APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA, STORIE

Beatles e Duke Ellington fra managerialità e collaborazione

Un recente articolo di Adam Gopnik raffronta due casi musicali raramente giustapposti, quelli di Duke Ellington e dei Beatles. Principale oggetto del confronto è la relazione con la creatività musicale – personale e altrui – messa in atto da musicisti così diversi.

Quel che anzitutto colpisce è la “mediocre” perizia tecnica che i due casi hanno in comune: Ellington era un pianista poco più che discreto e i Beatles non erano certo grandi strumentisti. Ciononostante, entrambi furono in grado di costruire qualcosa di unico sviluppando in massima misura un’importante competenza musicale, quella dell’orecchio. Competenza che qui si può provare a leggere anche in chiave manageriale.

Ellington esercitò orecchio nei confronti dei tanti musicisti di talento di cui seppe circondarsi, spesso reali autori di molti dei successi registrati a suo nome, come Take the A Train o Caravan. Alcune voci hanno addirittura tacciato Ellington di sfruttamento nei confronti di questi musicisti, ma resta indubbio il fatto che senza le sue capacità di visione e gestione, idee altrui indubbiamente assai brillanti sarebbero rimaste semplicemente tali senza mai concretizzarsi. Fare attenzione a questo, come nota Gopnik, dovrebbe metterci in guardia contro la classica tentazione “romantica” del dar più valore alle idee che al lavoro che le realizza.

Quanto ai Beatles, l’orecchio si mostrò anzitutto nel loro riuscire sempre, anche a fronte delle abilità musicali non eccelse di cui si è detto, a cantare perfettamente in tono, cosa non scontata e in ogni caso decisamente legata alla competenza dell’ascolto. In termini di relazione con idee altrui, i Beatles furono grandissimi divulgatori e interpreti di quanto di musicale erano in grado di raccogliere intorno a loro. L’eclettismo che che caratterizzò i successi della parte finale della loro carriera venne fondato ai loro esordi grazie all’abilità di risultare credibili mescolando “ingredienti” presi tanto da Chuck Berry quanto da Roy Orbison e molti altri. Anche in questo caso, una capacità manageriale di relazione e contestualizzazione mostra di essere ben più importante di un non ben qualificato “talento”.

[ illustrazione: foto dei Beatles agli esordi ]

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ARTE, COMPLESSITÀ, CULTURA, DIVULGAZIONE, MUSICA, POLITICA, SOCIETÀ

CIA e propaganda, da Pollock ai Nirvana

Un breve saggio del musicista e autore Adam Krause cerca di analizzare il ruolo rivestito da arte e musica all’interno della propaganda culturale sotterranea agita dalla CIA a partire dall’epoca della Guerra Fredda.

Rispetto all’arte visiva, quanto emerge dall’indagine – che si rifà a varie fonti raccolte nel corso degli anni e quindi non può considerarsi esattamente inedita – è la spiccata “preferenza” manifestata dalla CIA per l’espressionismo astratto, con una particolare connessione con il MOMA di New York e, ancor più nello specifico, con l’opera di Jackson Pollock. Per quali motivi l’action painting di Pollock è risultato così affine all’orientamento della CIA? Krause si esprime così:

«A lone cowboy figure like Pollock, born in Wyoming and transplanted to New York, heroically flinging paint with reckless abandon. The visual embodiment of “freedom.” Pure form. No content. Just an ideologically empty vessel waiting to be filled. And filled it was, as the CIA politicized this otherwise apolitical art, and by the power of the American dollar, helped make New York City the center of the art world».

Krause cerca di costruire anche rispetto alla musica un’interpretazione – in questo caso non comprovata da documenti attendibili e quindi più originale – del ruolo di sostegno svolto dalla CIA nei confronti di alcuni generi o artisti. Krause si focalizza in particolare sulla musica degli anni ’90 e sul raffronto fra due generi per molti versi distanti quali hip-hop e grunge:

«And is it really such a “coincidence” that “grunge” was heavily marketed to white suburban youth, inspiring them to strum guitars and mumble about their personal sadness, just as Public Enemy and NWA were successfully telling these same young people about the systemic racism of the United States? Why wouldn’t the CIA prefer flannel shirts to Malcolm X hats as the main sartorial signifier at suburban malls? Why would the U.S. Government want Chuck D saying “Fight the Power,” when it could have Kurt Cobain’s “Oh well, whatever, never mind”?»

