APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, FOTOGRAFIA, MEDIA, TECNOLOGIA

Luigi Ghirri e la giusta velocità della fotografia

«Il grande ruolo che ha oggi la fotografia, da un punto di vista comunicativo, è quello di rallentare la velocizzazione dei processi di lettura dell’immagine».

Questa frase di Luigi Ghirri (1943-1922), contenuta nella raccolta Lezioni di fotografia (2011) e risalente al biennio 1989-1990, assume un senso particolare se relazionata allo sviluppo della fotografia negli ultimissimi anni.

I due eventi cruciali che hanno determinato l’attuale svolta comunicativa e sociale della fotografia sono stati l’avvento degli smartphone (il primo cellulare capace di scattare foto risale al 2000) e la nascita di “app” specificamente dedicate alla condivisione di fotografie (Instagram esordisce nel 2010). Come effetto di questi eventi, oggi scattare fotografie implica per la maggior parte di noi condividerle. Non significa più stamparle per fruirle con calma nel corso del tempo, ma inviarle istantaneamente e consumarle nel giro di un paio di commenti o “like”.

Assumendo una prospettiva storica, si può tranquillamente affermare che sia stata proprio la fotografia, aggiungendo alla stampa qualcosa che ancora le mancava, ad aver reso più veloci i processi comunicativi, spostandoli dal contenuto alla forma e dalla razionalità all’emotività. Le parole pronunciate da Ghirri 25 anni fa suonano dunque come un tentativo mosso dall’interno – cioè da parte di un professionista del mezzo fotografico – di invertire la rotta. Quel che va riscontrato è che le cose non sono andate proprio così. La stessa fortuna postuma dell’estetica di Ghirri – suo malgrado annoverabile tra le fonti di ispirazione per i filtri “anticati” di software come Instagram – è purtroppo prova lampante del generale fallimento del suo progetto.

Ecco perché, per chi ancora ritenga opportuno farle proprie, le parole di Ghirri continuano a suonare oggi importanti per sostenere il ruolo conoscitivo – e non solo comunicativo – della fotografia.

[ illustrazione: Luigi Ghirri, Rifugio Grostè, 1983 ]

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COMUNICAZIONE, PERCEZIONE, SCIENZA, STORIE, TECNOLOGIA

Atul Gawande e i differenti destini delle innovazioni

«This has been the pattern of many important but stalled ideas. They attack problems that are big but, to most people, invisible; and making them work can be tedious, if not outright painful».

Così si esprime, in un corposo articolo per il New Yorker, Atul Gawande, medico e giornalista statunitense autore del best-seller Checklist (2010). Quanto messo in luce riguarda la distanza tra l’efficacia sperimentale di una innovazione e la sua reale opportunità di utilizzo. Per motivare la sua tesi Gawande utilizza due esempi legati all’avanzamento della pratica medica: l’introduzione dell’anestetico e quella dell’antisettico.

La storia della diffusione dell’anestetico è sorprendente quanto a velocità, soprattutto se letta rispetto al suo contesto storico: nel novembre 1846 il medico di Boston Jacob Bigelow (1787-1879) rese pubblico su una rivista medica locale il risultato delle sue sperimentazioni con l’etere a fini sedativi. Nel febbraio 1847, in seguito a un giro di passaparola legato a incontri, lettere e pubblicazioni su riviste, l’anestesia in sala chirurgica si era già imposta come prassi in tutte le capitali europee.

Il caso dell’antisettico ha un esordio molto simile. Sulla base di alcune sperimentazioni di Louis Pasteur, il medico scozzese Joseph Lister (1827-1912) mise a punto un metodo per disinfettare le mani medici prima delle operazioni, riducendo così i rischi di setticemia. Pubblicò il suo resoconto scientifico a riguardo nel 1867, disponendolo a un successo simile a quello di Bigelow. Così non fu. A distanza di venti anni dal lavoro di Lister, le vecchie, antigieniche (e mortali) procedure da sala operatoria continuavano a essere usate. L’introduzione di pratiche realmente antisettiche impiegò per la sua diffusione oltre una generazione.

