ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

La competenza più importante per il mondo del lavoro? L’intelligenza artigiana

La tesi di Futuro artigiano (2011), testo a firma di Stefano Micelli, Docente di Economia e gestione delle imprese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è perentoria: per ridare forza all’economia italiana e, più in generale, per agire con efficacia nello scenario business odierno risulta vitale recuperare un’attitudine artigianale al lavoro. La novità del messaggio sta nel suo essere rivolto non tanto ai mestieri artigiani di un tempo, ma piuttosto a chiunque – piccole, medie e grandi imprese – abbia a cuore sopravvivere nel mercato del lavoro del nuovo millennio.

Presupposto della tesi di Micelli – premiato nel 2014 con il Premio Compasso D’oro – è una lettura critica delle promesse della “knowledge economy”, uno dei temi manageriali cui più pagine sono state dedicate tra gli anni ’90 e 2000. La prospettiva del tempo oggi mostra come l’auspicata emancipazione basata sul lavoro intellettuale abbia in realtà prodotto una classe di “travet della conoscenza”, cioè impiegati di concetto vittime dell’ennesima, sofisticata reincarnazione dei paradigmi fordisti dell’organizzazione del lavoro.

Non stupisce, di fronte al fallimento della valorizzazione del lavoro intangibile, il prepotente recupero della dimensione del “fare” di cui siamo oggi testimoni. Dall’uomo artigiano di Richard Sennett ai contesti di innovazione di Steven Johnson; dai maker americani alla jugaad indiana: il concetto di lavoratore verso cui ci stiamo dirigendo incarna il bisogno di riprendere il controllo, sperimentare e innovare usando in maniera efficace le risorse di contesto. Mettendo in primo piano due valori fondamentali: il piacere e la passione per il lavoro.

Micelli elabora la preziosa definizione di intelligenza “A” (artigiana), opposta all’ormai abusata intelligenza “T”, quella dei test del QI. L’intelligenza artigiana non lavora meramente sulla razionalità, ma si basa sull’esperienza, sull’adattamento alla situazione e sull’apprendimento continuo e collettivo. Nel descrivere questo modello di intelligenza lavorativa Micelli chiama in causa quanto osservato da Claude Lévi-Strauss (1908-2009) in Il pensiero selvaggio (1962), citandone in particolare un passaggio che descrive il diverso set di competenze dell’ingegnere e del “bricoleur”:

«Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi procurati o concepiti espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via “finito” di arnesi e materiali».

[ illustrazione: Gustave Caillebotte, Les raboteurs de parquet, 1875 – Musèe d’Orsay, Parigi ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CITAZIONI, COMPLESSITÀ, CULTURA, LAVORO, SOCIETÀ

La cultura è come l’acqua

Uno dei brani più citati di David Foster Wallace (1962-2008) è quello da lui pronunciato nel maggio 2005 presso il Kenyon College (Ohio) in occasione della cerimonia di conferimento delle lauree (il testo del discorso è pubblicato in Questa è l’acqua). Wallace apre il suo intervento con l’ormai nota “storia dei pesci e dell’acqua”:

«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?»

In quest’occasione Wallace parla di fronte a una platea di laureandi e il suo scopo è di introdurre un articolato discorso sul senso della cultura umanistica. La parabola narra della difficoltà del comprendere e discutere le realtà più ovvie, pervasive e importanti. Il ruolo del pesce anziano è quello del saggio, cioè di chi ha un’esperienza e una conoscenza tali da permettergli di guardare alle cose con prospettiva e, per così dire, “da fuori”.