[ illustrazione: Jackson Pollock in his East Hampton studio, summer 1950 – foto di David Lefranc ]

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APPRENDIMENTO, CONCETTI, MUSICA, PERCEZIONE

Ostacoli dell’apprendimento: l’effetto Zeigarnik

«Sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa, sentire una specie di orchestra suonare, suonare: zum zum zum zum zum…»

Così cantava Mina nel 1967. La dinamica per cui spesso ci ritroviamo a fischiettare in maniera quasi ossessiva un motivo che ci è “rimasto in testa” è riconducibile a un fenomeno psicologico noto come “effetto Zeigarnik”. Lo psicologo sovietico Bluma Zeigarnik (1901-1988) fu il primo studioso a mettere a fuoco questo bizzarro meccanismo, arrivando a notare come le esperienze incomplete o interrotte si iscrivono nella nostra memoria più fortemente di quelle completate. In altri termini: se ci resta in mente un frammento di una canzone è probabilmente perché non l’abbiamo sentita in maniera abbastanza continuativa o esaustiva per poter considerare “completo” il suo ascolto.

Tale dinamica mnemonica sembra a prima vista esprimere un fallimento conoscitivo e tuttavia alcuni studiosi hanno cercato di interpretarla positivamente. Con riferimento per esempio all’apprendimento e allo studio tipico di uno studente, quel che pare emergere è che un’applicazione frammentata e intervallata da altre attività produrrebbe un risultato mnemonico superiore a quello ottenuto da studenti in grado di completare sessioni di studio senza pause.

Un aspetto interessante dell’effetto Zeigarnik riguarda il ruolo del nostro inconscio nell’apprendimento: lanciando come segnale la ripetizione di un blocco di informazioni incompleto, il cervello ci invia un implicito messaggio legato alla necessità di provvedere al suo completamento, meglio se con una dovuta pianificazione.

[ illustrazione: fotogramma dal cartoon Steamboat Willie del 1928, prima comparsa di un fischiettante Mikey Mouse ]

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ARTE, COLLABORAZIONE, COMUNICAZIONE, MUSICA

Musica come metafora di collaborazione

L’opera The Visitors (2012) dell’artista islandese Ragnar Kjartansson – in esposizione a Milano presso Hangar Bicocca da settembre 2013 a gennaio 2014 – mette in atto una preziosa riflessione sulla musica come metafora di collaborazione.

L’opera consiste in un allestimento spaziale di nove proiezioni video in scala 1:1, che mostrano altrettanti musicisti – fra cui lo stesso Kjartansson – suonare per più di un’ora un brano ispirato a una poesia dell’ex moglie dell’artista, che racconta la fine della relazione fra i due. Il brano è semplice e struggente e i nove musicisti lo suonano negli ambienti di una dimora ottocentesca dell’Upstate New York, separati in stanze diverse ma uniti da cuffie tramite l’invisibile filo della traccia sonora. Gli spettatori si muovono in un ampio allestimento circolare che porta a spostarsi di schermo in schermo e dunque da musicista a musicista (nel gruppo anche componenti di Múm e Sigur Rós), sull’onda della partecipazione emotiva ispirata dal brano.

Dal punto di vista della collaborazione musicale messa in scena dall’opera, lo stesso Kjartansson ha parlato in una recente intervista dello spirito necessario a produrre insieme una performance senza di fatto vedersi, partendo dall’essere in stanze separate e dunque basando tutta l’interazione sull’ascolto reciproco:

«Devi essere totalmente concentrato su ciò che stai facendo e al contempo esserlo anche su ciò che stanno facendo gli altri. Si dà luogo alla società perfetta. Quando si fa musica insieme si crea la società migliore».

Questa lezione di democrazia ispirata dalla musica porta con sé un interessante correlato legato al grado di libertà concesso dalla performance: la partitura condivisa dai musicisti non fa uso di note univocamente scritte su di un pentagramma, ma di una mappa visiva con semplici cenni agli accordi che nel percorso del suo svolgimento lascia grande spazio all’interpretazione di ogni musicista.