Come mai andò così? La spiegazione di Gawande si focalizza su un primo aspetto centrale: mentre una delle due innovazioni si indirizzava a un problema visibile (il dolore), la seconda era rivolta a qualcosa di invisibile (i microbi causa di infezioni). Nessuna sorpresa, quindi, che l’anestesia abbia avuto una più immediata comprensione e diffusione. In secondo luogo – aspetto forse ancora più cruciale – l’anestesia risultava per i medici una procedura semplice (e che metteva fuori gioco il paziente), mentre l’antisettico li obbligava a entrare in contatto con una sostanza sgradevole e in grado di bruciare l’epidermide al contatto.

Astraendo dai due casi, il principale apprendimento rimanda alla citazione iniziale: benché molte innovazioni si basino su un comprovato terreno di ricerca e sperimentazione, la loro applicazione spesso si arresta perché comprendere il loro effettivo valore non è unanimemente semplice e immediato e perché praticarle risulta molto oneroso. E questo accade tanto in sala operatoria quanto in azienda.

[ illustrazione: dagherrotipo del 1846 con la messa in scena di un’anestesia generale presso il Massachusetts General Hospital, di Boston ]

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BIGDATA, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

“Il cerchio” di Dave Eggers e il pericoloso potere dei dati

«But my point is, what if we all behaved as if we were being watched? It would lead to a more moral way of life. Who would do something unethical or immoral or illegal if they were being watched?»

Così si esprime uno dei personaggi principali di Il cerchio (2013) di Dave Eggers. Pur non contraddistinto da grande valore letterario, il romanzo rappresenta una puntuale riflessione sulla direzione in cui lo sviluppo delle tecnologie “social” ci sta conducendo, sia dal punto di vista della creazione di monopoli economici (su tutti: Google e Facebook) che da quello della tutela della privacy. Quanto Eggers descrive nel suo libro ha ben poco di fantascientifico e potrebbe tranquillamente realizzarsi nel giro di pochi anni.

Un sotto-tema che emerge con forza dal testo è quello dei “big data”, intesi tanto come strumento di personal tracking quanto come risorsa economica a disposizione dei colossi informatici. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, l’enorme potere delle informazioni aggregate rappresenta un inedito strumento di controllo che si sta progressivamente concentrando nelle mani di pochi decisori. Le riflessioni di Eggers qui si avvicinano molto a quelle di uno dei più attenti osservatori dei fenomeni mediatici, cioè Evgeny Morozov.

Sul fronte dell’impatto dei social media sugli individui, Eggers si allinea con quanti sostengono che la tensione a controllare e rendere pubblico praticamente ogni aspetto della propria vita rischi di condurre a pericolose derive dei rapporti sociali e a nuove psicopatologie. Un interessante spunto su questo tema ha a che fare con i cambiamenti delle modalità lavorative: se quasi venti anni fa Jeremy Rifkin parlava di La fine del lavoro (1995), quanto The Circle preconizza è un abbattimento delle barriere tra vita lavorativa e privata in cui la spettacolarizzazione e pubblicità di entrambe le sfere diventa un potentissimo driver di “conversioni economiche” all’interno di qualsiasi momento dell’esistenza.

[ illustrazione: particolare dalla copertina di The Circle di Dave Eggers ]

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ANTROPOLOGIA, CITTÀ, ECONOMIA, TECNOLOGIA

Silicon Valley porta la gentrificazione a San Francisco

Il processo di gentrificazione che ha interessato città come New York e Londra, mutate a uso e consumo dei loro cittadini più abbienti, interessa ora anche San Francisco. In questo caso a determinare il mutamento demografico è la giovane e ricca manodopera informatica che qui si trasferisce, attirata dalla mecca tecnologica di Silicon Valley.

