ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, CREATIVITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, EPISTEMOLOGIA, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA, SOCIETÀ

Creatività: finalmente un ottimo libro (scritto nel 1924)

«Il problema della democrazia è quello di come rendere la nostra vita quotidiana creativa».
Mary Parker Follett

Su Wikipedia ancora nessuno ha pensato di aprire una pagina in italiano dedicata a Mary Parker Follett (1868-1933). Questo particolare la dice lunga sulla scarsa fama di cui gode in Italia questa pensatrice americana, il cui contributo è stato centrale per lo sviluppo del pensiero manageriale delle origini. Il confronto con la psicologia comportamentale e con quella della Gestalt permisero a Follett di elaborare un pensiero originale nel quale le logiche funzionalistiche e gerarchiche dell’organizzazione del lavoro sono rilette secondo una dinamica di valorizzazione dell’elemento umano che anticipa – e per molti versi supera – diversi elementi tematizzati dallo Human Resources Movement.

Il suo testo Esperienza creativa (1924) offre una lettura del tema della creatività di grande valore civile. Anzitutto, creatività non è cosa individuale ma relazionale. Il discorso di Follett sulla creatività è collettivo e sociale, ponendosi come presupposto per una vera democrazia. La creatività è integrazione di diversità e il tema della responsabilità e del confronto non sta nella risposta di un soggetto A a un soggetto B, ma nella relazione fra A, B e il contesto in cui entrambi si muovono. Tutti questi elementi sono dinamici, in continuo cambiamento. La loro relazione non avviene tramite un’entità astratta come la “mente”, ma in concreto, nel mondo, attraverso relazioni fisiche e motorie. La pratica della creatività è il processo di integrazione che scaturisce da questo incontro.

Follett dedica diverse pagine del suo saggio a un tema centrale per le organizzazioni contemporanee e più in generale per la società, quello del ruolo dell’esperto. La cieca fiducia che spesso viene conferita a chi è ritenuto in possesso di una conoscenza “esperta” rappresenta una delegittimazione della relazione di corresponsabilità e, di conseguenza, delle dinamiche alla base della creatività. Il presupposto erroneo di questo tipo di considerazione sta nel ritenere i fatti immutabili e le posizioni dell’esperto assolute. Ma, coerentemente con la dinamica di integrazione esposta da Follett, i fatti non potranno mai essere statici, né le interpretazioni oggettive. L’esperienza delegata non potrà mai prendere il posto di un’esperienza vissuta relazionalmente, dialetticamente. Ecco perché un’educazione al “buon uso” degli esperti, nei confronti dei quali il tema centrale è di nuovo quello del dialogo e dell’integrazione, è un presupposto fondamentale per una effettiva democrazia, tanto in ambito sociale quanto lavorativo.

[ illustrazione: Henry Matisse, La tristesse du roi, 1952 ]

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ARCHITETTURA, CITTÀ, INDUSTRIA, LAVORO, UFFICI

Olivetti e Ivrea: il fallimento del sogno industriale e il declino di una città

Il 1959 è un anno cruciale per Olivetti e per l’intera industria italiana: viene presentato Elea 9003, primo computer mainframe al mondo interamente basato su transistor. Olivetti è l’avamposto italiano della rivoluzione elettronica incarnata dai calcolatori, raccontata per l’occasione da un fantascientifico documentario (regia di Nelo Risi, musiche di Luciano Berio). Rispetto allo sviluppo sul territorio, dopo la sede aperta a Pozzuoli ci si volge all’area di Rho (alle porte di Milano), coinvolgendo l’architetto più in linea con il pensiero olivettiano, Le Corbusier. L’azienda – che complessivamente supera i 50.000 dipendenti – è guidata dall’imprenditorialità illuminata di Adriano Olivetti (1901-1960). Un riferimento che oggi, a oltre 50 anni di distanza, si continua a studiare e celebrare, unione di spirito scientifico e umanistico che affida ruoli dirigenziali a intellettuali e letterati (fra gli altri Musatti, Fortini, Volponi, Ottieri, Gallino). Ivrea, storica sede in cui il padre di Adriano, Camillo (1868-1943), diede avvio all’impresa nel 1908, è un esempio di welfare aziendale senza pari in Italia.