[ illustrazione: un fotogramma tratto dall’opera The Visitors (still dal video che mostra Ragnar Kjartansson) accostato alla partitura visiva usata dai musicisti ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, MUSICA, TECNOLOGIA

Per un rapporto più sano con la tecnologia

Il fatto che la nostra relazione con la tecnologia sia spesso problematica, in bilico tra i poli della frustrazione e della dipendenza, ha molto a che fare con una scarsa consapevolezza e padronanza degli strumenti che essa ci offre. Benché computer e smartphone siano una presenza costante e ormai “naturale” nella nostra vita, spesso non riusciamo a usarli per quel che sono, cioè strumenti al nostro servizio. Al contrario, nonostante la loro pervasività, essi restano presenze estranee e opache da cui finiamo paradossalmente per essere dominati.

Questa è la tesi dello studioso Alex Soojungkim Pang, che nel suo The Distraction Addiction (2013) – di prossima traduzione in italiano – propone come antidoto l’approccio del “contemplative computing”. Questo consiste nel volgersi agli strumenti tecnologici in modo che diventino un’estensione “naturale” del corpo, al fine di usarli in maniera più efficace e non restare vittima di un loro uso compulsivo e distratto.

Poiché la chiave di questo traguardo è, secondo Soojungkim Pang, un approccio consapevole e trasparente alla tecnologia, egli instaura un raffronto con la pratica di uno strumento musicale:

«A clumsy awareness of strings and valves and chord positions eventually gives way to a sense that the instrument effectively becomes a natural extension of yourself, as one jazz musician put it».

L’idea dello strumento musicale come estensione del corpo parte da uno studio approfondito dello strumento stesso, che culmina nel far sì che il suo utilizzo diventi del tutto automatico e trasparente. Quando un musicista – soprattutto un jazzista – suona una nota sul suo strumento, non ha bisogno di pensare all’azione che permette al suo corpo di farlo. Possiamo dire lo stesso del modo in cui usiamo i computer? Finché non conosceremo a fondo gli hardware e i software che utilizziamo (per esempio: quanti di noi sanno digitare al computer con due mani e senza guardare la tastiera?), difficilmente raggiungeremo il rapporto sano con la tecnologia cui tanto aspiriamo.

[ illustrazione: fotogramma da 2001. Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, 1968 ]

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COMUNICAZIONE, MUSICA

Come rovinare un brano dei R.E.M. (e al tempo stesso capire l’importanza della tonalità)

Nel contesto dei workshop manageriali che gestiamo con l’approccio Jazz for Business, abbiamo spesso modo di lavorare su temi comunicativi legati all’ambiguità e al malinteso. Il linguaggio musicale è particolarmente efficace nel mostare come la sola mutazione del tono di un messaggio – a contenuto invariato – possa trasformarne completamente il significato.

In termini musicali, un effetto particolarmente straniante è generato dal suonare un brano nella tonalità opposta a quella per cui è stato pensato: da minore a maggiore, o viceversa. Per fare un esempio pop, si può usare la celebre Losing My Religion dei R.E.M., che grazie a YouTube è possibile ascoltare in versione originale (cioè in tonalità minore) e artificialmente trasposta in chiave maggiore. Nella seconda versione il brano non suona soltanto “male”: quel che accade è che il suo senso non è più quello di partenza, con un evidente contrasto tra musica e testo.

Anche le nostre conversazioni tendono ad avere un tono maggiore o minore, in base all’umore che trasmettono. Gli studiosi Meagan Curtis e Jamshed Bharucha hanno dimostrato in uno studio dal titolo The Minor Third Communicates Sadness in Speech, Mirroring Its Use in Music (2010) come l’intervallo di terza minore, usato in musica per comunicare tristezza almeno dal XVII secolo, sia lo stesso che utilizziamo per esprimere con la nostra voce un concetto triste. Il tono delle nostre parole non mente, e quando cerchiamo di camuffarlo, andiamo incontro a un effetto simile a quello del brano dei R.E.M.

