La veloce e sorprendente crescita economica della società cinese porta con sé grandi disuguaglianze e un rapporto con la ricchezza sotto molti punti di vista problematico. Per mettere in luce tutto questo, un articolo della rivista China Daily si sofferma sull’attuale uso sostantivo cinese “tuhao”. Questo termine, che pare fosse utilizzato da Mao Zedong per stigmatizzare atteggiamenti devianti rispetto all’ideologia comunista, ha oggi assunto un significato che è sostanzialmente quello del “ricco parvenu”.
L’individuo “tuhao” ostenta la propria ricchezza attraverso scelte e comportamenti che, pur nascendo da una più che comprensibile ricerca di riconoscimento sociale, finiscono per degenerare e diventare oggetto di derisione. Si parte brandendo un iPhone color oro e si finisce per arredare la propria dimora come una Casa Bianca in versione kitsch; si inizia col mostrarsi filantropi nei confronti della collettività e ci si riduce a diventare inutilmente generosi, offrendo ricche cene a sconosciuti senza un motivo plausibile.
Nell’attuale società cinese, etichettare qualcuno come “tuhao” significa canzonarlo e criticarlo ma anche, più sommessamente, invidiarlo. Questa relazione di amore / odio rappresenta l’aspetto più sottile e controverso del rapporto dei cinesi con la ricchezza. Rifacendosi a una fittizia “favola buddista”, l’articolo del China Daily racconta questa contraddizione con una certa ironia:
«A man asked a Buddhist priest: “Master, I’m wealthy but I’m unhappy. Can you give me some guidance?”.
“But what is wealth?” retorted the priest. (Spiritual men talk in this way to enhance their mystique).
“The money in my bank has reached eight digits, and on top of that I have three apartments at Beijing’s most expensive location. Does that make me wealthy?” The priest did not say anything, but put out one hand. The man said: “You mean I should learn to be thankful?”
“No,” said the priest in a timid voice. “Can I, I mean, can we be friends?”»
[ illustrazione: particolare dall’opera Untitled di Yue Minjun ]