I dati positivi sono impressionanti: a San Francisco la disoccupazione è scesa al 5%, grazie a un settore high-tech cresciuto del 58% tra il 2010 e il 2012, con quasi 1.900 startup che occupano il 30% degli edifici urbani. Altrettanto impressionanti sono gli elementi negativi: l’affitto medio di un bilocale ammonta a 3500$ mensili e ogni mese si contano almeno due sfratti nei confronti di inquilini non più in grado di sostenere questo tipo di spesa. Tutto ciò significa che la città sta gradualmente diventando il dormitorio di Silicon Valley, facendo sparire spazio vitale per i suoi precedenti abitanti. Si tratta di un grandissimo impoverimento sociale, soprattutto per una città fino a poco tempo fa contraddistinta da una grande ricchezza di sotto-culture.

Data la vicinanza con Silicon Valley, questo processo era probabilmente inevitabile. Come nota un recente articolo de La Lettura del Corriere della Sera, i giovani programmatori che popolano San Francisco non sono così diversi dai minatori che nell’Ottocento si spostavano in cerca d’oro e speranza. La dinamica di migrazione verso Frisco ha avuto la sua prova generale alla fine degli anni ’90 con il fenomeno delle dotcom, la cui “bolla” come noto esplose lasciando solo una vaga minaccia per la città. La seconda ondata migratoria ha potuto contare su basi molto più solide e a oggi la colonizzazione è effettiva, così come la frattura che spezza in due la città.

[ illustrazione: il Golden Gate di San Francisco in fase di costruzione, 1936 ]

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APPRENDIMENTO, CINEMA, COMUNICAZIONE, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Le innovazioni della macchina da scrivere

In tema di tecnologie comunicative, la storia delle innovazioni legate alla macchina da scrivere è fra le più interessanti. Originariamente sviluppatasi in Europa tra il 1830 e il 1870 circa, la macchina da scrivere diede vita a una miriade di sperimentazioni che continuarono a fiorire, anche oltreoceano, fino agli anni ’70 del XX secolo (sostanzialmente, fino all’avvento dei personal computer).

Una delle più curiose “piste” innovative dello sviluppo della macchina da scrivere fu quella legata alla presenza di elementi sferici nel design. Paradigmatica in questo senso fu la “Writing Ball” prodotta dal danese Rasmus Malling-Hansen a partire dal 1870. Sferica nel suo complesso, questa macchina da scrivere fu il primo modello distribuito commercialmente, nonché strumento d’elezione per gli ultimi anni di attività di Friedrich Nietzsche.

A novant’anni di distanza – e in questo caso in America – un elemento di design sferico tornò a comparire nella cosiddetta “golf-ball” del modello IBM Selectric. Commercializzata dal 1961, questa macchina da scrivere presentava, al posto delle classiche “stanghette” individuali per le lettere, un elemento rotatorio in grado di imprimere su carta i caratteri. L’invenzione di questo dispositivo è stata recentemente “romanzata” dal film Tutti pazzi per Rose (2012) di Régis Roinsard, in cui ad avere l’idea è un francese che poi cede a mani americane, notoriamente più scaltre in termini di business, lo sviluppo del progetto.

[ illustrazione: fotogramma dal film Populaire (2012) di Régis Roinsard ]

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ANTROPOLOGIA, COMUNICAZIONE, LAVORO, TECNOLOGIA

Le app come modello di pensiero

Un testo del “padre” delle intelligenze multiple Howard Gardner – scritto insieme a Katie Davis e intitolato The App Generation (2013) – traccia le abitudini comunicative dei più giovani, con particolare riferimento all’influenza delle nuove tecnologie.

Al di là di temi noti quali la preferenza per una comunicazione privata in forma scritta (in cui l’emotività è più gestibile) e l’ostentazione pubblica dello status sociale (la bacheca di Facebook in cui esporre come trofeo il numero di amici o di invitati a una festa), dell’analisi di Gardner e Davis colpisce soprattutto un tema, vale a dire quello dell’approccio alla pianificazione della propria vita.

Una delle principali attività svolte dai teenager tramite le app comunicative installate sui loro smartphone è quella di organizzare incontri con i propri amici. Il fattore novità legato a questa attività è quello di un approccio cosiddetto “on-the-fly”, che permette in pochi istanti di condividere un programma, cambiarlo, cancellarlo. La dinamica dell’incontro e dell’appuntamento, che prima dell’avvento dei cellulari viveva di una sua preparazione, di un accordo e poi della fiducia affidata al vedersi con qualcuno in un dato luogo a una data ora, è ora sconvolta da un’indecisione elevata a sistema che fa sì che tutto si giochi e rigiochi nell’istante.

