saving.mr.banks
CINEMA, COLLABORAZIONE, LAVORO

Saving Mr. Banks e l’attaccamento alle proprie idee

Quella al centro di Saving Mr. Banks (2013) di John Lee Hancock è una storia incentrata sull’amore per il proprio lavoro, che in certi casi si accompagna alla difficoltà di condividerlo con altri.

Il film è un resoconto “romanzato” del rapporto fra Walt Disney e Pamela Lyndon Travers, autrice letteraria da cui il padre di Disneyland acquisì i diritti per la realizzazione del film Mary Poppins (Robert Stevenson, 1964). L’accordo fra i due fu tutt’altro che semplice: implicò una trattativa ventennale e un negoziato basato su una serie di compromessi che in ultima analisi, pur a fronte del grande successo ottenuto dal film, lasciarono Travers piuttosto delusa.

I dialoghi cruciali fra i due protagonisti della pellicola fanno emergere un’espressione che rende piuttosto bene una certa idea di attaccamento al lavoro. «They’re family», ripetono più volte Travers e Disney, descrivendo in un caso il proprio rapporto con i personaggi di Mary Poppins, nell’altro quello con Mickey Mouse.

Uno stretto legame con il proprio lavoro genera dinamiche di protezione che tendono a escludere la condivisione, nel timore che far “intromettere” altri possa snaturare qualcosa di molto personale. Far crescere un’idea spesso coincide proprio col renderla meno “nostra” e imparare ad accettare questo genere di compromesso può essere davvero molto difficile.

[ illustrazione: fotogramma dal film Saving Mr. Banks di John Lee Hancock, 2013 ]

Standard
ARTE, BENI CULTURALI, CINEMA, STORIA

I veri Monuments Men

Nell’agosto del 1943 entrò in azione, promossa dal presidente Franklin Delano Roosevelt, la “American Commission for the Protection and Salvage of Artistic and Historic Monuments in War Areas” – anche nota come la seconda “Roberts Commission” dal nome del giudice della Corte Suprema Owen Roberts. Di concerto con il programma dell’esercito americano denominato “Monuments, Fine Arts, and Archives program” (MFAA), la commissione lavorò dal 1943 al 1946 per proteggere e preservare i beni del patrimonio artistico minacciati dal secondo conflitto bellico nonché, nello specifico, per contrastare l’azione di saccheggio compiuta dal nazismo ritrovando e restituendo le opere confiscate alle nazioni legittime proprietarie.

L’MFAA prese corpo con un gruppo di circa 350 uomini e donne provenienti da 13 nazioni e con stretti legami con alcune delle più importanti istituzioni culturali e artistiche dell’epoca. Il lavoro del gruppo chiamava in causa una combinazione di addestramento militare, storia dell’arte e tecniche di indagine avanzata. Nel suo periodo di attività l’MFAA recuperò complessivamente più di 5 milioni di beni artistici. Come riportato in un’intervista da Robert Edsel, autore del best-seller Monuments men (2010) da cui è stato tratto l’omonimo film di George Clooney del 2014, i grandi successi ottenuti dalle operazioni di recupero contemplano anche qualche fallimento. La singola opera più importante fra quelle mai più recuperate è probabilmente il Ritratto di giovane uomo (1516-1517) di Raffaello, fino al 1939 conservato presso il Museo Czartoryski a Cracovia e successivamente disperso.

Al di là del suo fondamentale risvolto pratico legato al recupero di opere, il lavoro dei “Monuments Men” ha anche un importante valore simbolico nell’aver anticipato un interesse comune che, di lì a pochi anni, avrebbe trovato formalizzazione nella Convenzione dell’Aja del 1954, origine di ogni successiva iniziativa volta al riconoscimento e alla preservazione del patrimonio culturale internazionale.

