CONCETTI, CREATIVITÀ, MANAGEMENT, PERCEZIONE

La creatività va all’università

“Creatività” è categoria aziendale per eccellenza, come ben dimostrato dal fatto che su Linkedin essa risulta la “buzzword” più in voga nei résumé di migliaia di persone. Sono state le aziende ad appropriarsi – ormai molti anni fa – di questo concetto e sono proprio le aziende a continuare a richiedere formazione orientata alla creatività, alimentando un mercato le cui principali beneficiarie sono state fino a oggi le società di consulenza. Ma le cose stanno cambiando, forse proprio in relazione ai résumé sopra citati.

In America i corsi universitari sulla creatività stanno spuntando come funghi. Dalla State University of New York alla Saybrook di San Francisco; dalla St. Andrews di Laurinburg alla Drexel di Philadelphia: questi i nomi delle prime istituzioni statunitensi che hanno attivato master o dottorati dedicati al tema. Di certo non tarderanno ad aggiungersene altre e c’è da immaginare che la moda possa in breve diffondersi anche in Europa.

È difficile valutare le conseguenze di questa novità. Dal punto di vista accademico, essa farà certo gola a molte università, pronte a far cassa grazie a nuovi corsi molto “vendibili” (un po’ come successo nei primi anni 2000 con la moda dei corsi interfacoltà dedicati al management della cultura). D’altro canto, provocherà reazioni contrariate da parte dei docenti meno inclini a fare i conti con una categoria davvero un po’ troppo aziendale. Per quanto riguarda l’aspetto divulgativo del concetto, si può forse sperare che veicolare l’idea secondo cui la creatività “si insegna” (e dunque si impara) contribuisca a indebolire l’alone esoterico che da sempre la accompagna, ma questo sarà da valutare nel corso del tempo.

Certo è che trent’anni circa di ossessione aziendale per la creatività hanno reso questo concetto materia da curriculum vitae al pari dei cliché sul “lavoro di gruppo / orientamento ai risultati”. Il fatto che uno studente sia oggi disposto a investire sulla promessa dell’acquisizione di una competenza che risponde al nome di creatività è probabilmente frutto di questa efficace opera di propaganda.

[ illustrazione: particolare dalla locandina del film Altered States di Ken Russell, 1980 ]

 

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EPISTEMOLOGIA, FOTOGRAFIA, METAFORE, PAROLE, PERCEZIONE, SEGNI

La foto vincitrice del World Press Photo e il rapporto tra testo e immagine

Il 13 febbraio 2014 sono stati annunciati i vincitori del World Press Photo di quest’anno. Il premio “photo of the year” se l’è aggiudicato il fotografo di reportage americano John Stanmeyer con l’immagine qui sopra.

Si tratta di una foto di indubbia e immediata forza compositiva. Più ambigua è la lettura del suo contenuto. A prima vista, sembrerebbe di vedere qui rappresentate persone in procinto di immortalare la luna con i propri telefoni. Secondo questa interpretazione, la foto parrebbe dunque in sintonia con l’ampio coro di chi denuncia l’abuso della documentazione – via smartphone e in tempo reale – di ogni momento della vita. Così intesa, l’immagine richiamerebbe in qualche modo l’ormai celebre foto scattata dal fotografo Michael Sohn in San Pietro in occasione dell’elezione dell’ultimo Pontefice. L’interpretazione, benché plausibile, non è corretta.

Il titolo attribuito all’immagine dal fotografo è Signal. Di quale segnale si parla? Con tutta probabilità di quello dei telefoni cellulari. Questa informazione allarga il contesto, ma non contribuisce né a delegittimare l’ipotesi precedentemente illustrata, né a suggerirne con chiarezza un’altra. Per giungere a una diversa ipotesi c’è bisogno di leggere anche le note di accompagnamento della foto, che svelano che essa è stata scattata sulla costa di Djibouti, comune punto di passaggio per migranti provenienti da diverse nazioni africane e diretti verso l’Europa. Le persone qui raffigurate cercano di catturare il segnale telefonico proveniente dalla Somalia, nella speranza di poter così comunicare con i propri cari.

