CULTURA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, MANAGEMENT

Il ruolo dell’intellettuale in azienda, secondo Ottiero Ottieri

Ottiero Ottieri (1924-2002) è uno dei protagonisti della letteratura industriale italiana, nonché membro di un privilegiato gruppo di intellettuali scelti da Adriano Olivetti per il suo progetto industriale insieme scientifico e umanistico (fra gli altri: Giovanni Giudici, Franco Fortini, Paolo Volponi, Leonardo Sinisgalli, Geno Pampaloni, Libero Bigiaretti). L’esperienza in Olivetti è raccontata da Ottieri, oltre che nella sua opera più celebre Donnarumma all’assalto (1959), in una raccolta di taccuini redatta fra il 1948 e il 1958 e pubblicata prima sulla rivista «Menabò» come Taccuino Industriale e infine, nel 1963, per l’editore Bompiani con il titolo La linea gotica.

L’arco temporale 1948-1958 è per Ottieri cruciale nella formazione del suo punto di vista rispetto all’azienda industriale italiana. Giovane di buona famiglia e intellettuale mai davvero integrato, Ottieri si avvicina al mondo delle grandi aziende anzitutto per comprendere se stesso e il proprio tempo, muovendosi tra Roma e Milano e memore della propria gioventù toscana (luogo sentimentale in cui si colloca la personale  “linea gotica” del titolo).

Da un passaggio aziendale all’altro – cruciale quello dallo stabilimento Olivetti di Pozzuoli, spunto per molte osservazioni di questo testo e del già citato Donnarumma all’assalto – , Ottieri si confronta con l’ethos aziendale e con i suoi strumenti (su tutti, la gestione delle risorse umane e la psicotecnica), senza riuscire a giungere a una sintesi fra elementi costruttivi e contraddizioni del proprio ruolo. In questo senso, le parole di Ottieri costituiscono una testimonianza fondamentale per riflettere sul ruolo dell’intellettuale in azienda, figura del resto ormai scomparsa.

«Visto che lavoro molto, tutto il giorno, potrei diventare un dirigente […]. Il mondo lo vuole. Il buon senso lo vuole. Ma un intellettuale ha, per assurdo, una mentalità da operaio, che, sgobbando, sogna i soldi facili, la libertà. Delude il mondo, perché la sera aspetta il campanello per fuggirsene a casa, dove incomincia un pezzettino di vita».

[ illustrazione: stabilimento Olivetti di Pozzuoli, operai del reparto presse, anni ’50 ]

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APPRENDIMENTO, CULTURA, DEMOCRAZIA, DIVULGAZIONE, LAVORO, POLITICA, SCUOLA, SOCIETÀ

Piero Calamandrei: la scuola e le radici della democrazia

Piero Calamandrei (1889-1956) è stato scrittore e giurista di chiara fama, tra i fondatori del Partito d’Azione e da sempre antifascista e parte attiva della Resistenza. Il volume del 2008 Per la scuola raccoglie tre testi (due discorsi pubblici e un articolo) risalenti al periodo 1946-1950 e dedicati al tema dell’istruzione pubblica.

Per Calamandrei l’istituzione scolastica, pubblica e laica, è l’organo centrale della democrazia, l’unico in grado di garantire la costruzione di una classe dirigente basata sul merito e sulla mobilità sociale. Rileggere gli scritti di Calamandrei e confontarne le tesi con la politica scolastica italiana degli ultimi 50 anni significa comprendere retrospettivamente le ragioni di un fallimento nazionale che è civile, sociale ed economico. Leggere e fare leggere le sue pagine dovrebbe essere una prerogativa di chiunque si occupi di apprendimento ed educazione, a ogni livello. Un buon punto di partenza per recuperare il pensiero di Calamandrei è questo splendida metafora:

«Quando io penso a questo concetto della classe dirigente aperta in continuo rinnovamento, che deriva dall’affluire dal basso di questi elementi migliori, cui la scuola deve dare la possibilità di affiorare, mi viene in mente (se c’è qui qualche collega botanico mi corregga se dico degli errori) una certa pianticella che vive negli stagni e che ha le sue radici immerse al fondo, che si chiama la vallisneria e che nella stagione invernale non si vede perché è giù nella melma. Ma quando viene la primavera, quando attraverso le acque queste radici che sono in fondo si accorgono che è tornata la primavera, da ognuna di queste pianticelle comincia a svolgersi uno stelo a spirale, che pian piano si snoda, si allunga finché arriva alla superficie dello stagno: e insieme con essa altre cento pianticelle e anche esse in cerca del sole. E quando arriva su, ognuna, appena sente l’aria, fiorisce, ed in pochi giorni la superficie dello stagno, che era cupa e buia, appare coperta da tutta una fioritura, come un prato. Anche nella società avviene, dovrà avvenire qualche cosa di simile. Da tutta la bassura della sorte umana originaria, dall’incultura originaria dovrà ciascuno poter lanciare su, snodare il suo piccolo stelo per arrivare a prendere la sua parte di sole. A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali».

