PAROLE

Per non commettere errori marchiani…

Qual è l’origine dell’aggettivo “marchiano”, tipicamente usato per connotare un errore grossolano?

Secondo la Treccani, a partire dal XIV secolo l’aggettivo viene impiegato per riferirsi in termini generali all’antica Marca di Ancona. Nel corso dei secoli l’aggettivo esce pressoché totalmente dall’uso comune, con un’unica eccezione: lo si utilizza per indicare una particolare varietà di ciliegie, proveniente proprio dalla zona delle Marche, caratterizzata da particolare grandezza.

A inizio Novecento, Gabriele D’Annunzio osserva (nelle sue Prose di ricerca, di lotta, di comando):

«Tutti con la capigliatura al vento, con in mano i berretti colmi di ciliegie duracine e marchiane».

A distanza di ulteriore tempo, la grossolonanità attribuità alle ciliege diventa metaforica – e dispregiativa. Questo il senso di eccessivo, esagerato, madornale (altra parola su cui la Treccani si sofferma e che fa capo all’attributo di maternalità) che associamo al tema dell’errore.

[ illustrazione: Pablo Picasso, La lampe et les cerises – 1945 ]

Standard
APPRENDIMENTO, TECNOLOGIA

Del prendere appunti, dagli amanuensi a oggi

Dalla nascita della scrittura a oggi, prendere appunti continua a confermarsi la pratica di costruzione e preservazione di conoscenze più capace di relazionare mano, occhio e mente. La più estesa formalizzazione dell’arte del prendere appunti risale al 1700, tramite la pratica del “commonplace book” diffusasi in territorio inglese. Charles Darwin, i filosofi Francis Bacon, John Milton e, soprattutto, John Locke – che nel 1706 pubblicò il testo A New Method of Making a Common Place Book – erano soliti compilare un taccuino in cui alle note di studio si mescolavano osservazioni tratte dalla vita quotidiana.

L’utilità del commonplace book era rafforzata dall’abitudine quotidiana alla scrittura, ma non soggetta a regole troppo vincolanti. Per esempio, leggere più testi in parallelo e in maniera apparentemente frammentaria era considerato tutt’altro che controproducente, il che mette in luce la non-linearità di pensiero praticata da questi intellettuali. Lo storico americano Robert Darnton in Il futuro del libro (2000) nota quanto segue:

«Unlike modern readers, who follow the flow of a narrative from beginning to end, early modern Englishmen read in fits and starts and jumped from book to book. They broke texts into fragments and assembled them into new patterns by transcribing them in different sections of their notebooks. Then they reread the copies and rearranged the patterns while adding more excerpts. Reading and writing were therefore inseparable activities».

La consustanzialità tra lettura e scrittura praticata dagli intellettuali inglesi del Settecento ricorda da vicino il “rimasticare testi” dei monaci benedettini del XII secolo descritta dal filosofo Ivan Illich in Nella vigna del testo (1994). In tempi precedenti alla nascita della stampa, la lettura ad alta voce dei monaci permetteva di far proprio un testo per poi copiarlo per iscritto impartendogli leggere modificazioni di forma e sostanza.

Pensando all’impatto sulla cultura dell’invenzione di Gutenberg, che da molti punti di vista ha standardizzato la conoscenza tramite la sua fissazione in una forma scritta “definitiva”, la pratica del prendere appunti, che prima dei commonplace book inglese troviamo nello Zibaldone italiano del XV secolo e che oggi mutatis mutandis sopravvive tanto nei taccuini  Moleskine quanto in software come Evernote, porta con sé un piacevole senso di eversione legato all’opportunità di continuare a potersi riappropriare di qualsiasi contenuto in modi del tutto personali.

[ illustrazione: Harvey Cushing, Harvard Medical School – 1891 ]

Standard
MUSICA, STORIE

Jason Everman: dal grunge all’oblio, una lezione sul successo

Jason Everman è stato una meteora della musica grunge, transitata – e cacciata – sia dai Nirvana che dai Soundgarden prima di intraprendere una carriera militare che l’ha portato a prestare servizio in Afghanistan. Oggi, 45enne e ormai congedato, è reduce dal conseguimento di una laurea in filosofia e pare non avere grandi aspirazioni se non quella, forse, di fare il barista.