[ illustrazione: Rita Hayworth fotografata nel 1944 per il musical Cover Girl ]

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APPRENDIMENTO, DIVULGAZIONE, MUSICA, SCRITTURA

Scrivere di musica: la lezione di Lester Bangs

Lester Bangs (1948-1982) è stato il critico musicale più eterodosso che si possa immaginare. Se è vero che “scrivere di musica è come ballare di architettura”, di certo Bangs, con i suoi articoli difficilmente definibili come recensioni (anche perché spesso incentrati su dischi inesistenti…), ha inventato passi e coreografie mai più replicati. Vale la pena di recuperare il lavoro di scrittura di Bangs, anche perché Minimum Fax ha di recente dato alle stampe in italiano le raccolte Impubblicabile!, Guida ragionevole al frastuono più atroce, Deliri, desideri e distorsioni.

In un articolo pubblicato dal «New Yorker», la giornalista Maria Bustillos descrive quel che di più importante ha imparato da Bangs:

«He understood that what young people wanted was something still more than to break free of parental bonds. We wanted to know exactly what was being hidden from us. Bangs’s great gift to the kids who formed his most passionate following was the news that this information was available to us; it could be found in books».

Il lavoro di Bangs si dimostra in questo senso rivoluzionario: prendendo le mosse da una nicchia giornalistica spesso davvero asfittica e conformista, è riuscito non solo a trasformare la scrittura musicale in letteratura, ma anche a fornire ai suoi lettori una serie di rimandi interculturali in grado di costruire un sincero e veritiero romanzo di formazione. Il tutto, come si evince da queste sue parole, senza mai prendersi mai troppo sul serio:

«The first mistake of Art is to assume that it’s serious. I could even be an asshole here and say that “Nothing is true; everything is permitted,” which is true as a matter of fact, but people might get the wrong idea. What’s truest is that you cannot enslave a fool».

Parlare di Lester Bangs, infine, offre un’ottima occasione per riguardare Philip Seymour Hoffman (1967-2014) interpretarlo nel film Almost Famous (2000).

[ illustrazione: Lester Bangs ritratto da Roni Hoffman ]

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ARTE, MUSICA

Illusioni acustiche e percettive

Nell’opera Does the angle between two walls have a happy ending (2013) l’artista francese Loris Gréaud utilizza, al fine di costruire un ambiente straniante, fredde luci al neon e un accompagnamento sonoro costruito sulla cosiddetta scala di Shepard, che dà l’illusione di un canone discendente all’infinito. Questa sensazione è generata suonando una scala sovrapposta su più ottave e mettendo in atto un ciclo per cui alla scomparsa delle ottave acute corrisponde la comparsa di quelle gravi (un movimento contrario genererebbe ovviamente una scala apparentemente ascendente all’infinito).

Il nome della scala deriva da Roger Shepard, psicologo americano autore di un articolo a riguardo datato 1964. Il suo utilizzo è a ogni modo rintracciabile in brani musicali di epoche storiche ben precedenti, per esempio nell’Offerta musicale di Johann Sebastian Bach (XVIII secolo). In tempi recenti e in ambito pop, anche band come Pink Floyd e Queen ne hanno fatto uso.

Questa illusione acustica fa venire meno la possibilità di identificare il tono fondamentale della scala che si sta ascoltando. In mancanza di un punto fisso in base al quale capire “dove ci troviamo”, entra in gioco una percezione di circolarità e conseguente disorientamento sonoro. In questo senso la scala di Shepard trova un buon correlato visivo nei paradossi di Maurits Cornelis Escher.

[ illustrazione: Loris Gréaud, Does the angle between two walls have a happy ending – esposta nel 2013 a Punta della Dogana nell’esposizione “Prima Materia” ]

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ARCHITETTURA, CITAZIONI, MUSICA

Genealogia di una citazione

«Scrivere di musica è come ballare di architettura».

In Panegirico (pubblicato postumo) Guy Debord – il cui nome è indissolubilmente legato al situazionismo e alla pratica del détournement – nota che «le citazioni sono utili nei periodi ignoranza o di credenze oscurantiste». A questo proposito sarebbe interessante indagare il legame tra citazioni e postmodernismo, ma questo richiederebbe molto spazio. Più modestamente, intendo qui soffermarmi su una delle citazioni che incontro con maggior frequenza, cioè quella riportata in cima a queste righe. Inizialmente pensavo fosse attribuibile a Frank Zappa (e nel 90% dei casi la si trova associata proprio a lui), ma poi, quando ho cominciato a incontrarla accostata anche ai nomi di Thelonious Monk, Elvis Costello e altri, ho scoperto che la questione della sua attribuzione è molto complessa.