Secondo Gardner e Davis la “mentalità delle app”, abituata ad avere informazioni, beni e servizi sempre disponibili on-line, porterebbe a trattare con la stessa pretesa di accessibilità anche le persone. Questo fenomeno, etichettato da alcuni studiosi anche come “microcoordination”, ha un forte impatto sulla percezione della presenza altrui e, evidentemente, delle aspettative e dei sentimenti legati a un cambiamento di idea o a un rifiuto. Provando a leggere questa nuova dinamica in proiezione rispetto all’età adulta e alla sfera lavorativa, è facile immaginare che il tema della pianificazione – a livello di singolo lavoratore o più in generale su un piano aziendale – sarà necessariamente impattato da questa inattesa svolta antropologica.

[ illustrazione: fotogramma dal film Bling Ring di Sofia Coppola, 2013 ]

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CINEMA, COMPLESSITÀ, ECONOMIA, LAVORO, POLITICA, TECNOLOGIA

La Guerra Fredda e il successo di Silicon Valley

C’è un fondamentale dettaglio sull’ascesa di Apple Computer che l’apologetico (e in definitiva mal fatto) film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern manca di mettere in luce: quello delle condizioni di contesto di cui Steve Jobs e Steve Wozniak poterono giovarsi. Ne parla, indirettamente, un articolo della rivista Slate.

Negli anni della Guerra Fredda il governo americano, terrorizzato dal fatto che qualsiasi nuova scoperta potesse essere usata in chiave di arma militare, investì una ingente quantità di denaro nella ricerca accademica e scientifica. Un esempio di questa politica fu la nascita nel decennio 1958-1968 di ARPANET, esperimento comunicativo pilota destinato a dar vita negli anni successivi a internet.

In relazione alla compresenza di basi militari, centri tecnologici e poli universitari di prestigio, le due aree americane che più beneficiarono di investimenti governativi fin dagli anni ’40 furono Silicon Valley e la “route 128” in Massachussets (area di pertinenza del MIT e dell’università di Harvard). La spinta alla ricerca e la stabilità economica generate in quegli anni hanno costruito un formidabile humus culturale ed economico che nei decenni successivi ha permesso la sopravvivenza e il successo di moltissime startup tecnologiche fra cui Hewlett-Packard, Fairchild, Xerox – e ovviamente Apple.

[ illustrazione: fotogramma dal film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern ]

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GIOCO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Filosofia delle slot machine

«Non è affatto assurdo tentare la diagnosi di una civiltà partendo dai giochi che segnatamente vi fioriscono».

Così affermava nel 19767 Roger Caillois nel suo I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine. Oggi, un’antropologa del MIT di nome Natasha Dow Schull cerca di applicare questo principio all’attuale società americana partendo dall’analisi del gioco d’azzardo.

Nel suo Addiction by Design: Machine Gambling in Las Vegas (2012) Schull si sofferma in particolare sull’enorme successo del gioco con slot machine. La prima considerazione a riguardo parte da un dato: l’80% degli introiti delle sale da gioco di Las Vegas deriva da slot machine, lasciando in secondo piano i giochi da tavolo come il poker. Secondo Schull, questo sarebbe un segnale di una crescente dimensione individualizzata del gioco d’azzardo, specchio di una tendenza al controllo e alla prevedibilità che nascerebbe per contrasto rispetto a una situazione personale e sociale percepita come eccessivamente complessa.

In tema di prevedibilità dell’esperienza, Schull nota come con le slot machine si giochi non tanto per vincere quanto per restare in una “zona di comfort” in cui le preoccupazioni quotidiane rispetto alla sfera economica vengono esorcizzate e mantenute sospese in un limbo fatto di suoni e luci tranquillizzanti. In questo processo l’interazione con una macchina – e non con persone – risulta cruciale nel sostenere la natura privata del gioco e dei suoi esiti.