[ illustrazione: Robert Doisneau, L’information scolaire, 1956 ]

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LAVORO, LETTERATURA, MANAGEMENT, STORIE

Come far carriera nelle grandi amministrazioni: gli scritti aziendali di Giorgio Voghera

La vita dello scrittore Giorgio Voghera (1908-1999) è strettamente legata a Trieste, alla cultura della comunità ebraica e alla tradizione del grande romanzo novecentesco. L’opera più importante di Voghera è Il segreto (1961), romanzo di formazione che tanto ha fatto parlare di sé perché pubblicato a nome di un “anonimo triestino” – e dallo stesso Voghera sempre attribuito, fino al momento della morte, al padre Guido.

Un aspetto solo apparentemente secondario dell’opera di Voghera riguarda la rappresentazione del mondo del lavoro, costruita in relazione all’esperienza quasi trentennale come impiegato nell’assicurativa RAS. Voghera vi entrò nemmeno ventenne lavorandovi fino al 1939, quando emigrò, a causa delle leggi razziali, in Palestina. Tornato a Trieste nel 1948, fu riassunto in RAS dove continuò a lavorare fino al 1962, anno in cui decise di dedicarsi esclusivamente alla scrittura. La figura di “scrittore-impiegato” avvicina Voghera alle sorti di altri letterati quali Kafka, Pessoa e il più celebre degli autori triestini, Italo Svevo. La descrizione delle organizzazioni di impresa che emerge dalle sue pagine è carica di accenti complessi e spesso contrastanti, che oscillano tra l’ironico e il disilluso, tra il rancoroso e il consapevole.

La prima opera “aziendale” di Voghera è un leggero pamphlet pubblicato nel 1959 sotto lo pseudonimo di Libero Poverelli. L’emblematico titolo dello scritto è Come far carriera nelle grandi amministrazioni. In questo momento Voghera è ancora impiegato RAS (forse di qui la scelta dello pseudonimo) e quanto emerge dal libro è un distaccato punto di vista sui meccanismi di carriera che contraddistinguono le grandi organizzazioni. Accanto alle dinamiche di de-responsabilizzazione e alle meschine strategie per mettersi in vista di fronte ai superiori, colpisce in particolar modo la descrizione della competenza chiave dei manager:

«Egli dovrà sviluppare tutta una tecnica della superficialità. Dovrà saper parlare a lungo e brillantemente di qualsiasi questione, senza conoscerne la vera sostanza; eludere le domande precise dei superiori, approfittando della loro ignoranza, e quelle degli inferiori, facendosi scudo della propria autorità […]; evitare possibilmente di impegnarsi in ogni concreta azione, che potrebbe mettere in luce la sua incapacità, e impedire nello stesso tempo ai subordinati di svolgere un’azione autonoma: e tutto ciò, pur cercando di dare l’impressione che egli stesso e il suo ufficio sono impegnati in una febbrile attività».

Voghera torna a parlare di vita d’azienda nel 1974 con il romanzo breve Il direttore generale. A distanza di diversi anni dal primo scritto, il tono si fa esplicitamente autobiografico e si dota di una struttura narrativa più forte. In maniera non dissimile da quanto fatto da Goffredo Parise ne Il padrone (1964), la lettura delle dinamiche organizzative passa attraverso la messa in scena del rapporto tra il protagonista, semplice impiegato, e il vertice assoluto dell’impresa: il direttore generale. La critica di Voghera si fa meno didascalica e più complessa, orientandosi non tanto a far emergere il lato grottesco delle dinamiche aziendali – come fatto da Paolo Villaggio nel 1971 con Fantozzi – quanto a descrivere l’intrinseca ambiguità del potere gerarchico, che mescola la meccanica “malvagità” della posizione organizzativa con l’umanità della persona:

«Mi sorrise. Non era il sorriso professionale del dirigente che sa che in determinate situazioni è bene mostrarsi gentili con i sottoposti; non era nemmeno il sorriso con cui si cerca di mettere a proprio agio un ragazzo che può sentirsi timido e sperduto. Era un sorriso affettuoso, il sorriso di un uomo che offre e cerca affetto, e sa, forse, quanto è difficile trovarne di sincero. Un sorriso, a ogni modo, assai singolare sulle labbra di una persona che, a torto o a ragione, ritenevo una dei principali sovvenzionatori del fascismo: delle squadre d’azione che avevano ucciso, manganellato, evirato, incendiato».

