CONCETTI, MANAGEMENT

Il riccio e la volpe, una favola più che mai attuale

Fra i frammenti del poeta greco Archiloco (VII secolo a.c.) figura un verso che suona così:

«La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande».

Questa “favola in miniatura” ha il fine di contrapporre la superficialità all’approfondimento, la frivolezza alla costanza di attitudini e interessi. Il suo successo attraversa l’epoca antica e medievale, fino a giungere in età moderna a essere citata, fra gli altri, anche da Erasmo da Rotterdam nella sua raccolta di motti Adagia.

Balzando al XX secolo, nel 1953 Il filosofo e storico inglese Isaiah Berlin (1909-1997) recupera l’antica favola di Archiloco nel suo testo The Hedgehog and the Fox. An Essay on Tolstoy’s View of History (pubblicato in Il riccio e la volpe e altri saggi). Ne fa uso per “catalogare” alcuni fra i più grandi pensatori della storia, inserendoli per similutidine attitudinale entro le due specie animali in questione. Fra i ricci – il cui approccio tende a ricondursi a un’idea preponderante – spiccano Platone, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche; fra le volpi – dagli interessi variegati e talvolta contraddittori – Aristotele, Erasmo, Molière, Goethe, Balzac. Il principale oggetto del saggio di Berlin, cioè Tolstoy, in verità sfugge a una netta inclusione in uno dei due profili.

La favola gode di buona salute anche nel nuovo millennio. Nel 2001 lo studioso americano di management Jim Collins la riprende a suo modo nel best-seller manageriale Good to Great. Qui volpe e riccio rappresentano due opposti modelli di percezione e “visione” legati alla sfera lavorativa. Secondo Collins, la volpe vive l’esperienza del mondo nella sua complessità, ma non riesce a integrare il suo agire in una visione unitaria. Al contrario, il riccio semplifica il mondo grazie a un’idea unificatrice in grado di guidarlo ai suoi traguardi. Lo spirito del riccio è rappresentato da Collins tramite un nodo borromeo che relaziona passione, competenze professionali e moventi economici.

Una recente comparsa della favola di Archiloco è da rintracciarsi in Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo (2013) di Giuliano da Empoli. In questo testo il paradigma della volpe è assimilabile a quello di uno spirito generalista, capace di attraversare le frontiere della conoscenza per produrre idee nuove e inattese. Il riccio rappresenta invece l’ethos dello specialista, nel cui fallimento Da Empoli ritrova la principale causa della crisi economica e culturale di cui l’Occidente continua a essere vittima.

E voi, siete volpi o ricci?

[ illustrazione: tessuto di Emily Bowen ]

PAROLE, SCRITTURA, STORIE

Linguaggio e identità

Louis Wolfson, nato a New York nel 1931, è affetto da schizofrenia e fin dalla giovane età rifiuta la lingua materna e pratica un sistema di traduzione simultanea in più lingue che lui stesso ha messo a punto. Da ragazzo, Louis parla col padre in yiddish e in tedesco, mentre cerca di comunicare in russo con la madre. Proprio quest’ultima – il cui accostamento alla lingua “materna” non è casuale – è al centro del testo Le Schizo et les langues, scritto da Wolfson interamente in francese e pubblicato da Gallimard nel 1970.

Il caso di Wolfson ha suscitato l’interesse specialistico degli psicanalisti, ma anche un solido seguito da parte di molti intellettuali francesi, in particolare per la sua scelta di rifiutare la lingua inglese spostandosi verso il francese, “fuga” da molti interpretata come simbolo di resistenza a un’egemonia culturale.

Uno degli aspetti linguisticamente più interessanti della questione – messo a fuoco da un dossier pubblicato dalla rivista on-line Kasparhauser – riguarda l’opposizione alla logica del linguaggio come segno arbitrario. Per Wolfson ogni lingua è cosa a sé e proprio per questo gli è possibile rifiutare l’inglese abbracciando altri idiomi, motivando la scelta in base a specificità di una singola lingua non riducibili a quelle di altre.