Il rapporto tra testo e immagine messo in luce da questa foto chiama in causa le categorie semiotiche di denotazione e connotazione. Mentre la comprensione del livello denotativo di un’immagine riguarda il suo significato “letterale”, la lettura di quello connotativo lascia spazio a interpretazioni emotive, metaforiche e simboliche. Pensando proprio al rapporto tra fotografie e didascalie, Roland Barthes introdusse nel suo L’ovvio e l’ottuso (1982) il concetto di “ancoraggio”: il testo si àncora all’immagine, guidando (e spesso forzando) non solo la percezione denotativa, ma anche quella connotativa. La foto di Stanmeyer conferma l’efficacia delle riflessioni di Barthes e offre un nuovo affascinante esempio di foto che conduce a riflettere su come guardiamo e interpretiamo il mondo.

[ illustrazione: John Stanmeyer, Signal, 2013 ]

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COLORI, FOTOGRAFIA, PERCEZIONE

L’ambiguità conoscitiva del mezzo fotografico

Cosa pensiamo osservando questa immagine del fotografo americano Joel Sternfeld, intitolata semplicemente McLean, Virginia, December 1978? Prima ancora: cosa vediamo? Nei diversi piani dell’immagine, quel che anzitutto attira lo sguardo sono gli elementi caratterizzati dal colore dominante la scena, cioè l’arancione. In primo piano, una serie di zucche (molte delle quali rotte) sparse a caso su un prato. In secondo piano, un chiosco che vende verdure dove spicca, con in mano una zucca, un avventore. Questi è un pompiere e veste di arancio. Sullo sfondo, una casa in fiamme (il colore dominante è di nuovo l’arancione) con un camion di pompieri in azione.

Torniamo alla domanda iniziale: cosa pensiamo di fronte a questa fotografia? La percezione generale è solitamente uniforme: mentre un incendio è in atto, un pompiere pare del tutto ignaro della situazione, concentrato sul comprare zucche. Il contrasto tra le zucche abbandonate in primo piano e quelle ordinate in vendita al chiosco accresce il senso di paradosso e di incuria che riguarda una situazione di emergenza e la relativa disattenzione di un soggetto che da essa dovrebbe essere chiamato in causa.

A distanza di anni dallo scatto, Sternfeld ha rivelato in una intervista le sue effettive circostanze: l’incendio sullo sfondo è parte di un’esercitazione. Il pompiere in primo piano è in pausa, approfittando del break per acquistare delle zucche. Alla luce di questa informazione di contesto, il senso percepito dell’immagine può cambiare completamente.

Alle sue origini, il medium fotografico si lega alla promessa dell’oggettività. Oggi, la reazione generale alla fotografia è soprattutto legata al sospetto del “costruito”. Fra questi due estremi, che di fatto non smettono di relazionarsi, sta l’interesse della fotografia, che parla il linguaggio dell’ambiguità e della negoziazione di senso. Immagini come quella di Sternfeld sono preziose perché aiutano a mettere in discussione il nostro modo di guardare il mondo.

[ illustrazione: Joel Sternfeld, McLean, Virginia, December 1978 ]

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COMUNICAZIONE, PERCEZIONE, SCIENZA, STORIE, TECNOLOGIA

Atul Gawande e i differenti destini delle innovazioni

«This has been the pattern of many important but stalled ideas. They attack problems that are big but, to most people, invisible; and making them work can be tedious, if not outright painful».

Così si esprime, in un corposo articolo per il New Yorker, Atul Gawande, medico e giornalista statunitense autore del best-seller Checklist (2010). Quanto messo in luce riguarda la distanza tra l’efficacia sperimentale di una innovazione e la sua reale opportunità di utilizzo. Per motivare la sua tesi Gawande utilizza due esempi legati all’avanzamento della pratica medica: l’introduzione dell’anestetico e quella dell’antisettico.

La storia della diffusione dell’anestetico è sorprendente quanto a velocità, soprattutto se letta rispetto al suo contesto storico: nel novembre 1846 il medico di Boston Jacob Bigelow (1787-1879) rese pubblico su una rivista medica locale il risultato delle sue sperimentazioni con l’etere a fini sedativi. Nel febbraio 1847, in seguito a un giro di passaparola legato a incontri, lettere e pubblicazioni su riviste, l’anestesia in sala chirurgica si era già imposta come prassi in tutte le capitali europee.