[ illustrazione: fotogramma tratto dal film Casino di Martin Scorsese, 1995 ]

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BIGDATA, FOTOGRAFIA, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE, TECNOLOGIA

I limiti della percezione e il ruolo della fotografia

Il curatore americano Marvin Heiferman riflette in un suo articolo sull’irritazione che a volte la fotografia finisce, suo malgrado, per generare. Dagli anni ’70 a oggi, lo status della fotografia come “arte” è stato progressivamente accettato a livello collettivo, non senza reazioni negative. Se è vero che a disturbare molte persone è la sensazione di essere privi di conoscenze e strumenti utili per comprendere la fotografica, ad Heiferman interessa partire da una caratteristica essenziale della fotografia, vale a dire la sua indicalità. La fototografia è catalogabile, fra i diversi tipi di segno, come un indice, vale a dire una traccia che ha un rapporto estremamente diretto e materiale con il suo referente, proprio come accade per un’impronta. La foto-grafia è traccia del reale scritta grazie alla luce, che riproduce su un medium analogico o digitale una enorme quantità di dati e informazioni che spesso facciamo fatica a processare.

Come cita la teoria della “gist of the scene” (essenza della scena) elaborata dalla studiosa cognitiva Aude Oliva, la nostra percezione generale di quel che ci passa davanti agli occhi prende forma in appena 1/20 di secondo. Questa visione di insieme è estremamente schematica e carente dal punto di vista dei dettagli. Citando il classico esempio della percezione della foresta e di un singolo albero, la teoria della “gist of the scene” conferma che siamo naturalmente portati a percepire la forma generale della foresta e non a identificarne singolarmente un albero. È per questo motivo che l’osservazione della fotografia può continuare a metterci in difficoltà; oggi, in tempi di foto “sgranate” fatte con smartphone, quanto all’epoca del celebre gruppo f/64 (la cui cifra stilistica era la massima definizione ottenibile tramite il medium fotografico), il tema resta quello del colpo d’occhio.

[ illustrazione: Tokyo Stock Exchange di Andreas Gursky ]

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ANTROPOLOGIA, LAVORO, TECNOLOGIA, TEMPO

L’orologio da polso e la nascita del tempo lavorativo

Quella dell’orologio da polso è un’invenzione relativamente recente, posteriore per esempio rispetto a quella della fotografia. Se l’arte del far foto inizia a essere praticata tra gli anni ’20 e ’30 del XIX secolo, è solo nel 1868 che l’azienda svizzera Patek Philippe mette a punto il primo “montre au poignet”, confezionandolo per una contessa ungherese. Per gli uomini l’orologio da taschino rimane scelta d’elezione ancora per qualche decennio, finché le crude esigenze della prima guerra mondiale non convincono i più a passare alla praticità dell’orologio da polso.

Un fondamentale fenomeno legato alla diffusione dell’orologio da polso è l’invenzione del tempo del lavoro, o meglio di un tempo lavorativo coincidente con l’organizzazione industriale e con lo scientific management tayloristico, filosofia lavorativa che inizia a diffondersi proprio nei primi decenni del XX secolo. Non si tratta più, come avveniva nel caso del lavoro pre-industriale e agricolo, di una scansione temporale legata a cicli naturali, ma di una parcellizzazione della giornata che corrisponde all’organizzazione specialistica di compiti e mansioni. Il nuovo lavoro industriale definisce un nuovo tempo e genera perfino il concetto del “tempo libero” (cioè liberato dal lavoro).

Non a caso, il sociologo americano Lewis Mumford (1895-1990) ha definito l’orologio lo strumento chiave dell’era industriale. Il suo diventare portatile e addirittura indossato ha contribuito all’interiorizzazione di questo ruolo simbolico. Grazie all’orologio da polso, il tempo del lavoro diventa accessorio personale, non abbandonando mai chi lo indossa.

[ illustrazione: fotografia di Josef Koudelka scattata il 21 agosto 1968 mentre le truppe sovietiche invadono Praga ]

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