Dopo aver soggiornato in Canada, Wolfson vive ora a Porto Rico. Nel corso degli anni ha scritto diversi testi in cui, oltre a continuare il racconto del rapporto con la madre (per esempio in Mia madre, musicista è morta…), spazia fra temi di ogni genere. Fra questi va annoverata anche una forte passione per le scommesse che pare l’abbia reso milionario.

[ illustrazione: elaborazione grafica di un ritratto fotografico di Louis Wolfson ]

ARTE, MUSICA

Illusioni acustiche e percettive

Nell’opera Does the angle between two walls have a happy ending (2013) l’artista francese Loris Gréaud utilizza, al fine di costruire un ambiente straniante, fredde luci al neon e un accompagnamento sonoro costruito sulla cosiddetta scala di Shepard, che dà l’illusione di un canone discendente all’infinito. Questa sensazione è generata suonando una scala sovrapposta su più ottave e mettendo in atto un ciclo per cui alla scomparsa delle ottave acute corrisponde la comparsa di quelle gravi (un movimento contrario genererebbe ovviamente una scala apparentemente ascendente all’infinito).

Il nome della scala deriva da Roger Shepard, psicologo americano autore di un articolo a riguardo datato 1964. Il suo utilizzo è a ogni modo rintracciabile in brani musicali di epoche storiche ben precedenti, per esempio nell’Offerta musicale di Johann Sebastian Bach (XVIII secolo). In tempi recenti e in ambito pop, anche band come Pink Floyd e Queen ne hanno fatto uso.

Questa illusione acustica fa venire meno la possibilità di identificare il tono fondamentale della scala che si sta ascoltando. In mancanza di un punto fisso in base al quale capire “dove ci troviamo”, entra in gioco una percezione di circolarità e conseguente disorientamento sonoro. In questo senso la scala di Shepard trova un buon correlato visivo nei paradossi di Maurits Cornelis Escher.

[ illustrazione: Loris Gréaud, Does the angle between two walls have a happy ending – esposta nel 2013 a Punta della Dogana nell’esposizione “Prima Materia” ]

APPRENDIMENTO, MANAGEMENT, PAROLE

Think outside the box

Da dove nasce l’espressione, tanto cara al mondo aziendale, “think outside the box”, da noi tradotta come “pensare fuori dagli schemi”?

In Change: la formazione e la soluzione dei problemi (1973) Paul Watzlawick utilizza il gioco dei “nove punti” (che consiste nell’attraversare tutti i punti con quattro linee rette senza staccare la matita dal foglio) per mostrare che mettere in atto un effettivo – e non superficiale – cambiamento significa uscire dagli schemi e cambiare le regole del gioco. “Think outside the box”, appunto.

Per la verità, seppur popolarizzato da psicologi e “guru” del management durante gli anni ’70, il gioco dei nove punti è ben più antico. La sua prima apparizione risale al 1914, sulle pagine della Sam Loyd’s Cyclopedia of 5000 Puzzles Tricks and Conundrums (with Answers), opera postuma del grande enigmista americano Sam Lloyd (1841-1911).

In questa sua prima edizione il gioco ha una declinazione molto meno astratta, nella quale cui i nove punti diventano uova su un tavolo. Ironicamente, Lloyd immagina che a proporre il gioco agli abitanti dell’immaginaria “Puzzleland” sia Cristoforo Colombo in persona (per associazione, date le uova, con il celebre aneddoto dell’uovo di Colombo).

[ illustrazione: la tavola della Cyclopedia of 5000 Puzzles che contiene – a destra – il “Christopher Columbus famous eggs trick” ]

ARCHITETTURA, CITAZIONI, MUSICA

Genealogia di una citazione

«Scrivere di musica è come ballare di architettura».

