e cuochi non lo saranno verosimilmente ancora per moltissimo tempo.

[ illustrazione: fotogramma dal film Artificial Intelligence di Steven Spielberg, 2001 ]

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SOCIETÀ, SPORT

E sei i mondiali di calcio si giocassero a tre porte?

«Immaginate una partita di calcio disputata non da due, ma da tre squadre: dall’inevitabile e mutante collaborazione tra i giocatori in campo vedrete emergere l’equilibrio perfetto».

Con queste parole del 1962, l’artista situazionista danese Asger Jorn (1914-1973) intendeva offrire un contributo metaforico al superamento della tensione bi-polare innescata dalla Guerra Fredda. Occorre un terzo soggetto, notava Jorn, proprio come in una partita di calcio a tre porte.

Difficilmente Jorn poteva immaginare che la sua utopia si sarebbe trasformata in realtà. Di certo non in maniera così letterale: a trent’anni di distanza, l’Associazione Psicogeografica di Londra ha preso molto sul serio le parole dell’artista danese, dando vita al 3-sided-football. Un articolo di «Pagina99» del 07.06.14 ne racconta gli sviluppi.

A partire dai suoi esordi londinesi, nel corso degli anni ’90 e 2000 il calcio a tre sponde si è diffuso in tutto il mondo (perfino in Italia, grazie ad alcune sperimentazioni condotte in centri sociali grazie al collettivo Luther Blissett), mantenendo in ogni caso un forte radicamento anglosassone. Il ruolo critico che questa variante situazionista del calcio può assumere, soprattutto in giornate in cui un Paese martoriato dalla povertà come il Brasile sta per essere invaso da una kermesse a uso e consumo della società dello spettacolo, può essere fondamentale. A renderlo evidente sono le parole del docente gallese Geoff Andrews, attento studioso della situazione politica italiana e ovviamente sostenitore del 3-sided-football:

«Se per Asger Jorn il calcio a tre lati era una forma di critica alla deriva capitalista, mezzo secolo dopo per noi è la risposta dal basso al Corporate Football degli sceicchi, degli oligarchi, degli sponsor e delle pay-tv».

[ illustrazione: particolare da un poster realizzato dall’agenzia The Invisible Dot per un torneo di 3-sided-football tenutosi a Edimburgo ]

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