[ illustrazione: Edward Hopper, Office in a Small City, 1953 ]

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APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, COLLABORAZIONE, GIOCO, LAVORO, VIDEOGIOCHI

Il videogioco come strumento educativo

Esce finalmente anche in Italia, a dieci anni dalla sua originaria pubblicazione, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale (2003), saggio seminale sui “game studies” dello studioso americano James Paul Gee (docente di studi letterari presso l’Arizona State University).

Il testo mette in gioco i concetti di apprendimento e alfabetizzazione, facendone metro di paragone per un confronto fra l’esperienza del videogioco e quella lezione in classe: siamo proprio sicuri che giocare con un videogame sia sempre una perdita di tempo? E di converso: gli strumenti tradizionali dell’insegnamento scolastico sono ancora efficaci? Queste le domande cui Gee tenta di rispondere col suo percorso videoludico, il cui approdo è rappresentato dall’enunciazione di 36 “principi di apprendimento”, ovvero competenze pratiche e teoriche che la frequentazione dei videogiochi può aiutare a sviluppare.

I videogame, intesi come mezzo di apprendimento attivo e critico, mettono l’utente in condizione di imparare dall’esperienza, di entrare in contatto collaborativamente con “gruppi di affinità” (persone che condividono un medesimo contesto di significati e risorse), di sviluppare abilità di problem solving, di comprendere i meccanismi sociali legati a un determinato contesto di pratiche. Anche se Gee non vi allude, è evidente come lo sviluppo di competenze di questo tipo risulti valido non soltanto in un contesto scolastico, ma anche per la formazione degli adulti. A questo proposito, particolare interesse suscitano le riflessioni legate a ciò che precede o segue il momento della “partita” col videogame: la conoscenza dei “mondi videoludici” che si trasferisce attraverso riviste, siti web, forum, non è individuale ma distribuita, messa in opera attraverso un pensiero pratico e sociale, che porta alla formazione di reti e dei già citati “gruppi di affinità”. La conoscenza è a disposizione di tutti, pronta per essere usata.

Il confronto instaurato da Gee tra l’apprendimento via videogame e gli strumenti tradizionali dell’educazione scolastica si risolve con un bilancio nettamente negativo a sfavore di questi ultimi, che continuano a risultare poco coinvolgenti, troppo astratti e slegati da concrete pratiche di lavoro e condivisione del sapere. D’altro canto, è pur vero che i videogame esplicitamente educativi al momento non sono molti, anche se le grandi potenzialità di questo medium (che del resto si trova ancora a uno stato nascente e poco raffinato) fanno ben sperare per future applicazioni nel campo dello studio, della formazione, del lavoro. L’innegabile pregio dei videogame risiede in ogni caso nel modo del tutto peculiare in cui riescono a favorire apprendimento e sviluppo dell’identità mediante la dimensione del gioco. A questo proposito, l’unica critica che pare lecito muovere al lavoro di Gee è quella di essere troppo spesso sbilanciato verso il fronte “video” e poco verso quello “game”: se i videogame funzionano in un determinato modo è soprattutto perché sono giochi, e quindi la gran parte delle osservazioni fatte risulta valida non soltanto per un gioco giocato davanti a uno schermo, ma anche per ogni attività ludica tout court.

[ illustrazione: immagine dal videogioco Outrun, 1986 ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

La competenza più importante per il mondo del lavoro? L’intelligenza artigiana

La tesi di Futuro artigiano (2011), testo a firma di Stefano Micelli, Docente di Economia e gestione delle imprese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è perentoria: per ridare forza all’economia italiana e, più in generale, per agire con efficacia nello scenario business odierno risulta vitale recuperare un’attitudine artigianale al lavoro. La novità del messaggio sta nel suo essere rivolto non tanto ai mestieri artigiani di un tempo, ma piuttosto a chiunque – piccole, medie e grandi imprese – abbia a cuore sopravvivere nel mercato del lavoro del nuovo millennio.