Pochi anni dopo, il sogno comincia a sgretolarsi. Nel 1960, dopo la morte di Adriano, è il figlio Roberto (1928-1985) a prendere in mano l’azienda e il piano per la nuova sede di Rho. Nel 1962 il progetto viene completato, ma vicende interne all’azienda ne rallentano la realizzazione: in seguito a difficoltà di gestione, la divisione elettronica viene venduta nel 1964 alla General Electric. Nel 1965 sopraggiunge la morte di Le Corbusier, che congela per sempre il progetto di Rho lasciandolo in eredità alle future speculazioni degli studiosi di architettura industriale – fra queste spicca il volume Le Corbusier e Olivetti. La «Usine Verte» per il Centro di calcolo elettronico di Silvia Bodei (2014). Alla morte di Roberto, nel 1985, l’azienda è già da quasi dieci anni in mano a Carlo De Benedetti, al quale si deve l’abbandono del mondo dell’informatica a favore di una forse coraggiosa ma certo sfortunata avventura nel mondo della telefonia mobile. Cosa è avvenuto in seguito? Come ricostruito da un articolo di «Pagina 99» del 14.06.14, Olivetti fu vittima di un progressivo piano di smantellamento da molti descritto come “omicidio industriale”.

Oggi l’azienda continua a esistere, come piccola controllata del gruppo Telecom. I suoi dipendenti sono meno di 600, impegnati nella progettazione e commercializzazione di prodotti per il settore bancario e postale che vengono realizzati in Cina. Del progetto di welfare olivettiano restano tracce ovunque a Ivrea: nelle architetture, nello spirito imprenditoriale che ha dato vita a diverse micro-imprese iperspecializzate e, soprattutto, nei risparmi delle classi lavorative degli anni passati, sulle cui spalle si appoggiano i più o meno fortunati tentativi imprenditoriali dei giovani lavoratori d’oggi. Cercando di svincolarsi dal suo passato industriale, Ivrea ha nel frattempo intrapreso due nuove avventure, quella dei call center (oggi messa in crisi dalle varie delocalizzazioni) e quella dello studio televisivo canavese Telecittà, dove si gira da anni il serial tv Centovetrine (che continua a dare lavoro a circa 300 persone, benché nel 2012 abbia rischiato la chiusura). Nel frattempo, la tradizionale “battaglia delle arance” di Ivrea ha segnato nel 2014 il suo record di presenze.

[ illustrazione: show room Olivetti in Svizzera, 1957 ]

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CAMBIAMENTO, COMUNICAZIONE, INNOVAZIONE, LAVORO, MARKETING

Wally Olins, inventore del “brand totale”

In occasione della scomparsa di Wally Olins (1930-2014), «The Economist» dedica un articolo alla carriera del grande consulente di branding inglese. Dopo una laurea in storia a Oxford, Olins si trasferì a Londra per occuparsi di pubblicità. Assunto da Ogilvy and Mather, fu incaricato di gestirne l’ufficio di Mumbai, città ove visse per diversi anni. Di ritorno a Londra alla metà degli anni ’60, fondò con un socio la Wolff Olins, azienda di consulenza destinata a rivoluzionare il mondo della pubblicità.

In un mercato in cui le aziende erano abituate a investire sforzi e risorse esclusivamente per pubblicizzare specifici prodotti, l’intuizione di Olins fu dirompente: perché non iniziare a promuovere l’intera azienda come un brand? Lavorando sull’importanza della connessione emotiva con i propri clienti, Olins riuscì a convincere moltissime aziende della centralità del corporate branding come parte integrante di una strategia di marketing di lungo termine. A riprova del successo dell’idea, perfino individui, associazioni non governative, musei, città e nazioni iniziarono ben presto a coltivare il proprio brand.