Da quando ho letto per la prima volta l’incipit del discorso di Wallace non ho potuto fare a meno di pensare come la metafora dell’acqua valga, al di là del suo uso specifico in questa circostanza, per raccontare in generale il rapporto dell’uomo con la cultura. La cultura non si vede e, come i pesci, ci nuotiamo e respiriamo dentro. È l’elemento più importante della nostra formazione e del suo risultato, cioè l’immagine di noi che continuamente si dà a vedere agli altri. Ciononostante, ne coltiviamo un livello di consapevolezza ridotto ai minimi termini. Data l’efficacia della storia, credo valga la pena di riflettere in particolare sul ruolo del pesce anziano: quando si parla in generale di una cultura – e per quanto riguarda il sottoscritto, l’esempio che più spesso mi capita di discutere è quello della cultura lavorativa – siamo davvero certi che la sola permanenza di lungo termine nell’acqua possa essere sufficiente per acquisire una posizione consapevole e distaccata, che permetta di percepire l’influenza della cultura sul nostro modo d’essere?

Credo che a fare la differenza sia l’opportunità di mettere almeno qualche volta la testa fuori dall’acqua. Questo significa aver frequentato altre culture e acquisito uno spirito critico che aiuti a non restare eccessivamente immersi nel proprio ambiente culturale dominante. Una simile competenza anfibia, difficile e dolorosa da coltivare perché mette in discussione la nostra provenienza, il nostro essere e tutto ciò che ci è più vicino, è quanto può permettere di nuotare con consapevolezza e trovarsi a proprio agio anche in differenti contesti. Nel caso dei pesci, perfino sulla terraferma.

[ illustrazione: Weeki Wachee Springs, Florida, fotografia di Toni Frissell, 1947 ]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, CULTURA, ECONOMIA, MOBILITÀ, TECNOLOGIA

Perché ai giovani non interessano più le automobili?

Il possesso di un’automobile ha rappresentato per più generazioni – su tutte quella dei baby boomers – una promessa di emancipazione e libertà. Per i giovani di tutto il mondo, lo status symbol dell’auto ha avuto per lungo tempo pochi rivali rispetto ad altri beni di consumo. Oggi le cose sembrano cambiare: il numero di auto intestate a giovani sotto i 35 anni è calato dal 2007 a oggi del 30%. Dato ancora più rilevante: meno della metà degli individui in età da patente si iscrive alla scuola guida entro i 18 anni, dimostrando di non avere troppa fretta di mettersi al volante. Come spiegare questo mutamento?

Un articolo della rivista «Fast Company» indaga le ragioni di un rivolgimento sociale che pare destinato a diventare sempre più significativo, aggravando la più generale stagnazione del mercato dell’automobile. Il primo fronte di analizzare è quello economico: che la diminuzione di giovani al volante sia da correlarsi ai tempi di crisi? Sembrerebbe non essere così: secondo le stime di «Fast Company», il possesso e l’utilizzo di uno smartphone (compresi i canoni mensili di traffico telefonico e dati) produce costi paragonabili a quelli di un leasing mensile per un’auto di livello medio-economico come una Honda Civic.

In tema di smartphone, è da anni ormai palese che il nuovo status symbol dei giovani di tutto il mondo è proprio il telefono cellulare, accompagnato da altri gadget tecnologici fra cui computer, tablet, videogiochi. La pista da seguire per comprendere il disinteresse verso l’auto sarebbe dunque questa: laddove lo smartphone viene visto come un possesso personale irrinunciabile e del tutto privato, i giovani si mostrano più che ben disposti a condividere un mezzo di trasporto con gli amici, il che congiura positivamente a favore di una mobilità più consapevole. D’altro canto, le logiche dello spostamento e dell’incontro sono in mutazione. L’incontro on-line è non solo un surrogato, ma sempre più spesso un sostituto di quello in presenza e la distanza dell’on-line è lo spazio in cui prendono forma l’identità individuale e le opportunità di confronto intersoggettivo. I bisogni di emancipazione e libertà della generazione Y sembrano dunque farsi molto più individualizzati e virtuali di quelli delle generazioni precedenti. Il che sembra sufficiente a spiegare perché le auto stanno cedendo il posto agli smartphone.