Il sito web Quote Investigator ha messo in atto un insospettabilmente serio lavoro di ricerca per scoprire l’origine del celebre detto. La sua prima comparsa su carta stampata risale al 1979, quando ben due riviste musicali americane la attribuiscono al comico e cantante americano Martin Mull nella forma «talking about music is like dancing about architecture».  Poi, nel 1985, il Los Angeles Times attribuisce queste parole a Zappa. Negli anni seguenti hanno luogo molte altre attribuzioni, principalmente riconducibili a musicisti. Due delle più rilevanti sono quelle a Laurie Anderson ed Elvis Costello, i quali hanno tuttavia negato di esserne autori. La prima ha attribuito la paternità della citazione al comico Steve Martin, il secondo di nuovo a Martin Mull. Quest’ultimo, in base all’investigazione del sito, pare essere l’autore più probabile.

Nel 2000 qualcuno ha provato a domandare direttamente a Mull se la paternità fosse davvero sua: pare che la sua risposta sia stata affermativa, ma dato che questo riscontro proviene dal web – e da una fonte di terza mano – Quote Investigator lo accetta con un certo scetticismo (atteggiamento interessante e forse autoironico, dato che Quote Investigator altro non è, a asua volta, che un sito web).

A ogni modo la frase, anche se in forme diverse, sembrerebbe molto più antica del 1979. Pare sia apparsa, nella forma «writing about music is as illogical as singing about economics», in un articolo della rivista americana «The New Republic» datato 1918. L’autore non è noto.

[ illustrazione: Grant Snider ]

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JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA

La metafora del jazz per le organizzazioni di impresa

La Terza Ondata (1980) è uno dei libri più profetici del futurologo Alvin Toffler. Con i suoi neologismi (tecnosfera, sociosfera, infosfera) e le previsioni di mutamento economico e sociale, risulta una lettura utile per capire molti “perché” dell’attuale società occidentale.

In uno dei passaggi incentrati sulle innovazioni introdotte dalla “seconda ondata”, identificabile in termini generali con la rivoluzione industriale e posizionata temporalmente da Toffler fra il 1750 e il 1955, l’autore si sofferma sull’influenza ideologica e strutturale che l’organizzazione industriale ha esercitato sull’ambito della musica.

Con riferimento allo  studioso di storia della musica Curt Sachs, che ricorda come nel XVIII secolo il passaggio da una cultura musicale prettamente aristocratica a una democratizzata comportò la necessità di disporre di sale per concerti sempre più grandi, che richiedevano un più alto volume del suono, Toffler osserva quanto segue:

«L’orchestra rifletté alcuni aspetti della fabbrica persino nella sua struttura interna. Inizialmente l’orchestra sinfonica non aveva un direttore oppure la direzione veniva curata a turno dagli orchestrali. Successivamente gli orchestrali, proprio come i lavoratori di una fabbrica o di un ufficio, furono divisi in reparti (settori strumentali), ognuno dei quali contribuiva alla produzione complessiva (la musica) ed era coordinato dall’alto da un capo (il direttore) e persino, più tardi, da un capo intermedio (il primo violino o il capo del settore strumentale)».

Le parole di Toffler sono una dimostrazione del perché la musica sinfonica può essere un’ottima metafora dell’organizzazione moderna del lavoro: semplicemente perché la strutturazione dell’orchestra ne è figlia. E dimostrano anche come questa metafora sia oggi – o, secondo Toffler, da quando siamo entrati nella “terza ondata” – del tutto inadatta a parlare delle imprese contemporanee, da lungo tempo definite come organizzazioni che apprendono. Del resto, studiosi come Peter Drucker (1909-2005) hanno parlato fin dagli anni ’60 della maggiore adeguatezza alle nuove organizzazioni della metafora del jazz. In un’intervista del 1994 Drucker afferma:

«The model of management that we have right now is the opera. The conductor of the opera has a very large number of different groups that he has to pull together. The soloists, the chorus, the ballet, the orchestra, all have to come together—but they have a common score. What we are increasingly talking about today are diversified groups that have to write the score while they perform. What you need now is a good jazz group».

[ illustrazione: Lucia Ghirardi ]

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