FOTOGRAFIA, PERCEZIONE, SOCIETÀ

L’uomo osservato: fotografia e identità

Un recente lavoro di “colorizzazione” ha dato nuova veste a una serie di fotografie che documentano la guerra civile americana. A fianco di immagini che rappresentano personaggi come Abraham Lincoln, Mark Twain o il generale Custer, spicca un ritratto di Lewis Powell (1844-1865), cospiratore noto per aver partecipato alla progettazione di un piano per assassinare Lincoln e, più nello specifico, per aver fallito nel tentativo di uccidere il segretario di stato William H. Seward (1801-1872) ed essere quindi stato impiccato nel luglio del 1865.

Al di là della sua rilevanza storica, Powell occupa un posto importante anche nella storia della fotografia. Alcune immagini che lo ritraggono durante la prigionia precedente alla sua esecuzione, realizzate dal fotografo scozzese Alexander Gardner (1821-1882), sono divenute “icone” su cui vari studiosi di fotografia hanno lungamente riflettuto (su tutti: Roland Barthes nel testo del 1980 La camera chiara. Nota sulla fotografia).

Un articolo dello studioso Michael Sacasas va oggi in cerca delle ragioni della fascinazione generata nel corso del tempo dal ritratto di Powell, che ha soprattutto una caratteristica: risultare oggi estremamente “contemporaneo”. Apparenza e vestiario del soggetto certo giocano a favore di questa interpretazione, ma a generarla è soprattutto l’atteggiamento di fronte alla macchina fotografica di Powell, che risulta molto più spontaneo, naturale e “fotogenico” della media dei suoi contemporanei, che di fronte alla macchina fotografica risultavano spesso molto a disagio e goffi. Ciò che le immagini di Powell dunque suscitano è soprattutto una riflessione sulla nostra “coscienza rappresentativa”, vale a dire sull’atteggiamento che assumiamo quando siamo consapevoli di essere rappresentati o più in generale “osservati”. Si tratta di un tema più che mai cruciale per la nostra contemporaneità, che tocca aspetti del nostro vivere legati anche ai temi della rappresentazione pubblica dell’individuo e della sua privacy.

Tornando a Powell, alcuni resoconti storici raccontano che egli oppose una certa resistenza al tentativo di fotografarlo. Quando Powell infine si rassegnò a essere ritratto, il suo atteggiamento rimase di sfida e grande dignità e il suo modo di manifestarlo fu quello di ostentare indifferenza rispetto alla macchina fotografica. In questo modo, il ritratto di Powell diventa il primo esempio di resistenza della soggettività umana di fronte all’oggettivizzazione imposta dall’occhio meccanico della fotografia. È esattamente questo, secondo Sacasas, che dal 1865 continua ad affascinarci:

«This is what gave Powell’s photographs their eerie modernity. They were haunted by the future, not the past. It wasn’t Powell’s imminent death that made them uncanny; it was the glimpse of our own fractured subjectivity. Powell’s struggle before the camera, then, becomes a parable of human subjectivity in the age of pervasive documentation. We have learned to play ourselves with ease, and not only before the camera. The camera is now irrelevant».

[ illustrazione: ritratto di Lewis Powell realizzato da Alexander Gardner nel 1865 e colorato nel 2013 ]

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CULTURA, SOCIETÀ

Le disuguaglianza dell’economia cinese

La veloce e sorprendente crescita economica della società cinese porta con sé grandi disuguaglianze e un rapporto con la ricchezza sotto molti punti di vista problematico. Per mettere in luce tutto questo, un articolo della rivista China Daily si sofferma sull’attuale uso sostantivo cinese “tuhao”. Questo termine, che pare fosse utilizzato da Mao Zedong per stigmatizzare atteggiamenti devianti rispetto all’ideologia comunista, ha oggi assunto un significato che è sostanzialmente quello del “ricco parvenu”.

L’individuo “tuhao” ostenta la propria ricchezza attraverso scelte e comportamenti che, pur nascendo da una più che comprensibile ricerca di riconoscimento sociale, finiscono per degenerare e diventare oggetto di derisione. Si parte brandendo un iPhone color oro e si finisce per arredare la propria dimora come una Casa Bianca in versione kitsch; si inizia col mostrarsi filantropi nei confronti della collettività e ci si riduce a diventare inutilmente generosi, offrendo ricche cene a sconosciuti senza un motivo plausibile.

Nell’attuale società cinese, etichettare qualcuno come “tuhao” significa canzonarlo e criticarlo ma anche, più sommessamente, invidiarlo. Questa relazione di amore / odio rappresenta l’aspetto più sottile e controverso del rapporto dei cinesi con la ricchezza. Rifacendosi a una fittizia “favola buddista”, l’articolo del China Daily racconta questa contraddizione con una certa ironia:

«A man asked a Buddhist priest: “Master, I’m wealthy but I’m unhappy. Can you give me some guidance?”.

“But what is wealth?” retorted the priest. (Spiritual men talk in this way to enhance their mystique).