[ illustrazione: fotogramma dal film Dazed and Confused di Richard Linklater, 1993 ]

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ANTROPOLOGIA, FOTOGRAFIA, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE

Turista, lavoratore, fotografo: da Sontag a Taleb

«Quasi tutti i turisti si sentono costretti a mettere la macchina fotografica tra sé stessi e tutto ciò che di notevole incontrano. Malsicuri delle altre reazioni, fanno una fotografia. Questo dà una forma all’esperienza: ci si ferma, si scatta una foto, si riprende il cammino. È un metodo che garba soprattutto ai popoli handicappati da una spietata etica del lavoro, come i tedeschi, i giapponesi e gli americani. Adoperare una macchina fotografica allevia l’angoscia che l’ossessionato dal lavoro prova non lavorando, quando è in vacanza e dovrebbe teoricamente divertirsi. Può comunque fare qualcosa che è come una simpatica imitazione del lavoro: può sempre fotografare».

Così scriveva Susan Sontag (1933-2004) nel 1977, nel suo celebre Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. A distanza di oltre 35 anni, viviamo in un’epoca in cui il fatto che la gran parte delle nostre esperienze sia mediata da immagini è quasi scontato. Tutto ciò è spesso vissuto con una certa dose di compiaciuta rassegnazione, ben rappresentata dal successo di app come Instagram.

L’atteggiamento del turista è oggi esteso a ogni momento della vita quotidiana, dando vita a quella che alcuni chiamano touristification. Quest’ultima è un’espressione coniata da Nassim Taleb, la cui più recente opera si intitola Antifragile. Prosperare nel disordine (2012). Qui Taleb parla dell’atteggiamento del turista assimilandolo a una condotta sistematicamente tesa alla riduzione dell’incertezza e della casualità quotidiana. Fin troppo facile risulta accostare questa indole a una logica di efficienza e “risk management” del tutto aziendale.

Come contraltare alla touristification, l’estensione della condotta lavorativa a quello che un tempo si soleva chiamare loisir dà vita a un tempo sociale sempre meno distinto da quello produttivo. Il fotografo-turista-lavoratore è dunque una figura antropologica che descrive piuttosto bene la contemporaneità.

[ illustrazione: foto di Martin Parr tratta dal progetto Small World, 1996 ]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, COLORI, FOTOGRAFIA, SOCIETÀ

Il colore dell’estate italiana degli anni ’80

«Siccome ogni secolo e ogni popolo ha avuto la propria bellezza, noi dobbiamo avere per forza la nostra. E ciò è nell’ordine delle cose».
Charles Baudelaire, Salon del 1846

Dolce Via, nuovo libro del fotografo americano Charles Traub, raccoglie le immagini da lui scattate in Italia nei primi anni ’80. La “dolce via” è ovviamente un gioco di parole felliniano, apparentemente irrinunciabile per un americano in Italia. Ma la dolce via è soprattutto quella percorsa da Traub lungo l’Italia, da Milano a Marsala. È infatti una serie di foto di “via”, di strada, che restituiscono un’immagine degli anni ’80 italiani molto più antica, quotidiana, popolare – e per molti versi povera – di quello che ci si potrebbe aspettare. E calda, ché le immagini di Traub sembrano tutte prese durante sue vacanze estive.

A Traub non interessa l’Italia da cartolina: i “landmark” sono quasi sempre assenti o comunque in secondo piano – salvo, di nuovo per probabili ascendenze felliniane, un ricorrere della Fontana di Trevi. Gli interessa piuttosto cercare il particolare all’interno del quotidiano e per questo gioca molto col colore. Lontano da quello desaturato e “instagrammato” di molta fotografia contemporanea – di cui uno dei principali ispiratori, Luigi Ghirri, è stato amico e mentore di Traub – , il tono di queste immagini è vivido e acceso, soprattutto quando cerca il rosso, colore che emerge fortissimo da molte di esse. Uno dei meriti di questa serie è dunque quello di costruire un’estetica della nostalgia per niente sbiadita ma piuttosto “satura”, che valeva decisamente la pena, a distanza di trent’anni, di tirare fuori dal cassetto.

