CAMBIAMENTO, COMUNICAZIONE, INNOVAZIONE, LAVORO, MARKETING

Wally Olins, inventore del “brand totale”

In occasione della scomparsa di Wally Olins (1930-2014), «The Economist» dedica un articolo alla carriera del grande consulente di branding inglese. Dopo una laurea in storia a Oxford, Olins si trasferì a Londra per occuparsi di pubblicità. Assunto da Ogilvy and Mather, fu incaricato di gestirne l’ufficio di Mumbai, città ove visse per diversi anni. Di ritorno a Londra alla metà degli anni ’60, fondò con un socio la Wolff Olins, azienda di consulenza destinata a rivoluzionare il mondo della pubblicità.

In un mercato in cui le aziende erano abituate a investire sforzi e risorse esclusivamente per pubblicizzare specifici prodotti, l’intuizione di Olins fu dirompente: perché non iniziare a promuovere l’intera azienda come un brand? Lavorando sull’importanza della connessione emotiva con i propri clienti, Olins riuscì a convincere moltissime aziende della centralità del corporate branding come parte integrante di una strategia di marketing di lungo termine. A riprova del successo dell’idea, perfino individui, associazioni non governative, musei, città e nazioni iniziarono ben presto a coltivare il proprio brand.

Il cambiamento culturale innescato da Olins fu tanto repentino quanto incisivo: a distanza di meno di cinquant’anni dalla sua nascita, il “brand totale” appare uno strumento aziendale così ovvio e indispensabile da sembrare sempre esistito. Oltre a cambiare per sempre il modo in cui le aziende guardano alla propria immagine, Olins riuscì a modificare le logiche di un intero settore lavorativo: la nuova attenzione al brand mise in discussione lo strapotere delle grandi agenzie pubblicitarie e favori la costruzione di un mercato più frammentato, in cui piccole agenzie hanno potuto specializzarsi e crescere coltivando la propria nicchia.

[ illustrazione: caricatura di Wally Olins realizzata da Yann Legendre ]

APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, SCIENZA, TEORIE

Ecco perché la scienza gode di cattiva salute

Un recente numero dell’«Economist» ha aperto un’accesa discussione sull’approccio alla scoperta scientifica. Quel che si mette in discussione è uno dei suoi capisaldi, cioè la verifica della bontà di un esperimento tramite la sua ripetizione. In questo ambito “replicabilità” è tradizionalmente inteso come sinonimo di “oggettività”, dunque mettere in discussione questo presupposto significa minare l’intera impalcatura del metodo scientifico. È quello che ha di recente fatto un test condotto dalla farmaceutica americana Amgen: cercando di replicare 53 studi sulla ricerca contro il cancro considerati fondamentali, ha ottenuto successo in soli sei casi. Il che significa che i restanti 47 studi si sono rivelati fallaci.

L’esperimento citato non è che la più manifesta spia di una situazione di difficoltà generalizzata. Secondo l’«Economist» la principale causa di questo fallimento sarebbe da rintracciarsi nel clima estremamente competitivo e forsennato della ricerca scientifica. In termini di produzione di nuovi studi, lo slogan di molti ricercatori è purtroppo diventato “publish or perish” e la conseguente concentrazione su quantità e velocità va evidentemente a scapito della qualità delle pubblicazioni. Insieme a questo problema ne esiste un secondo, altrettanto grave, legato alle modalità di verifica degli studi stessi. È di nuovo un piccolo test, in questo caso condotto da un biologo di Harvard, a mettere in luce il problema. Inviando a 304 riviste scientifiche un paper pieno di errori e mancanze, il suddetto ricercatore è comunque riuscito a vederselo pubblicato da ben 157 testate. È evidente che la fiducia nei confronti di un sistema viziato sia rispetto alle sue modalità di produzione che a quelle di verifica è destinata a calare vertiginosamente. Citando l’Economist:

«Science still commands enormous – if sometimes bemused – respect. But its privileged status is founded on the capacity to be right most of the time and to correct its mistakes when it gets things wrong. And it is not as if the universe is short of genuine mysteries to keep generations of scientists hard at work. The false trails laid down by shoddy research are an unforgivable barrier to understanding».

[ illustrazione: fotogramma da Flesh for Frankenstein di Paul Morrisey, 1973 ]