Il caso dell’antisettico ha un esordio molto simile. Sulla base di alcune sperimentazioni di Louis Pasteur, il medico scozzese Joseph Lister (1827-1912) mise a punto un metodo per disinfettare le mani medici prima delle operazioni, riducendo così i rischi di setticemia. Pubblicò il suo resoconto scientifico a riguardo nel 1867, disponendolo a un successo simile a quello di Bigelow. Così non fu. A distanza di venti anni dal lavoro di Lister, le vecchie, antigieniche (e mortali) procedure da sala operatoria continuavano a essere usate. L’introduzione di pratiche realmente antisettiche impiegò per la sua diffusione oltre una generazione.

Come mai andò così? La spiegazione di Gawande si focalizza su un primo aspetto centrale: mentre una delle due innovazioni si indirizzava a un problema visibile (il dolore), la seconda era rivolta a qualcosa di invisibile (i microbi causa di infezioni). Nessuna sorpresa, quindi, che l’anestesia abbia avuto una più immediata comprensione e diffusione. In secondo luogo – aspetto forse ancora più cruciale – l’anestesia risultava per i medici una procedura semplice (e che metteva fuori gioco il paziente), mentre l’antisettico li obbligava a entrare in contatto con una sostanza sgradevole e in grado di bruciare l’epidermide al contatto.

Astraendo dai due casi, il principale apprendimento rimanda alla citazione iniziale: benché molte innovazioni si basino su un comprovato terreno di ricerca e sperimentazione, la loro applicazione spesso si arresta perché comprendere il loro effettivo valore non è unanimemente semplice e immediato e perché praticarle risulta molto oneroso. E questo accade tanto in sala operatoria quanto in azienda.

[ illustrazione: dagherrotipo del 1846 con la messa in scena di un’anestesia generale presso il Massachusetts General Hospital, di Boston ]

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METAFORE, PERCEZIONE, STORIE

Titanic e Olympic: la forza simbolica degli eventi tragici

La storia del transatlantico britannico Titanic, varato il 10 aprile 1912 e affondato il successivo 15 aprile, è nota a tutti, se non altro grazie ai molti film che ne hanno parlato (quello del 1997 di James Cameron non è infatti l’unico). Meno noto è che il Titanic aveva due navi gemelle, il Britannic e l’Olympic.

Il Britannic venne messo in uso nel 1914 e dopo l’inizio della Prima guerra mondiale e fu utilizzato come nave ospedale fine al 1916, quando venne affondato nel Mar Egeo da una mina navale tedesca.

L’Olympic fu la prima delle tre navi a entrare in servizio, nel 1911. Subì immediatamente uno stop, dovuto a un incidente con l’incrociatore Hawke. Quest’ultimo rimase distrutto, mentre l’Olympic tornò in cantiere per riparazioni trovandosi per qualche tempo di fianco al Titanic, ancora in fasi di ultimazione. In breve la nave fu di nuovo in mare e venne utilizzata per trasporto passeggeri fino all’inizio del conflitto bellico, quando venne messa al servizio dell’esercito inglese e adibita al trasporto truppe. Tornò al trasporto passeggeri nel 1920 per rimanere attiva fino al 1934, anno in cui ebbe un incidente con la nave americana Nantucket, per il cui equipaggio l’evento fu fatale. In questo stesso anno la nave intraprese il suo ultimo viaggio, verso New York. Venne in seguito spogliata dei suoi ricchi arredi interni e infine demolita.

La storia di queste tre navi gemelle è un monito nei confronti della parzialità delle nostre memorie e del ruolo simbolico che affidiamo agli eventi. Il fatto che nel corso del tempo la tragica storia del Titanic abbia alimentato la nostra fantasia (filmica e più in generale metaforica) molto più di quella di successo dell’Olympic, di fatto sopravvissuto a ben due incidenti, dovrebbe dare da pensare.

[ illustrazione: l’Olympic fotografato nel 1911 in arrivo a New York ]

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APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, FILOSOFIA, LAVORO, PERCEZIONE

Fallimento e consapevolezza

In tempi di recessione, riflettere sul senso del limite e del fallimento offre una preziosa opportunità per riconsiderare gli usuali punti di vista. La lettura di un articolo del New York Times offre diversi spunti di riflessione a riguardo.