“The money in my bank has reached eight digits, and on top of that I have three apartments at Beijing’s most expensive location. Does that make me wealthy?” The priest did not say anything, but put out one hand. The man said: “You mean I should learn to be thankful?”

“No,” said the priest in a timid voice. “Can I, I mean, can we be friends?”»

 

[ illustrazione: particolare dall’opera Untitled di Yue Minjun ]

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COMUNICAZIONE, POLITICA, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

La critica di Evgeny Morozov al cyber-ottimismo

Nel suo testo L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet (2011) l’esperto di nuovi media Evgeny Morozov indaga i molteplici aspetti critici dell’apparente democratizzazione di strumenti e contenuti prodotta dalle nuove tecnologie. Opponendosi alle opinioni di quanti bolla come “cyber-utopisti”, Morozov rilegge criticamente alcuni momenti della recente storia politica mondiale – dal crollo del muro di Berlino alle proteste post elettorali in Iran del 2009 – mostrando come il tanto acclamato ruolo rivestito in questi eventi dalle tecnologie (da Radio Free Europe a Twitter) sia stato molto più marginale di quanto una certa propaganda occidentale abbia voluto farci credere.

Rispetto al ruolo di internet, strumento apparentemente in grado di offrire a chiunque libertà di parola e informazione, Morozov svela la facilità con cui i regimi autoritari, in maniera molto più tecnologicamente efficace di quanto si potrebbe pensare, riescono a controllare i flussi telematici delle rispettive nazioni. In particolare, i meccanismi di profilazione personale della cosiddetta internet 2.0 risultano perfetti a questo scopo.

Ma quel che forse più colpisce delle analisi di Morozov è quanto egli osserva sull’atteggiamento di chi utilizza internet, con particolare riferimento al bilanciamento tra divertimento e noia e ai suoi influssi sull’impegno sociale e politico:

«I nuovi media e internet sono eccellenti nell’eliminare la noia. Prima la noia era uno dei modi più efficaci per politicizzare un popolo a cui erano state negate valvole di sfogo per incanalare lo scontento, ma oggi non è più così. In un certo senso, internet ha reso molto simili le esperienze di intrattenimento di coloro che vivono in uno stato autoritario e di coloro che vivono in una democrazia. I cechi di oggi guardano gli stessi film hollywoodiani dei bielorussi di oggi, molti probabilmente li scaricano dagli stessi server gestiti illegalmente in Serbia o Ucraina. L’unica differenza è che i cechi hanno già avuto una rivoluzione democratica, il cui risultato, fortunatamente per loro, è diventato irreversibile quando la Repubblica Ceca è entrata nell’Unione Europea. I bielorussi non sono stati altrettanto fortunati; e la prospettiva di una rivoluzione democratica nell’era di YouTube appare molto sinistra».

[ illustrazione: fotogramma dal film Nineteen-Eighty-Four di Michael Radford, 1984)

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CINEMA, COLORI, LETTERATURA, SOCIETÀ

Il rosa è un colore femminile?

Le ultime pagine del romanzo di Francis Scott Fitzgerald Il grande Gatsby (1925) contengono un curioso dialogo che riguarda il colore del vestito del protagonista. Gatsby indossa un completo rosa e il suo antagonista Buchanan sottolinea questa scelta cromatica con disprezzo. Per un lettore di oggi, la situazione è ambigua: perché Buchanan critica il rosa di Gatsby? Nessuna delle due versioni cinematografiche del romanzo (1974 e 2013) aiuta a svelare il mistero. E chi pensa che Buchanan voglia deridere una scelta poco mascolina fatta da Gatsby, si sbaglia di grosso. Ecco la verità: negli anni ’20 e ’30 vestire di rosa era considerato perfettamente virile, ma questo colore era associato alle classi sociali più basse. Buchanan intende dunque mettere alla berlina le origini di Gatsby, smascherando tutte le sue menzogne.

Questo esempio mostra quanto l’interpretazione di un colore possa essere soggetta a mutamenti legati a diverse epoche e contesti culturali. Un articolo del «The Atlantic» ricostruisce un’articolata storia del legame tra rosa e vestiario, dal XVIII secolo a oggi. Se, come già notato, il rosa è considerato colore maschile fino agli anni ’30, in realtà esso porta con sé soprattutto una connotazione di salute e giovinezza. Era dunque normale vederlo indossato da bambini, giovani uomini e donne, ma non da persone anziane. Rispetto ai più piccolo, in queste epoche la scelta dei colori era intesa più per differenziare gli infanti dagli adulti che non per distinguere i due sessi. I classici rosa e azzurro erano quindi entrambi legati ai bambini, ma in modo perfettamente interscambiabile rispetto al loro sesso. I primi segnali di differenziazione in questo senso nascono verso la fine dell’Ottocento, sulla spinta delle teorie sullo sviluppo infantile di Freud. Parallelamente, in un romanzo come Piccole donne (1880) di Louisa May Alcott si attribuisce a un’usanza francese la preferenza del rosa per le bambine.