[ soldati americani recuperano alcune opere sotto la supervisione di James Rorimer (secondo da sinistra), allora Direttore del Metropolitan Museum of Art ]

Standard
CINEMA, ECONOMIA, LAVORO, SOCIETÀ

Scorsese, Virzì e il capitalismo finanziario

The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese e Il Capitale Umano (2014) di Paolo Virzì, benché accostabili in nome di una comune attenzione alla “finanzia creativa”, hanno a ben vedere poco da spartire. Al di là dell’essere ambientati in epoche differenti (per quanto il film di Scorsese giunga nelle sue immagini conclusive fino ai nostri giorni), quel che soprattutto distanzia i due racconti è il modo in cui i loro registi – e, si potrebbe dire, la cultura che rappresentano – mettono in scena storie di arricchimento basato su principi decisamente poco etici.

Scorsese guarda da vicino alla vicenda di Jordan Belfort (dal cui libro autobiografico il film è tratto) e partecipa alle sue scorribande con uno spirito di divertita indulgenza. Il messaggio che traspare – peraltro esplicitato da alcune battute chiave del film – è che nella situazione vissuta da Belfort fosse davvero difficile comportarsi altrimenti. Del resto Belfort ha pagato il suo debito con la giustizia e si è in seguito reinventato, a chiudere il cerchio della redenzione e del valore simbolico della sua parabola, come “motivational speaker”.

Da parte sua, Virzì non ha l’opportunità di guardare con distacco a una vicenda reale, ma trae spunto da un testo di fiction (il film è basato sull’omonimo romanzo dell’americano Stephen Amidon) per calarlo nella contemporaneità italiana. Quest’ultima è troppo vicina per essere guardata con un’ironia che non sia tragicomica – da qui l’evidente parentela del film con la classica commedia all’italiana degli anni ’60-70 – e come conseguenza l’atteggiamento del regista è, come simboleggiato dalle frequenti inquadrature in campo largo, di critica distanza dai suoi personaggi.

In definitiva, laddove Scorsese esorcizza i misfatti del “lupo” di Wall Street usando l’ironia e presupponendo la redenzione (ponendosi all’interno della filmografia americana come contraltare al dittico su Wall Street di Oliver Stone), Virzì descrive con preoccupato e impotente sdegno una vicenda che è ancora da metabolizzare. Lo scambio di battute simbolo del film, quello ripetuto in questi giorni in ogni articolo a riguardo, è in questo senso piuttosto chiaro:

«- Avete scommesso sulla rovina del nostro paese e avete vinto.
– ABBIAMO vinto: ci sei anche tu».

[ illustrazione: foto di scena da Il Capitale Umano di Paolo Virzì, 2014 ]

Standard
APPRENDIMENTO, CINEMA, COMUNICAZIONE, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Le innovazioni della macchina da scrivere

In tema di tecnologie comunicative, la storia delle innovazioni legate alla macchina da scrivere è fra le più interessanti. Originariamente sviluppatasi in Europa tra il 1830 e il 1870 circa, la macchina da scrivere diede vita a una miriade di sperimentazioni che continuarono a fiorire, anche oltreoceano, fino agli anni ’70 del XX secolo (sostanzialmente, fino all’avvento dei personal computer).

Una delle più curiose “piste” innovative dello sviluppo della macchina da scrivere fu quella legata alla presenza di elementi sferici nel design. Paradigmatica in questo senso fu la “Writing Ball” prodotta dal danese Rasmus Malling-Hansen a partire dal 1870. Sferica nel suo complesso, questa macchina da scrivere fu il primo modello distribuito commercialmente, nonché strumento d’elezione per gli ultimi anni di attività di Friedrich Nietzsche.

A novant’anni di distanza – e in questo caso in America – un elemento di design sferico tornò a comparire nella cosiddetta “golf-ball” del modello IBM Selectric. Commercializzata dal 1961, questa macchina da scrivere presentava, al posto delle classiche “stanghette” individuali per le lettere, un elemento rotatorio in grado di imprimere su carta i caratteri. L’invenzione di questo dispositivo è stata recentemente “romanzata” dal film Tutti pazzi per Rose (2012) di Régis Roinsard, in cui ad avere l’idea è un francese che poi cede a mani americane, notoriamente più scaltre in termini di business, lo sviluppo del progetto.

