Il curatore americano Marvin Heiferman riflette in un suo articolo sull’irritazione che a volte la fotografia finisce, suo malgrado, per generare. Dagli anni ’70 a oggi, lo status della fotografia come “arte” è stato progressivamente accettato a livello collettivo, non senza reazioni negative. Se è vero che a disturbare molte persone è la sensazione di essere privi di conoscenze e strumenti utili per comprendere la fotografica, ad Heiferman interessa partire da una caratteristica essenziale della fotografia, vale a dire la sua indicalità. La fototografia è catalogabile, fra i diversi tipi di segno, come un indice, vale a dire una traccia che ha un rapporto estremamente diretto e materiale con il suo referente, proprio come accade per un’impronta. La foto-grafia è traccia del reale scritta grazie alla luce, che riproduce su un medium analogico o digitale una enorme quantità di dati e informazioni che spesso facciamo fatica a processare.
Come cita la teoria della “gist of the scene” (essenza della scena) elaborata dalla studiosa cognitiva Aude Oliva, la nostra percezione generale di quel che ci passa davanti agli occhi prende forma in appena 1/20 di secondo. Questa visione di insieme è estremamente schematica e carente dal punto di vista dei dettagli. Citando il classico esempio della percezione della foresta e di un singolo albero, la teoria della “gist of the scene” conferma che siamo naturalmente portati a percepire la forma generale della foresta e non a identificarne singolarmente un albero. È per questo motivo che l’osservazione della fotografia può continuare a metterci in difficoltà; oggi, in tempi di foto “sgranate” fatte con smartphone, quanto all’epoca del celebre gruppo f/64 (la cui cifra stilistica era la massima definizione ottenibile tramite il medium fotografico), il tema resta quello del colpo d’occhio.
[ illustrazione: Tokyo Stock Exchange di Andreas Gursky ]