È solo dopo la metà del Novecento che si arriva ad associare il rosa prettamente con la femminilità, in relazione a una conformità di codici – non solo vestiari – messa in atto a partire dagli anni ’50. Quel che segue nella seconda metà del XX secolo è uno spostamento verso una lettura “unisex” dell’abbigliamento dei bambini – coincidente con la fine degli anni ’70 – che ha poi condotto, probabilmente per semplice reazione, al ritorno “tradizionalista” che oggi viviamo.

Questa breve storia dell’abbigliamento rosa aiuta a comprendere quanto molte usanze che si sembrano date, immutabili o perfino naturali siano in realtà del tutto dipendenti da un’interpretazione culturale legata a un ambiente e a un momento storico. Quanto vale per il rosa è applicabile a moltissime altri apparenti “dati di fatto” della vita personale e lavorativa.

[ illustrazione: fotogramma dal film Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, 2013 ]

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LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ

Distopia e taylorismo in “Noi” di Evgenij Zamjatin

Nell’ampio filone della letteratura distopica un posto importante è occupato, al fianco dei celebri Mondo nuovo (Aldous Huxley, 1932), 1984 (George Orwell, 1948) e Fahrenheit 451 (Ray Bradbury, 1953), da un testo poco conosciuto ma non meno importante: Noi, opera del 1921 dello scrittore russo Evgenij Zamjatin (1884-1937).

Il contesto storico e sociale da cui emerge l’anti-utopia di Zamjatin è quello della dittatura stalinista, da lui trasposta in romanzo come un’organizzazione sociale in cui l’oppressione della libertà individuale agita dalla collettività spersonalizzata del “noi” giunge alla sua esasperazione tramite la totale negazione di ogni moto di libero pensiero.

Zamjatin – che di formazione era ingegnere – riconduce la disciplina meccanica e priva di emozioni del regime che descrive niente meno che ai precetti di Frederick Winslow Taylor (1856-1915), facendo di Noi uno dei primi esempi di letteratura esplicitamente critica dei confronti dello Scientific Management e dunque dell’ideologia dell’organizzazione moderna del lavoro nel suo complesso.

Uno dei passaggi chiave del romanzo contiene la descrizione, pubblicata sul “Giornale di Stato” che è organo del regime oppressivo, di un’operazione in grado di rendere felici eliminando il principale nemico della razionalità, cioè la fantasia:

«La bellezza di un meccanismo sta nel suo ritmo incessante ed esatto, simile a quello di un pendolo. Ma voi, allevati fin dall’infanzia al sistema di Taylor, non siete forse diventati esatti come un pendolo? Il fatto è che: un meccanismo è privo di fantasia! […] La colpa non è vostra, siete afflitti da una malattia il cui nome è: fantasia. È un verme che solca la fronte di righe scure. È una febbre che vi spinge a correre sempre oltre, sebbene questo “oltre” inizi là, dove termina la felicità. È l’ultima barricata sulla via che conduce alla felicità. Ma rallegratevi: essa è già stata fatta saltare! La via è sgombra! L’ultima scoperta della Scienza di Stato è la sede della fantasia […]. Una volta che il suddetto plesso venga bombardato a tre riprese con i raggi x, la fantasia non vi affliggerà più. Per sempre! Sarete perfetti, equivarrete a delle macchine, la via che conduce al 100% della felicità è sgombra».

[ illustrazione: particolare della copertina di Noi dall’edizione Garzanti del 1972 ]

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ARTE, CINEMA, SOCIETÀ

L’immagine della nostalgia

Imitation of Life è un filmato di circa 3 minuti presentato dall’artista austriaco Mathias Poledna alla 55a Biennale di Venezia. Si tratta di un cartone animato realizzato con tecniche tradizionali di animazione e musicato con una reinterpretazione del brano del 1936 I’ve Got a Feelin’ You’re Foolin’ di Arthur Freed e Nacio Herb Brown (autori di alcuni dei principali musical hollywoodiani dell’epoca).

All’apparenza si tratta solo di un piacevolissimo cartone animato sullo stile di quelli realizzati da Disney, con protagonista un asino vestito da Donald Duck e personaggi di contorno e ambientazione che sembrano usciti da Bambi. Un osservazione più attenta, guidata dalle intenzioni dell’artista e dalle note del curatore, fa riflettere sul parallelismo tra l’epoca attuale e quella evocata dal filmato, identificabile in un comune desiderio di spensieratezza e felicità – soddisfatto dall’industria culturale – a fronte di una realtà percepita come cupa.

Giocando con senso estetico di nostalgia oggi molto diffuso, Imitation of Life si pone anche, riproponendo una tecnica realizzativa oggi obsoleta perché estremamente onerosa, come simbolo del capitalismo occidentale che fu, nonché di molti temi ideologici a esso legati.

[ illustrazione: fotogramma dal film ]

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