Anzitutto, il fallimento è consustanziale alla nostra natura di esseri finiti. Ci ricorda che tutti i piani di grandezza, crescita e prosperità devono prima o poi confrontarsi con un limite:

«Failure is the sudden irruption of nothingness into the midst of existence. To experience failure is to start seeing the cracks in the fabric of being, and that’s precisely the moment when, properly digested, failure turns out to be a blessing in disguise».

Comprendere come affrontare il fallimento si rivela una capacità fondamentale, che ci aiuta ad acquisire consapevolezza della nostra imperfezione e, in senso propositivo, del continuo slancio che esiste tra quel che siamo e quel che possiamo diventare.

[ illustrazione: foto di John Dominis, Mickey Mantle Having a Bad Day at Yankee Stadium, New York, 1965 ]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Breve storia della cocaina e dell’accettazione sociale

Un breve riferimento alla diffusione storica della cocaina è utile a mostrare quanto la nostra percezione – in questo caso con riferimento alla pericolosità e alla natura illecita di una sostanza – non sia “naturale” ma culturalmente determinata. Come un articolo della rivista Salon mette bene in luce, la “scoperta” della cocaina è inoltre un ottimo esempio della collisione tra il Vecchio e il Nuovo Mondo.

Fu proprio con la scoperta dell’America che nacque un grande interesse per le caratteristiche della cocaina, che venne studiata per le sue proprietà lenitive fino a tutto il secolo XIX. All’interno di questo processo di studio molto rilevante fu l’influsso di Sigmund Freud, che favorì l’utilizzo della cocaina come anestetico in ambito medico.

Rispetto alla diffusione di massa della sostanza, curioso è il caso della bibita Vin Mariani prodotta dal corso Angelo Mariani (1838 – 1914), che mescolò vino Bordeaux con cocaina ottenendo grandi risultati commerciali. Il successo di questa bevanda ispirò la nascita della Coca Cola, che originariamente conteneva caffeina e cocaina in pari quantità. Il contenuto di cocaina venne ridotto a partire dal 1903, ma a oggi le foglie di coca sono in parte ancora utilizzate per aromatizzare la celebre bevanda.

Quanto all’uso di cocaina allo stato puro, negli Stati Uniti fu possibile acquistare liberamente la sostanza fino al 1916. Aziende come Parke-Davis (la più antica farmaceutica americana, oggi sussidiaria di Pfizer) producevano addirittura eleganti kit contenenti cocaina, siringhe e tutto il necessario per una “dose”.

[ illustrazione: locandina attribuibile al film Cocaine Fiends del 1935, regia di William A. O’Connor ]

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APPRENDIMENTO, CONCETTI, MUSICA, PERCEZIONE

Ostacoli dell’apprendimento: l’effetto Zeigarnik

«Sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa, sentire una specie di orchestra suonare, suonare: zum zum zum zum zum…»

Così cantava Mina nel 1967. La dinamica per cui spesso ci ritroviamo a fischiettare in maniera quasi ossessiva un motivo che ci è “rimasto in testa” è riconducibile a un fenomeno psicologico noto come “effetto Zeigarnik”. Lo psicologo sovietico Bluma Zeigarnik (1901-1988) fu il primo studioso a mettere a fuoco questo bizzarro meccanismo, arrivando a notare come le esperienze incomplete o interrotte si iscrivono nella nostra memoria più fortemente di quelle completate. In altri termini: se ci resta in mente un frammento di una canzone è probabilmente perché non l’abbiamo sentita in maniera abbastanza continuativa o esaustiva per poter considerare “completo” il suo ascolto.

Tale dinamica mnemonica sembra a prima vista esprimere un fallimento conoscitivo e tuttavia alcuni studiosi hanno cercato di interpretarla positivamente. Con riferimento per esempio all’apprendimento e allo studio tipico di uno studente, quel che pare emergere è che un’applicazione frammentata e intervallata da altre attività produrrebbe un risultato mnemonico superiore a quello ottenuto da studenti in grado di completare sessioni di studio senza pause.