[ illustrazione: fotogramma dal film Populaire (2012) di Régis Roinsard ]

Standard
CINEMA, COMPLESSITÀ, ECONOMIA, LAVORO, POLITICA, TECNOLOGIA

La Guerra Fredda e il successo di Silicon Valley

C’è un fondamentale dettaglio sull’ascesa di Apple Computer che l’apologetico (e in definitiva mal fatto) film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern manca di mettere in luce: quello delle condizioni di contesto di cui Steve Jobs e Steve Wozniak poterono giovarsi. Ne parla, indirettamente, un articolo della rivista Slate.

Negli anni della Guerra Fredda il governo americano, terrorizzato dal fatto che qualsiasi nuova scoperta potesse essere usata in chiave di arma militare, investì una ingente quantità di denaro nella ricerca accademica e scientifica. Un esempio di questa politica fu la nascita nel decennio 1958-1968 di ARPANET, esperimento comunicativo pilota destinato a dar vita negli anni successivi a internet.

In relazione alla compresenza di basi militari, centri tecnologici e poli universitari di prestigio, le due aree americane che più beneficiarono di investimenti governativi fin dagli anni ’40 furono Silicon Valley e la “route 128” in Massachussets (area di pertinenza del MIT e dell’università di Harvard). La spinta alla ricerca e la stabilità economica generate in quegli anni hanno costruito un formidabile humus culturale ed economico che nei decenni successivi ha permesso la sopravvivenza e il successo di moltissime startup tecnologiche fra cui Hewlett-Packard, Fairchild, Xerox – e ovviamente Apple.

[ illustrazione: fotogramma dal film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern ]

Standard
CINEMA, COLORI, LETTERATURA, SOCIETÀ

Il rosa è un colore femminile?

Le ultime pagine del romanzo di Francis Scott Fitzgerald Il grande Gatsby (1925) contengono un curioso dialogo che riguarda il colore del vestito del protagonista. Gatsby indossa un completo rosa e il suo antagonista Buchanan sottolinea questa scelta cromatica con disprezzo. Per un lettore di oggi, la situazione è ambigua: perché Buchanan critica il rosa di Gatsby? Nessuna delle due versioni cinematografiche del romanzo (1974 e 2013) aiuta a svelare il mistero. E chi pensa che Buchanan voglia deridere una scelta poco mascolina fatta da Gatsby, si sbaglia di grosso. Ecco la verità: negli anni ’20 e ’30 vestire di rosa era considerato perfettamente virile, ma questo colore era associato alle classi sociali più basse. Buchanan intende dunque mettere alla berlina le origini di Gatsby, smascherando tutte le sue menzogne.

Questo esempio mostra quanto l’interpretazione di un colore possa essere soggetta a mutamenti legati a diverse epoche e contesti culturali. Un articolo del «The Atlantic» ricostruisce un’articolata storia del legame tra rosa e vestiario, dal XVIII secolo a oggi. Se, come già notato, il rosa è considerato colore maschile fino agli anni ’30, in realtà esso porta con sé soprattutto una connotazione di salute e giovinezza. Era dunque normale vederlo indossato da bambini, giovani uomini e donne, ma non da persone anziane. Rispetto ai più piccolo, in queste epoche la scelta dei colori era intesa più per differenziare gli infanti dagli adulti che non per distinguere i due sessi. I classici rosa e azzurro erano quindi entrambi legati ai bambini, ma in modo perfettamente interscambiabile rispetto al loro sesso. I primi segnali di differenziazione in questo senso nascono verso la fine dell’Ottocento, sulla spinta delle teorie sullo sviluppo infantile di Freud. Parallelamente, in un romanzo come Piccole donne (1880) di Louisa May Alcott si attribuisce a un’usanza francese la preferenza del rosa per le bambine.

