La notizia della probabile chiusura del sito Ikea Hackers sta facendo il giro del mondo. Di cosa si tratta, esattamente?

Ikea Hackers nasce otto anni fa dall’iniziativa di un cittadino del Kuala Lumpur che si fa chiamare Jules Yap (è uno pseudonimo) e si definisce fan “pazzo e naif” (sono parole sue) dei mobili Ikea. Nel giro di pochissimo tempo, il suo sito diventa un riferimento internazionale per chiunque intenda fare con i kit Ikea cose diverse da quelle per cui sono stati pensati. Un po’ come comprare una scatola Lego e decidere, invece di seguire le istruzioni per assemblare una caserma dei pompieri, di costruirci altro. Tutto perfettamente legittimo, nonché animato da uno spirito creativo decisamente “jugaad”. I problemi per Jules Yap arrivano, come spesso accade, insieme al grande successo. Quando Jules si rende conto che il sito – che arriva a contare oltre 3000 esempi di hacking di prodotti Ikea – sta diventando un lavoro a tempo pieno, adotta un sistema di advertising che possa garantirgli qualche introito. Ikea se ne accorge e invia a Yap un’ingiunzione di chiusura, invocata in nome di un uso improprio del trademark dell’azienda svedese.

Perché Ikea sbaglia? Per diversi motivi. Anzitutto perché bolla come dannosa una preziosa fonte di pubblicità gratuita. In secondo luogo – come nota in questo articolo lo scrittore Cory Doctorow – perché confonde copyright e trademark con una manovra di dubbia legalità, che somiglia più a un atto di bullismo che a una legittima difesa. Infine, perché non comprende che, per tornare alla logica dei Lego, costringere chi acquista un kit a costruire solo quello che dicono le istruzioni è una indebita restrizione della creatività dei propri clienti, oltre che un passo falso in termini di marketing.

[ illustrazione: post del sito Ikea Hackers ]