Leggendo la sua storia – ottimamente scritta per il New York Times da Clay Tarver (già chitarrista nella band Chavez) – colpiscono due temi, strettamente correlati. Il primo è quello del trovarsi al posto giusto al momento sbagliato: appena dopo l’uscita di Everman, i Nirvana vendono 30 milioni di copie con l’album Nevermind e i Soundgarden vincono un doppio disco di platino con Superunknown. Il secondo tema è l’attitudine, per certi versi controintuitiva, di Everman stesso, che in chiusura di articolo afferma che ciò che più gli interessa è in fondo essere normale, anonimo.

I 15 minuti di successo di warholiana memoria vennero parafrasati negli anni ’90 dal musicista e artista performativo Momus, il quale vaticinò che nell’era del web ognuno sarebbe stato famoso per 15 persone. Benché strumenti come Twitter confermino la bontà della previsione, il caso di Everman dimostra come nella società occidentale persista, al di là del desiderio di celebrità, anche quello di sparizione.

[ illustrazione: i Soundgarden nel 1990, Everman primo a destra ]

Standard
CINEMA, LAVORO

L’Italia del boom secondo Ermanno Olmi

Il Posto (1961) di Ermanno Olmi è un disincantato affresco dell’Italia del boom e della nascita nella nostra nazione della classe dei “colletti bianchi”. Il lavoro agricolo non esiste di fatto più e lo spostamento dalla provincia alla città, organismo in grande cambiamento (in una sequenza si intravedono i lavori per la metropolitana a Milano), rappresenta soprattutto un cambio di prospettiva rispetto a bisogni e desideri.

L’abbandono del paese natale – per assurdo reso ancora più forte dal pendolarismo – racconta la perdita di una cultura aggregante e insieme oppressiva (la famiglia) e la conquista di una libertà che pare portare con sé una necessaria dose di estraneità.

Il Posto descrive l’impersonalità dell’istituzione lavorativa, la sua seriosità e l’approccio scientifico, perfettamente rappresentati dal”ironica resa dei test d’ingresso psico-attitudinali, nonché l’ineluttabilità del destino della carriera professionale.

Alcune sequenze del film riescono perfettamente, nel loro freddo verismo, a mettere in scena alcuni vizi della declinazione italiana del lavoro d’ufficio – in particolare l’ipocrisia dei rapporti e la frustrata brama di carriera – che a distanza di un decennio esatto torneranno in chiave grottesca in Fantozzi (il libro di Paolo Villaggio è del 1971, il film di Luciano Salce del 1975).

[ illustrazione: fotogramma dal film Il Posto di Ermanno Olmi, 1961 ]

Standard
APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, SCIENZA

Perché cerchiamo solo dove c’è luce? Una riflessione sul nostro modo di conoscere

Il tranello percettivo noto come “effetto lampione” è di solito raccontato tramite questo aneddoto:

«Un poliziotto vede un uomo ubriaco cercare qualcosa sotto un lampione e gli chiede cosa abbia perso. L’uomo risponde di essere in cerca delle sue chiavi, dunque il poliziotto decide di aiutarlo. Dopo qualche minuto, il poliziotto chiede all’ubriaco se è sicuro di aver perso le chiavi proprio lì. L’ubriaco risponde di no: in realtà ha perso le chiavi al parco. Il poliziotto gli domanda allora per quale motivo le sta cercando proprio sotto al lampione. L’ubriaco risponde: qui c’è luce».

L’aneddoto – la cui origine risale al filosofo behaviorista americano Abraham Kaplan e al suo testo del 1964 The Conduct of Inquiry – è riportato da molte fonti in diverse forme e dà addirittura titolo al recente libro Il teorema del lampione (2013) dell’economista francese Jean-Paul Fitoussi. In quasi tutti i casi, l’aneddoto è mostrato per mettere in luce una fallacia del modo di accostarsi alla ricerca del nostro cervello, che tende a cedere alla pigrizia privandosi dell’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo nelle “zone d’ombra” della conoscenza.