Presupposto della tesi di Micelli – premiato nel 2014 con il Premio Compasso D’oro – è una lettura critica delle promesse della “knowledge economy”, uno dei temi manageriali cui più pagine sono state dedicate tra gli anni ’90 e 2000. La prospettiva del tempo oggi mostra come l’auspicata emancipazione basata sul lavoro intellettuale abbia in realtà prodotto una classe di “travet della conoscenza”, cioè impiegati di concetto vittime dell’ennesima, sofisticata reincarnazione dei paradigmi fordisti dell’organizzazione del lavoro.

Non stupisce, di fronte al fallimento della valorizzazione del lavoro intangibile, il prepotente recupero della dimensione del “fare” di cui siamo oggi testimoni. Dall’uomo artigiano di Richard Sennett ai contesti di innovazione di Steven Johnson; dai maker americani alla jugaad indiana: il concetto di lavoratore verso cui ci stiamo dirigendo incarna il bisogno di riprendere il controllo, sperimentare e innovare usando in maniera efficace le risorse di contesto. Mettendo in primo piano due valori fondamentali: il piacere e la passione per il lavoro.

Micelli elabora la preziosa definizione di intelligenza “A” (artigiana), opposta all’ormai abusata intelligenza “T”, quella dei test del QI. L’intelligenza artigiana non lavora meramente sulla razionalità, ma si basa sull’esperienza, sull’adattamento alla situazione e sull’apprendimento continuo e collettivo. Nel descrivere questo modello di intelligenza lavorativa Micelli chiama in causa quanto osservato da Claude Lévi-Strauss (1908-2009) in Il pensiero selvaggio (1962), citandone in particolare un passaggio che descrive il diverso set di competenze dell’ingegnere e del “bricoleur”:

«Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi procurati o concepiti espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via “finito” di arnesi e materiali».

[ illustrazione: Gustave Caillebotte, Les raboteurs de parquet, 1875 – Musèe d’Orsay, Parigi ]

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CAMBIAMENTO, CULTURA, FOTOGRAFIA, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MARKETING, TECNOLOGIA

Polaroid e il brand come patrimonio culturale

Come molte grandi aziende del settore fotografico la cui egemonia si è sviluppata nell’era della pellicola ed è stata messa in discussione dall’avvento del digitale (su tutte: Kodak), anche Polaroid ha trascorso anni difficili. L’azienda ha dichiarato bancarotta nel 2001 e poi ancora nel 2009, anni in cui al suo vertice si sono avvicendati ben sei diversi amministratori delegati. Nel frattempo, l’azienda ha perso praticamente tutti i suoi asset conservandone fondamentalmente uno: il brand.

Grazie alla reputazione del proprio marchio, che ancora oggi comunica al grande pubblico i valori in esso instillati dal suo fondatore Edwin Herbert Land (1909-1991), Polaroid ha potuto stabilire una serie di accordi di licenza che hanno portato il brand ad avvicinarsi a nuovi ambiti di prodotto quali quello dei tablet e delle televisioni. Conservando la memoria affettiva dei tre principi con cui Land aveva fondato nel 1937 l’azienda, e cioè visione, condivisione e convenienza, i prodotti che oggi utilizzano il marchio Polaroid cercano – con discutibile successo – di tenere viva l’immagine di un’azienda che purtroppo non ha saputo innovare in relazione ai cambiamenti del contesto. In qualche maniera, Polaroid ha deciso di puntare sullo sfruttamento del suo patrimonio culturale e di non investire nello sviluppo del nuovo.

Per contrasto, il lavoro di Impossible Project, impresa olandese che nel 2008 ha rilevato da Polaroid i macchinari per la produzione di pellicole istantanee, rappresenta innovazione nella continuità. A fronte del completo arresto della produzione di pellicole per le macchine Polaroid, la domanda di mercato – decisamente significativa in una società prona al senso nostalgico del vintage – ha rischiato di rimanere frustrata. Con grande tempismo, Impossible Project ha rimesso in moto la produzione, costruendo una gamma mai così ampia e variegata di pellicole istantanee che, manco a dirlo, si giovano a loro volta del valore emotivo del brand Polaroid.

[ illustrazione: ritratto di Edwin Herbert Land ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CITAZIONI, COMPLESSITÀ, CULTURA, LAVORO, SOCIETÀ

La cultura è come l’acqua

Uno dei brani più citati di David Foster Wallace (1962-2008) è quello da lui pronunciato nel maggio 2005 presso il Kenyon College (Ohio) in occasione della cerimonia di conferimento delle lauree (il testo del discorso è pubblicato in Questa è l’acqua). Wallace apre il suo intervento con l’ormai nota “storia dei pesci e dell’acqua”:

«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?»