È solo dopo la metà del Novecento che si arriva ad associare il rosa prettamente con la femminilità, in relazione a una conformità di codici – non solo vestiari – messa in atto a partire dagli anni ’50. Quel che segue nella seconda metà del XX secolo è uno spostamento verso una lettura “unisex” dell’abbigliamento dei bambini – coincidente con la fine degli anni ’70 – che ha poi condotto, probabilmente per semplice reazione, al ritorno “tradizionalista” che oggi viviamo.

Questa breve storia dell’abbigliamento rosa aiuta a comprendere quanto molte usanze che si sembrano date, immutabili o perfino naturali siano in realtà del tutto dipendenti da un’interpretazione culturale legata a un ambiente e a un momento storico. Quanto vale per il rosa è applicabile a moltissime altri apparenti “dati di fatto” della vita personale e lavorativa.

[ illustrazione: fotogramma dal film Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, 2013 ]

Standard
CINEMA, COLORI

Mary and Max

L’Australiano Adam Elliot è un autore di film stop-motion dallo stile immediatamente riconoscibile, fatto di vicende e personaggi in bilico tra tragico e humour nero. Mary and Max (2009) è il suo primo lungometraggio e racconta una storia di amicizia – in parte autobiografica – resa particolarmente poetica dalle scelte stilistiche dell’autore.

Uno degli aspetti più interessanti del film è legato alla sua palette cromatica. Mary e Max, i due protagonisti, vivono rispettivamente a Mount Waverley, sobborgo di Melbourne in Australia, e a New York. La caratterizzazione dei due diversi continenti è in gran parte incentrata sull’uso del colore: laddove la città di Max è resa in maniera esclusivamente monocromatica in bianco e nero, il mondo di Mary è costruito attorno a toni di marrone (colore prediletto dalla stesa protagonista) in cui spiccano spesso oggetti di un più vivo color rosso.

Al di là del sottolineare le differenze tra i due ambienti (la grigia e sporca New York, opposta alla più viva e piena di natura Australia), la diversità di colore accentua la distanza e la conseguente possibilità di incontro fra i due protagonisti. Tutto ciò è  ben espresso dalla colorata presenza degli oggetti spediti dal mondo di Mary a quello di Max, in particolare il pompon rosso che quest’ultimo indossa per tutto il film.

[ illustrazione: fotogramma dal film ]

Standard
CINEMA, LAVORO

Il lavoro nel cinema americano, anni ’90 e 2000

The Company Men (John Wells, 2010) è il film simbolo della crisi del capitalismo finanziario. Meccanico, privo di ironia e ancora pienamente legato ai valori del “sogno americano”, racconta una parabola di caduta e redenzione molto diversa da quelle descritte – con ben altra scrittura cinematografica e diverse finalità – dal francese Laurent Cantet nei suoi film “lavorativi”, cioè Risorse Umane e A tempo pieno, rispettivamente del 1999 e 2001.

The Company Men suscita un parallelismo, seppur indiretto, anche con Office Space di Mike Judge (1999). Quest’ultimo è un film poco noto in Italia (dove è stato tradotto come Impiegati… male!) ma di culto in America. Si tratta di una pellicola che usa il tono della commedia per raccontare la burocratizzazione lavorativa e quella che Richard Sennett ha definito in L’uomo flessibile (1998) la “corrosione del carattere” dell’impiegato medio.