Un aspetto interessante dell’effetto Zeigarnik riguarda il ruolo del nostro inconscio nell’apprendimento: lanciando come segnale la ripetizione di un blocco di informazioni incompleto, il cervello ci invia un implicito messaggio legato alla necessità di provvedere al suo completamento, meglio se con una dovuta pianificazione.

[ illustrazione: fotogramma dal cartoon Steamboat Willie del 1928, prima comparsa di un fischiettante Mikey Mouse ]

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BIGDATA, FOTOGRAFIA, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE, TECNOLOGIA

I limiti della percezione e il ruolo della fotografia

Il curatore americano Marvin Heiferman riflette in un suo articolo sull’irritazione che a volte la fotografia finisce, suo malgrado, per generare. Dagli anni ’70 a oggi, lo status della fotografia come “arte” è stato progressivamente accettato a livello collettivo, non senza reazioni negative. Se è vero che a disturbare molte persone è la sensazione di essere privi di conoscenze e strumenti utili per comprendere la fotografica, ad Heiferman interessa partire da una caratteristica essenziale della fotografia, vale a dire la sua indicalità. La fototografia è catalogabile, fra i diversi tipi di segno, come un indice, vale a dire una traccia che ha un rapporto estremamente diretto e materiale con il suo referente, proprio come accade per un’impronta. La foto-grafia è traccia del reale scritta grazie alla luce, che riproduce su un medium analogico o digitale una enorme quantità di dati e informazioni che spesso facciamo fatica a processare.

Come cita la teoria della “gist of the scene” (essenza della scena) elaborata dalla studiosa cognitiva Aude Oliva, la nostra percezione generale di quel che ci passa davanti agli occhi prende forma in appena 1/20 di secondo. Questa visione di insieme è estremamente schematica e carente dal punto di vista dei dettagli. Citando il classico esempio della percezione della foresta e di un singolo albero, la teoria della “gist of the scene” conferma che siamo naturalmente portati a percepire la forma generale della foresta e non a identificarne singolarmente un albero. È per questo motivo che l’osservazione della fotografia può continuare a metterci in difficoltà; oggi, in tempi di foto “sgranate” fatte con smartphone, quanto all’epoca del celebre gruppo f/64 (la cui cifra stilistica era la massima definizione ottenibile tramite il medium fotografico), il tema resta quello del colpo d’occhio.

[ illustrazione: Tokyo Stock Exchange di Andreas Gursky ]

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COMUNICAZIONE, LETTERATURA, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE

Il realismo come rottura dello stereotipo

Il realismo è l’impossibile (2013) di Walter Siti è un libriccino che parla di realismo narrativo, in letteratura e più in generale nelle arti. Non è da intendersi come opera esclusivamente per addetti ai lavori, in quanto contiene alcune utili riflessioni sul tema delle abitudini cognitive, dell’attenzione al dettaglio e dell’uso di stereotipi.

Quanto al realismo, Siti mostra come la classica metafora dello specchio – mirata a intendere una narrazione come simulacro del reale – sia ingannevole: il realismo è una anti-abitudine, una trasgressione di codici e stereotipi assodati che permette l’emergere di qualcosa che rompe l’usuale (che è poi l’archetipo della finzione). Quindi è bene fare molta attenzione quando si descrive qualcosa usando categorie come “oggettivo” o “normale”.

Il tema dei dettagli e della loro significanza è cruciale per un approccio che potrebbe dirsi “sistemico” alla narrazione (e prima ancora alla percezione). Il dettaglio è sempre inserito in un contesto e il suo rimandare ad altro costruisce una catena di senso che è leggibile a partire da – e con – ogni suo elemento. Un po’ come ribadire che l’interpretazione di un fenomeno non può mai prescindere dallo spazio da cui esso emerge.

Sul tema degli stereotipi, che ovviamente sono acerrimi nemici del realismo, Siti parla di se stesso e confessa di  farvi ricorso nella scrittura in casi di mancata documentazione (su un tema, un contesto sociale o un luogo). Questo accade, per ammissione dello scrittore, per pigrizia o paura. Non può forse dirsi che siano proprio queste le cause dell’adagiarsi su stereotipi anche in qualsiasi altro contesto?

[ illustrazione: fotogramma da Reality (2012) di Matteo Garrone ]

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