In Panegirico (pubblicato postumo) Guy Debord – il cui nome è indissolubilmente legato al situazionismo e alla pratica del détournement – nota che «le citazioni sono utili nei periodi ignoranza o di credenze oscurantiste». A questo proposito sarebbe interessante indagare il legame tra citazioni e postmodernismo, ma questo richiederebbe molto spazio. Più modestamente, intendo qui soffermarmi su una delle citazioni che incontro con maggior frequenza, cioè quella riportata in cima a queste righe. Inizialmente pensavo fosse attribuibile a Frank Zappa (e nel 90% dei casi la si trova associata proprio a lui), ma poi, quando ho cominciato a incontrarla accostata anche ai nomi di Thelonious Monk, Elvis Costello e altri, ho scoperto che la questione della sua attribuzione è molto complessa.

Il sito web Quote Investigator ha messo in atto un insospettabilmente serio lavoro di ricerca per scoprire l’origine del celebre detto. La sua prima comparsa su carta stampata risale al 1979, quando ben due riviste musicali americane la attribuiscono al comico e cantante americano Martin Mull nella forma «talking about music is like dancing about architecture».  Poi, nel 1985, il Los Angeles Times attribuisce queste parole a Zappa. Negli anni seguenti hanno luogo molte altre attribuzioni, principalmente riconducibili a musicisti. Due delle più rilevanti sono quelle a Laurie Anderson ed Elvis Costello, i quali hanno tuttavia negato di esserne autori. La prima ha attribuito la paternità della citazione al comico Steve Martin, il secondo di nuovo a Martin Mull. Quest’ultimo, in base all’investigazione del sito, pare essere l’autore più probabile.

Nel 2000 qualcuno ha provato a domandare direttamente a Mull se la paternità fosse davvero sua: pare che la sua risposta sia stata affermativa, ma dato che questo riscontro proviene dal web – e da una fonte di terza mano – Quote Investigator lo accetta con un certo scetticismo (atteggiamento interessante e forse autoironico, dato che Quote Investigator altro non è, a asua volta, che un sito web).

A ogni modo la frase, anche se in forme diverse, sembrerebbe molto più antica del 1979. Pare sia apparsa, nella forma «writing about music is as illogical as singing about economics», in un articolo della rivista americana «The New Republic» datato 1918. L’autore non è noto.

[ illustrazione: Grant Snider ]

JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA

La metafora del jazz per le organizzazioni di impresa

La Terza Ondata (1980) è uno dei libri più profetici del futurologo Alvin Toffler. Con i suoi neologismi (tecnosfera, sociosfera, infosfera) e le previsioni di mutamento economico e sociale, risulta una lettura utile per capire molti “perché” dell’attuale società occidentale.

In uno dei passaggi incentrati sulle innovazioni introdotte dalla “seconda ondata”, identificabile in termini generali con la rivoluzione industriale e posizionata temporalmente da Toffler fra il 1750 e il 1955, l’autore si sofferma sull’influenza ideologica e strutturale che l’organizzazione industriale ha esercitato sull’ambito della musica.

Con riferimento allo  studioso di storia della musica Curt Sachs, che ricorda come nel XVIII secolo il passaggio da una cultura musicale prettamente aristocratica a una democratizzata comportò la necessità di disporre di sale per concerti sempre più grandi, che richiedevano un più alto volume del suono, Toffler osserva quanto segue:

«L’orchestra rifletté alcuni aspetti della fabbrica persino nella sua struttura interna. Inizialmente l’orchestra sinfonica non aveva un direttore oppure la direzione veniva curata a turno dagli orchestrali. Successivamente gli orchestrali, proprio come i lavoratori di una fabbrica o di un ufficio, furono divisi in reparti (settori strumentali), ognuno dei quali contribuiva alla produzione complessiva (la musica) ed era coordinato dall’alto da un capo (il direttore) e persino, più tardi, da un capo intermedio (il primo violino o il capo del settore strumentale)».