In quest’occasione Wallace parla di fronte a una platea di laureandi e il suo scopo è di introdurre un articolato discorso sul senso della cultura umanistica. La parabola narra della difficoltà del comprendere e discutere le realtà più ovvie, pervasive e importanti. Il ruolo del pesce anziano è quello del saggio, cioè di chi ha un’esperienza e una conoscenza tali da permettergli di guardare alle cose con prospettiva e, per così dire, “da fuori”.

Da quando ho letto per la prima volta l’incipit del discorso di Wallace non ho potuto fare a meno di pensare come la metafora dell’acqua valga, al di là del suo uso specifico in questa circostanza, per raccontare in generale il rapporto dell’uomo con la cultura. La cultura non si vede e, come i pesci, ci nuotiamo e respiriamo dentro. È l’elemento più importante della nostra formazione e del suo risultato, cioè l’immagine di noi che continuamente si dà a vedere agli altri. Ciononostante, ne coltiviamo un livello di consapevolezza ridotto ai minimi termini. Data l’efficacia della storia, credo valga la pena di riflettere in particolare sul ruolo del pesce anziano: quando si parla in generale di una cultura – e per quanto riguarda il sottoscritto, l’esempio che più spesso mi capita di discutere è quello della cultura lavorativa – siamo davvero certi che la sola permanenza di lungo termine nell’acqua possa essere sufficiente per acquisire una posizione consapevole e distaccata, che permetta di percepire l’influenza della cultura sul nostro modo d’essere?

Credo che a fare la differenza sia l’opportunità di mettere almeno qualche volta la testa fuori dall’acqua. Questo significa aver frequentato altre culture e acquisito uno spirito critico che aiuti a non restare eccessivamente immersi nel proprio ambiente culturale dominante. Una simile competenza anfibia, difficile e dolorosa da coltivare perché mette in discussione la nostra provenienza, il nostro essere e tutto ciò che ci è più vicino, è quanto può permettere di nuotare con consapevolezza e trovarsi a proprio agio anche in differenti contesti. Nel caso dei pesci, perfino sulla terraferma.

[ illustrazione: Weeki Wachee Springs, Florida, fotografia di Toni Frissell, 1947 ]

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APPRENDIMENTO, INNOVAZIONE, JAZZ, LAVORO, MUSICA

Il controllo? Una cosa da principianti

Il mondo delle organizzazioni di impresa si regge sui presupposti della sicurezza e del controllo. Il controllo è premessa di sicurezza, perfino riguardo l’innovazione di prodotto. La sperimentazione che precede ogni lancio sul mercato è un “allenamento” alla perfezione: quando il prodotto giunge a essere privo difetti, allora è giunto il momento di lanciarlo. Sfortunatamente, questa condotta è soggetta a un problema non indifferente: dedicandosi troppo a lungo all’allenamento, spesso si smarrisce il senso del contesto e del tempismo. E il mercato non sta a guardare.

Nel 1946 l’americana AT&T mise a punto la tecnologia su cui si basa il funzionamento dei telefoni cellulari. Per l’azienda l’ingresso commerciale in questo settore avvenne tuttavia solo nel 1994, anno in cui AT&T acquisì la società competitor McCaw Cellular. A cosa fu dovuto questo ritardo? Al fatto che, mentre altre aziende iniziavano a mettere sul mercato servizi sperimentali che vennero ottimizzati “sul campo”, AT&T preferì continuare ad allenarsi in cerca della perfezione, restando così indietro di 50 anni rispetto alla concorrenza.

Gli stalli causati dalla tensione alla perfezione sono un fenomeno ben noto anche ai musicisti. Il tempo dell’allenamento deve necessariamente giungere a una conclusione: il principiante, dopo aver reso solide le sue competenze di base, ha bisogno di lasciarsi andare, di allentare il controllo. Qual è il segreto di una performance musicale che tende all’innovazione? Permettere che fare individuale e collettivo siano uniti da un presupposto: prendere distanza dal controllo e considerare la possibilità di errore come una pratica costitutiva.

Il genere musicale che sotto questo punto di vista più ha da insegnare alle aziende è il jazz: l’improvvisazione altro non è che la continua rimessa in gioco delle proprie competenze rispetto al contesto. Qui e ora, in tempo reale e in rapporto ad altri musicisti. Allentare i vincoli del controllo e mettere alla prova le proprie sicurezze significa anche, all’interno di un lavoro collettivo, essere generosi nel concedere spazio di azione ad altri. Un approccio “jazz” all’innovazione offre dunque due lezioni al mondo del business: il nuovo emerge allentando il controllo; la performance si rafforza conferendo fiducia.