Una lettura particolarmente interessante del tranello percettivo è contenuta nell’ottimo libro dello studioso americano Stuart Firestein dal titolo Ignorance, in italiano tradotto come Viva l’ignoranza! Il motore perpetuo della scienza (2012). Firestein sostituisce l’ubriaco con uno scienziato, al fine di analizzare le modalità di indagine e ricerca proprie del metodo scientifico. L’aspetto cruciale – per certi versi controintuitivo – della sua interpretazione è una valutazione positiva del “cercare dove c’è luce”. Come è possibile apprezzare questa condotta, soprattutto da parte di uno scienziato? Per il semplice motivo – secondo Firestein – che “cercare dove c’è luce” significa concentrare le propria attenzione anzitutto sugli aspetti osservabili e lasciare da parte quel che non è misurabile. Il “buio” dell’ignoranza viene rischiarato per progressivi affinamenti e non procedendo per ipotesi. Procedere secondo la guida di queste ultime può essere spesso, secondo Firestein, fonte di pregiudizi e discriminazioni.

[ illustrazione: foto del 1926 , autore e luogo ignoti ]

Standard
CITTÀ, INDUSTRIA, LAVORO

Crespi d’Adda, company town all’italiana

Crespi d’Adda è una frazione del Comune di Capriate San Gervasio, in provincia di Bergamo. Qui, nel 1878, l’industriale varesotto Cristoforo Benigno Crespi acquistò 85 ettari di terra per portarvi dalla natia Busto Arsizio la sua industria tessile e fondare attorno al suo opificio un villaggio operaio ispirato alle prime company town europee.

La fabbrica, che nel momento di massima attività contò ben 4000 lavoratori, fu soggetta a più momenti di difficoltà gestionali che causarono un progressivo distacco tra opificio e villaggio. Ai Crespi succedette già negli anni ’30 la STI (Stabilimenti Tessili Italiani), poi la famiglia Legler, che fu costretta alla chiusura nel 2003, e infine il Gruppo Polli. Gli immobili della fabbrica sono oggi di proprietà del Gruppo Percassi, holding fondata dall’ex-calciatore Antonio Percassi, che ne farà il proprio quartier generale in tempo utile per l’Expo 2015.

Chi visita oggi Crespi d’Adda, dal 1995 riconosciuta come patrimonio Unesco, viene accolto da un’atmosfera surreale. Passeggiare fra le casette operaie, mantenute dai discendenti dei lavoratori in uno stato di perfetta conservazione e valorizzate da colori vivaci e sculture floreali, ricorda la dimensione di sogno della città di Edward Scissorhands di Tim Burton (1990).

Negli anni del suo fiorire, il villaggio è stato teatro di un altro genere di sogno, quello del capitalismo paternalistico. Ogni lavoratore riceveva in affidamento un alloggio, insieme all’opportunità di usufruire gratuitamente dei diversi servizi collegati ai luoghi istituzionali del villaggio, fra cui una scuola, un ospedale, una chiesa (costruita sul modello di quella di Busto Arsizio), un teatro, un dopolavoro e perfino una piscina. Visitando il monumentale cimitero del villaggio si ha l’impressione che il monumento funebre della famiglia Crespi, una curiosa piramide di stile eclettico, continui ad abbracciare e proteggere la memoria di tutti i lavoratori che si sono mossi ai suoi piedi.

Il progetto utopistico delle company town non potrebbe risultare più lontano dalle attuali condizioni antropologiche del lavoro, nelle quali l’ideologia spersonalizzante e astratta del “capitalismo delle corporation” ha cancellato quasi ogni traccia di rapporto personale fra padroni e lavoratori. Queste parole di Cristoforo Benigno Crespi hanno la capacità di evocare tanto le ragioni che hanno dato vita al suo progetto utopico quanto i motivi che l’hanno portato al fallimento:

«Ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprenditore che egli vi si trovi comodo, tranquillo ed in pace; adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai la vittima del vizio e della neghittosità. I più bei momenti della giornata per l’industriale previdente sono quelli in cui vede i robusti bambini dei suoi operai scorrazzare per fioriti giardini, correndo incontro ai padri che tornano contenti dal lavoro; sono quelli in cui vede l’operaio svagarsi e ornare il campicello o la casa linda e ordinata; sono quelli in cui scopre un idillio o un quadro di domestica felicità; in cui fra l’occhio del padrone e quello del dipendente, scorre un raggio di simpatia, di fratellanza schietta e sincera. Allora svaniscono le preoccupazioni di assurde lotte di classe e il cuore si apre ad ideali sempre più alti di pace e d’amore universale».

[ illustrazione: il cimitero di Crespi D’Adda, luglio 2013, foto di Dario Villa ]

Standard