Le parole di Toffler sono una dimostrazione del perché la musica sinfonica può essere un’ottima metafora dell’organizzazione moderna del lavoro: semplicemente perché la strutturazione dell’orchestra ne è figlia. E dimostrano anche come questa metafora sia oggi – o, secondo Toffler, da quando siamo entrati nella “terza ondata” – del tutto inadatta a parlare delle imprese contemporanee, da lungo tempo definite come organizzazioni che apprendono. Del resto, studiosi come Peter Drucker (1909-2005) hanno parlato fin dagli anni ’60 della maggiore adeguatezza alle nuove organizzazioni della metafora del jazz. In un’intervista del 1994 Drucker afferma:

«The model of management that we have right now is the opera. The conductor of the opera has a very large number of different groups that he has to pull together. The soloists, the chorus, the ballet, the orchestra, all have to come together—but they have a common score. What we are increasingly talking about today are diversified groups that have to write the score while they perform. What you need now is a good jazz group».

[ illustrazione: Lucia Ghirardi ]

CONCETTI, CREATIVITÀ, PAROLE

Quale creatività?

Nel suo Il falò delle novità. La creatività al tempo dei cellulari intelligenti (2013) Stefano Bartezzaghi riflette sull’attuale diffusione – e indubbio abuso – del concetto di creatività. Ne ripercorre le origini, scovandovi un curioso caso di mutazione di significato generatorsi atraverso la traduzione da una lingua all’altra.

Uno dei testi cui più si deve la popolarizzazione del concetto di creatività è un’antologia intitolata The Creative Process: Reflections on the Invention of Art (1952) curata dall’inglese Brewster Ghiselin (1903-2002). Fra le fonti da questi raccolte figura un capitolo tratto da Science et Méthode (1908) del matematico francese Henri Poincaré (1854-1912). Ghiselin ne estrae il capitolo “L’invention Mathématique”, che recupera in una traduzione del 1915 in cui esso è titolato “Mathematical Creation”.

Lo slittamento dal francese inventer all’inglese to create è applicato a tutto il testo, producendo una significativa distorsione del significato originario. Tra l’inventare – che tanto in francese quanto in italiano rimanda al verbo latino invenire, che significa trovare – e il “divino” creare c’è evidentemente una grande differenza. Ed è anche su fraintendimenti linguistici come questo che si è basato, come argomenta Bartezzaghi, il successo della “mitologia della creatività”.

[ illustrazione: viruscomix.com ]

ARTE, CINEMA, SOCIETÀ

L’immagine della nostalgia

Imitation of Life è un filmato di circa 3 minuti presentato dall’artista austriaco Mathias Poledna alla 55a Biennale di Venezia. Si tratta di un cartone animato realizzato con tecniche tradizionali di animazione e musicato con una reinterpretazione del brano del 1936 I’ve Got a Feelin’ You’re Foolin’ di Arthur Freed e Nacio Herb Brown (autori di alcuni dei principali musical hollywoodiani dell’epoca).

All’apparenza si tratta solo di un piacevolissimo cartone animato sullo stile di quelli realizzati da Disney, con protagonista un asino vestito da Donald Duck e personaggi di contorno e ambientazione che sembrano usciti da Bambi. Un osservazione più attenta, guidata dalle intenzioni dell’artista e dalle note del curatore, fa riflettere sul parallelismo tra l’epoca attuale e quella evocata dal filmato, identificabile in un comune desiderio di spensieratezza e felicità – soddisfatto dall’industria culturale – a fronte di una realtà percepita come cupa.

Giocando con senso estetico di nostalgia oggi molto diffuso, Imitation of Life si pone anche, riproponendo una tecnica realizzativa oggi obsoleta perché estremamente onerosa, come simbolo del capitalismo occidentale che fu, nonché di molti temi ideologici a esso legati.

[ illustrazione: fotogramma dal film ]

LAVORO, TECNOLOGIA

Siamo proprio sicuri che il multitasking funzioni?

Praticate il multitasking? Forse può interessarvi il punto di vista con cui lo analizza la studiosa americana Sherry Turkle nel suo eccellente Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri (2012), uno dei migliori testi sul nostro rapporto con computer e affini.