[ illustrazione: Charles Traub, Roma, 1982 ]

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ANTROPOLOGIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MEDIA, MUSICA, TECNOLOGIA

Il valore creativo delle tecnologie obsolete

Il passaggio da una tecnologia all’altra porta con sé un adattamento a diverse pratiche di pensiero e azione. Abbracciare un nuovo mezzo di espressione e creazione significa anche, implicitamente, abbandonare modalità di pensiero di cui spesso siamo scarsamente consapevoli. Su questa traccia si innestano alcune riflessioni di un recente articolo di William Gibson, autore noto per la fantascienza – su tutte, la sua opera più famosa è Neuromante (1984) – a cui si deve anche uno dei più interessanti contributi di “saggistica varia” degli ultimi anni, cioè Distrust That Particular Flavor (2012).

Spunto di riflessione è per Gibson l’iniziativa che risponde al nome di “The 78 Project”, che recupera il progetto di documentazione musicale “universale” che fu proprio del musicologo e antropologo americano Alan Lomax (1915-2002). Lomax è stato il primo grande etnomusicologo del mondo occidentale. Le sue registrazioni audio, in seguito confluite nell’Archive of American Folk Song della Biblioteca del Congresso, hanno portato alla scoperta di musicisti fondamentali per le radici della musica blues e rock, fra cui per esempio un personaggio circondato da un alone mitico come Leadbelly (1885-1949). Lomax non si limitò all’America, conducendo le sue ricerche anche in Africa, Asia, Europa (e Italia).

L’opera di Lomax è oggi ripresa nello spirito da “The 78 Project”, il cui nome fa riferimento alla tecnica con cui i promotori del progetto stanno affrontando la loro ricerca di musica per il mondo, cioè la cattura di musica tramite un semplice microfono e un registratore “Presto” degli anni ’30 che incide su vinile a 78 giri, storicamente il primo supporto fonografico (subito dopo i “cilindri” di Thomas Edison), introdotto da Emile Berliner nel 1888.

E qui torniamo a Gibson: l’utilizzo di una tecnologia obsoleta come quella del 78 giri è strettamente correlato al recupero di un progetto altrettanto passé. Seguendo il filo del discorso di Gibson, sembrerebbe che la scelta di un particolare mezzo sia centrale per poter anche solo pensare alla costruzione di un dato contenuto. Detto in altri termini: è proprio l’uso del 78 giri a rendere possibile il recupero di una certa modalità di registrazione musicale. Gibson discute anche il caso dell’ampio – per lo meno in America – filone di giovani scrittori che tornano alla vecchia macchina da scrivere, in cerca di un diverso approccio alla scrittura non più disponibile attraverso le tastiere dei computer.

Le considerazioni di Gibson aiutano ad andare oltre i pregiudizi – moda? revival? – che accompagnano oggi il recupero di molte tecnologie (su tutte la fotografia analogica), portando a concentrarsi sull’effettivo valore di interfaccia creativa insito in ogni medium.

[ illustrazione: la modella Nellie Elizabeth “Irish” McCalla ascolta un disco – foto degli anni ’50 ]

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ANTROPOLOGIA, CIBO, CULTURA, FOTOGRAFIA, SOCIETÀ

Il cibo, ossessione estetica e culturale

Lo chef francese Alexandre Gauthier ha appena deciso di inserire nei propri menu un simbolo che vieta di scattare foto a quanto viene servito in tavola. Il fine dell’iniziativa è, secondo le parole dello stesso Gauthier, quello di invitare i clienti del suo ristorante a concentrarsi sulla concreta esperienza del cibo e non sull’astrazione della sua registrazione e condivisione visiva. Gauthier non è che l’ultimo di una lunga lista di cuochi che, da almeno un anno a questa parte e in più parti del mondo, hanno deciso di ribellarsi all’imperante moda del “selfie culinario”.