[ illustrazione: da sinistra a destra, Billy Bauer, Eddie Safranski, Charlie Parker e Lennie Tristano, New York, 1949 – foto di Herman Leonard ]

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CITTÀ, LAVORO, LETTERATURA

L’inquinamento delle relazioni, secondo Italo Calvino

In La nuvola di smog, racconto del 1956 di Italo Calvino (1923 – 1985), prende forma una aspra lettura dei rapporti interpersonali nella società dei consumi. Superficialità e opacità delle relazioni, meccanicamente definite da rapporti di classe e status, sono metaforicamente rappresentate dall’oscura entità evocata dal titolo del racconto: lo smog.

La nuvola che sovrasta l’ambiente metropolitano genera una patina di polvere e sporco che copre oggetti e situazioni della vita quotidiana e lavorativa. L’oppressione è vissuta con passività e inedia, senza slanci di autenticità. La dialettica fra sporco e pulito, minaccia di contaminazione e purezza, non corrisponde per Calvino a una rivendicazione “ecologica” ma piuttosto a una denuncia di meccanismi sociali – oliati dalle precise logiche del mondo del lavoro – che sembrano creare nuovi problemi semplicemente per poter ideologicamente “vendere”, in maniera del tutto autoreferenziale, nuove soluzioni. E se l’anonimo protagonista del racconto confessa di non trovarsi poi tanto male nello smog, non è affatto contraddittorio che egli lavori per un ente votato alla “purificazione dell’atmosfera urbana dei centri industriali”, da lui descritto con queste parole:

«Una creatura dello smog, nata dal bisogno di dare a chi lavorava per lo smog la speranza d’una vita che non fosse solo di smog, ma nello stesso tempo per celebrarne la potenza».

[ illustrazione: Berndnaut Smilde, Nimbus II, 2012 ]

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BIGDATA, CAMBIAMENTO, CULTURA, ECONOMIA, INTERNET, LAVORO, TECNOLOGIA

L’utopia del “lavoro digitale”

In Who Owns the Future? (2013) Jaron Lanier affronta il tema dell’impatto della tecnologia sulle classi medie da un punto di vista non scontato. Per l’autore americano la questione non è chiedersi se l’automazione stia rubando o meno posti di lavoro, ma piuttosto rendersi conto che la diffusa pretesa di accedere gratuitamente (in maniera più o meno legale) a servizi e contenuti si sta trasformando in un circolo vizioso che danneggia un numero crescente attività lavorative. In altri termini: siccome pretendiamo di avere tutto gratis, accettiamo di buon grado di mettere a disposizione altrettanto gratuitamente quanto disseminiamo nella rete, senza realizzare che questo significa privare di valore il nostro contributo intellettuale. Questa è per sommi capi la tesi di Lanier, il quale paventa una disgregazione sociale di ampie proporzioni: anche ammesso che si possa sopravvivere continuando a deprezzare il lavoro della classe media “creativa” (giornalisti, musicisti, fotografi), sarà difficile farlo se un simile deprezzamento colpirà anche attività considerate primarie dal punto di vista industriale e sociale.

L’utopico antidoto proposto da Lanier è quello di un sistema di micro-pagamenti esteso a ogni nostra attività on-line, dalla ricerca su Google alla recensione di un libro su Amazon. In questo modo, un inedito meccanismo economico a due vie premierebbe di continuo tanto produttori quanto consumatori, permettendo un più adeguato ammortizzamento delle dinamiche dell’economia “informale” diffusa da internet. Quel che la pur affascinante ipotesi di Lanier tralascia di chiedersi è quanti servizi attualmente gratuiti potranno davvero funzionare e sopravvivere all’interno di un simile sistema. E soprattutto: siamo davvero sicuri che la mera produzione e diffusione sul web di dati e informazioni – ché le conoscenze sono ben altro – meriti di essere retribuita? Dare una risposta affermativa significherebbe, oltre che assumere una posizione piuttosto semplicistica e demagogica, accettare implicitamente che la soluzione al deprezzamento del lavoro culturale possa coincidere con un suo livellamento verso il basso. Il che suona come l’argomentazione più preoccupante contenuta nell’intero discorso di Lanier.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Invisible Boy di Herman Hoffman (1957)]

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