Anche se moltissime persone sono convinte del contrario, gli psicologi cognitivi ci insegnano da tempo che il multitasking, molto semplicemente, non funziona. Su questo tema, uno dei migliori contributi è contenuto in Pensieri lenti e veloci del premio Nobel Daniel Kahneman. Pur allineandosi alle  tesi di Kahneman e altri studiosi, Turkle nota qualcosa di tanto evidente quanto, per certi versi, antiaccademico: anche se non funziona, il multitasking riscuote comunque molto successo, soprattutto nelle frenetiche pratiche d’ufficio quotidiane. Qual è il motivo di questo successo?  Secondo Turkle, le cose stanno così:

«Multitasking feels good because the body rewards it with neurochemicals that induce a multitasking “high.” The high deceives multitaskers into thinking they are being especially productive. In search of the high, they want to do even more. In the years ahead, there will be a lot to sort out. We fell in love with what technology made easy. Our bodies colluded».

I computer fanno molte cose insieme, apparentemente con facilità: perché noi non dovremmo? Il fenomeno del multitasking mostra quanto la frequentazione quotidiana di strumenti informatici possa distorcere la nostra percezione e portarci a sopravvalutare le capacità cognitive di cui disponiamo. L’aspetto più interessante – e insieme paradossale – messo in luce da Turkle è che l’estensione della metafora informatica alle capacità umane, fenomeno del tutto intellettuale, ha finito per generare un illusorio “star bene” del tutto fisico.

[ illustrazione: Wesley Adams ]

ARTE, LAVORO, MANAGEMENT

Lavoro ed emozioni, attraverso l’arte

L’artista tedesco KP Brehmer (1938–1997) ha realizzato tra il 1978 e il 1980 un’opera dal titolo Soul and Feelings of a Worker, costituita da una serie di collage su carta millimetrata che identificano con diverse aree di colore l’umore dello stesso artista / lavoratore nel corso di un anno.

In tema di lavoratori e stati d’animo, il riferimento più classico è il cosiddetto “progetto Hawthorne”, condotto tra il 1927 e il 1933 dal sociologo Elton Mayo (1880-1949) presso lo stabilimento General Electric di Hawthorne, Chicago. L’esperimento venne attuato per studiare i cali di produttività dei lavoratori in relazione al peggioramento delle condizioni ambientali, con particolare riferimento alle variazioni di illuminazione. Sorprendentemente, la produttività dei lavoratori si mostrò in aumento durante tutto l’esperimento, senza alcuna relazione con ilrelativo miglioramento o peggioramento dell’illuminazione. Questo dimostrò che una possibile crescita di produttività ha più a che fare con la qualità delle relazioni umane – in questo caso l’attenzione prestata dagli osservatori durante l’esperimento – che con fattori di contesto spersonalizzati. L’esperimento alimentò gli studi di Mayo e la conseguente nascita della “scuola delle relazioni umane”.

Tornando all’opera artistica di Brehmer, questa non rimanda direttamente ad Hawthorne, bensì ai decisamente meno noti studi di Rexford B. Hersey (1895-1965), il quale fu tuttavia, per significativa coincidenza, assistente proprio di Elton Mayo.

Dopo aver stilato una originale scala emotiva (da “elated” a “worried”, la stessa che si trova nell’opera di Brehmer), Hersey la sottopose per un intero anno a un gruppo di lavoratori di un’officina di riparazioni meccaniche. Il risultato – pubblicato nell’opera del 1932 Workers’ emotions in shop and home – fu una mappatura dei clicli di umore individuale che aiutò Hersey a dimostrare che ogni individuo tende a essere caratterizzato da un personale ciclo mensile che regolarmente alterna, giorno dopo giorno, i medesimi stati d’umore.

Per darsi una spiegazione di questi cambiamenti mensili, Hersey fece riferimento a uno studioso ancora più oscuro per i nostri canoni di popolarità, un neurofisologo di nome John Fulton (1899–1960). Questi sosteneva che i bioritmi umani potessero essere influenzati da energia solare, pressione atmosferica, fasi lunari e campi magnetici.

[ illustrazione: KP Brehmer, Soul and Feelings of a Worker ]