Questa deriva fotografica è la punta dell’iceberg di una più generale ossessione per il cibo che, fin dalle sue prime avvisaglie, ha generato tanto sostenitori quanto detrattori. Fra questi ultimi il primo da citare è senz’altro il giornalista inglese Steven Poole, autore di un testo dal significativo titolo You aren’t what you eat (2012) e strenuo sostenitore di una rivolta contro quella che ha bollato “age of food”. Nel giro di pochi anni il cibo sarebbe diventato – secondo Poole – una passione malsana, una vera e propria dipendenza che, alimentata dal culto officiato da chef-superstar assunti come “maestri di vita”, darebbe alle persone l’illusione di esprimere la propria identità tramite il cibo.

A citare Poole è anche un recente articolo del Corriere della Sera, che fa il punto degli ultimi eccessi del “foodism” e dei pareri più critici a riguardo. Se il fatto che dentifrici e bagnoschiuma alla pancetta saranno presto sugli scaffali dei supermercati disgusterà più d’uno, a generare inquietudine dovrebbero essere soprattutto le parole usate dal filosofo Nicola Perullo in Per un’estetica del cibo (2006). Qui l’autore usa toni che paiono chiudere il cerchio rispetto alle posizioni dello chef Gauthier citate in apertura:

«L’importanza attribuita oggi al cibo è forse comprensibile nei termini di una crisi del fare esperienza, cui nessun ambito della vita umana è sottratto. L’esperienza del cibo potrebbe rivelarsi un volano per recuperare parte della frammentazione cui il nostro sentire è sottoposto».

[ illustrazione: Daniel Spoerri, Restaurant de la City Galerie, Zurich, 1965 ]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, COMPLESSITÀ, FOTOGRAFIA, LAVORO, TECNOLOGIA

Fotografia e relazione fra uomo e tecnologia, anche al lavoro

«La realtà del nostro secolo è la tecnologia: l’invenzione, costruzione e manutenzione di macchine. Impiegare la macchina significa possedere lo spirito del secolo. Le macchine hanno preso il posto dello spiritualismo trascendentale del passato. Tutti sono uguali di fronte alla macchina, sia io che te possiamo usarla. Essa può schiacciarmi e lo stesso può succedere a te. In tecnologia non esiste tradizione né coscienza di classe: tutti possono essere padroni, ma anche schiavi».

Così affermava László Moholy-Nagy (1855-1946) nel 1922 in un testo intitolato Konstruktivismus und Proletariat. Non è indebito attribuire una buona parte dell’ispirazione di queste parole all’attività di fotografo di Moholy-Nagy e dunque alla sua esperienza con il fotoapparat, simbolo – per lo meno da Walter Benjamin in poi – della tecnicizzazione che investe il mondo dell’immagine e, più in generale, della comunicazione. Le parole di Moholy-Nagy indicano inoltre una rivoluzione copernicana interna alla relazione fra artista e suo strumento d’elezione. La macchina fotografica non è un pennello: la sua peculiare natura tecnica influenza sia il contenuto del messaggio che il suo produttore.

A distanza di sei decenni, Vilém Flusser (1920-1991) scrive nel suo Per una filosofia della fotografia (1983) quanto segue:

«Al giorno d’oggi, la maggior parte degli uomini è impiegata in e ad apparecchi che programmano e controllano il lavoro. Prima dell’invenzione degli apparecchi, questo genere di attività era considerato un “servizio”, “terziario”, “lavoro intellettuale”, insomma un epifenomeno, oggi è al centro di tutto. Per questo, le analisi della cultura devono applicare la categoria dell’“informazione” anziché quella del “lavoro”».

Si tratta di una lettura del rapporto fra uomo e tecnica che parte di nuovo dalla fotografia (anticipando per molti versi quanto le tecnologie digitali hanno generato negli anni seguenti) e  si spinge fino a dar conto di una profonda mutazione del mondo del lavoro. Se “proletariato” era ancora un concetto centrale per Moholy-Nagy (fin dal titolo del suo scritto), per Flusser questa idea chiave della modernità risulta soppiantata dal modo in cui la tecnologia ci ha resi anzitutto “lavoratori culturali”. Ancora una volta, la fotografia si conferma un’ottima metafora per interpretare la contemporaneità.