Il punto di incontro tra Office Space e The Company Men va ricercato nel lavoro manuale – e in entrambi i casi curiosamente si tratta di edilizia – in cui a un certo punto del plot entrambi i protagonisti si rifugiano. Per Peter, il programmatore frustrato e “luddista” di Office Space, la scelta di fare il muratore è volontaria e rappresenta la felice e definitiva alternativa a una pessima esperienza d’ufficio. Per Bobby, il manager rampante di The Company Men licenziato a causa della spregiudicatezza finanziaria dei vertici della sua azienda, fare il muratore è un ripiego faticoso e umiliante, abbandonato non appena si prospetta, dopo diverse peripezie, l’opportunità di un nuovo lavoro d’ufficio all’altezza del precedente.

Quel che differenzia i due casi è dunque sia la motivazione che spinge alla nuova scelta lavorativa che l’effettivo esito di quest’ultima. La visione dei due film offre quindi un ricco raffronto: nell’arco di dieci anni, facendosi specchio di un contesto economico e sociale che cambia drasticamente, il cinema americano racconta il mutamento delle dinamiche di attaccamento al lavoro e il loro ruolo nel dar forma alla personalità individuale e collettiva.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Company MenJohn Wells, 2010 ]

Standard
ARTE, CINEMA, SOCIETÀ

L’immagine della nostalgia

Imitation of Life è un filmato di circa 3 minuti presentato dall’artista austriaco Mathias Poledna alla 55a Biennale di Venezia. Si tratta di un cartone animato realizzato con tecniche tradizionali di animazione e musicato con una reinterpretazione del brano del 1936 I’ve Got a Feelin’ You’re Foolin’ di Arthur Freed e Nacio Herb Brown (autori di alcuni dei principali musical hollywoodiani dell’epoca).

All’apparenza si tratta solo di un piacevolissimo cartone animato sullo stile di quelli realizzati da Disney, con protagonista un asino vestito da Donald Duck e personaggi di contorno e ambientazione che sembrano usciti da Bambi. Un osservazione più attenta, guidata dalle intenzioni dell’artista e dalle note del curatore, fa riflettere sul parallelismo tra l’epoca attuale e quella evocata dal filmato, identificabile in un comune desiderio di spensieratezza e felicità – soddisfatto dall’industria culturale – a fronte di una realtà percepita come cupa.

Giocando con senso estetico di nostalgia oggi molto diffuso, Imitation of Life si pone anche, riproponendo una tecnica realizzativa oggi obsoleta perché estremamente onerosa, come simbolo del capitalismo occidentale che fu, nonché di molti temi ideologici a esso legati.

[ illustrazione: fotogramma dal film ]

Standard
CINEMA, LAVORO

L’Italia del boom secondo Ermanno Olmi

Il Posto (1961) di Ermanno Olmi è un disincantato affresco dell’Italia del boom e della nascita nella nostra nazione della classe dei “colletti bianchi”. Il lavoro agricolo non esiste di fatto più e lo spostamento dalla provincia alla città, organismo in grande cambiamento (in una sequenza si intravedono i lavori per la metropolitana a Milano), rappresenta soprattutto un cambio di prospettiva rispetto a bisogni e desideri.

L’abbandono del paese natale – per assurdo reso ancora più forte dal pendolarismo – racconta la perdita di una cultura aggregante e insieme oppressiva (la famiglia) e la conquista di una libertà che pare portare con sé una necessaria dose di estraneità.

Il Posto descrive l’impersonalità dell’istituzione lavorativa, la sua seriosità e l’approccio scientifico, perfettamente rappresentati dal”ironica resa dei test d’ingresso psico-attitudinali, nonché l’ineluttabilità del destino della carriera professionale.

Alcune sequenze del film riescono perfettamente, nel loro freddo verismo, a mettere in scena alcuni vizi della declinazione italiana del lavoro d’ufficio – in particolare l’ipocrisia dei rapporti e la frustrata brama di carriera – che a distanza di un decennio esatto torneranno in chiave grottesca in Fantozzi (il libro di Paolo Villaggio è del 1971, il film di Luciano Salce del 1975).

[ illustrazione: fotogramma dal film Il Posto di Ermanno Olmi, 1961 ]

Standard