[ illustrazione: László Moholy-Nagy, Photogram of Flower Petals, light and objects, 1930 ]

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ANTROPOLOGIA, CITTÀ, ECONOMIA, TECNOLOGIA

Silicon Valley porta la gentrificazione a San Francisco

Il processo di gentrificazione che ha interessato città come New York e Londra, mutate a uso e consumo dei loro cittadini più abbienti, interessa ora anche San Francisco. In questo caso a determinare il mutamento demografico è la giovane e ricca manodopera informatica che qui si trasferisce, attirata dalla mecca tecnologica di Silicon Valley.

I dati positivi sono impressionanti: a San Francisco la disoccupazione è scesa al 5%, grazie a un settore high-tech cresciuto del 58% tra il 2010 e il 2012, con quasi 1.900 startup che occupano il 30% degli edifici urbani. Altrettanto impressionanti sono gli elementi negativi: l’affitto medio di un bilocale ammonta a 3500$ mensili e ogni mese si contano almeno due sfratti nei confronti di inquilini non più in grado di sostenere questo tipo di spesa. Tutto ciò significa che la città sta gradualmente diventando il dormitorio di Silicon Valley, facendo sparire spazio vitale per i suoi precedenti abitanti. Si tratta di un grandissimo impoverimento sociale, soprattutto per una città fino a poco tempo fa contraddistinta da una grande ricchezza di sotto-culture.

Data la vicinanza con Silicon Valley, questo processo era probabilmente inevitabile. Come nota un recente articolo de La Lettura del Corriere della Sera, i giovani programmatori che popolano San Francisco non sono così diversi dai minatori che nell’Ottocento si spostavano in cerca d’oro e speranza. La dinamica di migrazione verso Frisco ha avuto la sua prova generale alla fine degli anni ’90 con il fenomeno delle dotcom, la cui “bolla” come noto esplose lasciando solo una vaga minaccia per la città. La seconda ondata migratoria ha potuto contare su basi molto più solide e a oggi la colonizzazione è effettiva, così come la frattura che spezza in due la città.

[ illustrazione: il Golden Gate di San Francisco in fase di costruzione, 1936 ]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Breve storia della cocaina e dell’accettazione sociale

Un breve riferimento alla diffusione storica della cocaina è utile a mostrare quanto la nostra percezione – in questo caso con riferimento alla pericolosità e alla natura illecita di una sostanza – non sia “naturale” ma culturalmente determinata. Come un articolo della rivista Salon mette bene in luce, la “scoperta” della cocaina è inoltre un ottimo esempio della collisione tra il Vecchio e il Nuovo Mondo.

Fu proprio con la scoperta dell’America che nacque un grande interesse per le caratteristiche della cocaina, che venne studiata per le sue proprietà lenitive fino a tutto il secolo XIX. All’interno di questo processo di studio molto rilevante fu l’influsso di Sigmund Freud, che favorì l’utilizzo della cocaina come anestetico in ambito medico.

Rispetto alla diffusione di massa della sostanza, curioso è il caso della bibita Vin Mariani prodotta dal corso Angelo Mariani (1838 – 1914), che mescolò vino Bordeaux con cocaina ottenendo grandi risultati commerciali. Il successo di questa bevanda ispirò la nascita della Coca Cola, che originariamente conteneva caffeina e cocaina in pari quantità. Il contenuto di cocaina venne ridotto a partire dal 1903, ma a oggi le foglie di coca sono in parte ancora utilizzate per aromatizzare la celebre bevanda.

Quanto all’uso di cocaina allo stato puro, negli Stati Uniti fu possibile acquistare liberamente la sostanza fino al 1916. Aziende come Parke-Davis (la più antica farmaceutica americana, oggi sussidiaria di Pfizer) producevano addirittura eleganti kit contenenti cocaina, siringhe e tutto il necessario per una “dose”.

[ illustrazione: locandina attribuibile al film Cocaine Fiends del 1935, regia di William A. O’Connor ]

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