Il cambiamento culturale innescato da Olins fu tanto repentino quanto incisivo: a distanza di meno di cinquant’anni dalla sua nascita, il “brand totale” appare uno strumento aziendale così ovvio e indispensabile da sembrare sempre esistito. Oltre a cambiare per sempre il modo in cui le aziende guardano alla propria immagine, Olins riuscì a modificare le logiche di un intero settore lavorativo: la nuova attenzione al brand mise in discussione lo strapotere delle grandi agenzie pubblicitarie e favori la costruzione di un mercato più frammentato, in cui piccole agenzie hanno potuto specializzarsi e crescere coltivando la propria nicchia.

[ illustrazione: caricatura di Wally Olins realizzata da Yann Legendre ]

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APPRENDIMENTO, BIGDATA, LAVORO, SCIENZA, TECNOLOGIA

Perché i computer non saranno mai all’altezza degli uomini? Perché non sanno essere infantili

Durante gli anni ’80, gli studi sull’intelligenza artificiale hanno iniziato a scontrarsi contro un’evidenza: se simulare con un computer un livello “adulto” di intelligenza è relativamente semplice, risulta praticamente impossibile trasferirgli le abilità di un bambino di un anno.

Il “paradosso di Moravec” (dal nome dell’esperto di robotica austriaco Hans Moravec) descrive la difficoltà – attualmente irrisolta – di condurre un elaboratore elettronico a impadronirsi di capacità umane primordiali. Come ha notato lo studioso americano – e co-fondatore del MIT – Marvin Minsky, le facoltà umane su cui è più difficile applicare processi di “reverse engineering” finalizzati alla loro simulazione sono proprio quelle più basiche e, per molti versi, inconsce.

C’è un aspetto controintuitivo che rende preziosa questa scoperta: mentre ci immagineremmo arduo simulare abilità che per noi comportano un apprendimento faticoso (relativo per esempio a cognizioni ingegneristiche, matematiche e in generale a tutto ciò che etichettiamo come “scienza”), queste risultano in realtà molto più facili da trasferire a un computer rispetto a facoltà “innate” legate alla percezione, all’attenzione, alle capacità motorie e sociali.

Le abilità più recenti sulla linea temporale dell’evoluzione umana comportano per noi maggiori difficoltà di apprendimento proprio perché relativamente nuove e non interiorizzate; quelle più remote, benché molto più complesse, ci appaiono semplici perché agite in maniera trasparente e spontanea. I computer, privi del nostro background biologico e ben lontani da qualsiasi forma si spontaneità, incontrano grandi difficoltà nel simulare le seconde mentre ottengono buoni risultati nelle prime.

Secondo lo studioso cognitivo Steve Pinker, tutto questo ha un risvolto che dovrebbe tranquillizzare quanti sentono il proprio posto di lavoro minacciato da computer sempre più potenti. Se alcune professioni risultano effettivamente a rischio, altre non lo saranno mai, o quasi, proprio per via del paradosso di Moravec: i posti di lavoro di analisti finanziari e ingegneri petrolchimici saranno forse assunti da macchine nel giro di pochi anni; quelli di giardinieri, receptionist e cuochi non lo saranno verosimilmente ancora per moltissimo tempo.

[ illustrazione: fotogramma dal film Artificial Intelligence di Steven Spielberg, 2001 ]

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FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, STORIE

Nutella, storia di un’innovazione “jugaad”

Un articolo del «Guardian» celebra i cinquant’anni della Nutella e il successo di Ferrero, uno dei brand italiani più noti e apprezzati all’estero ed esempio praticamente unico di azienda in crescita nell’attuale contesto di recessione economica che interessa il nostro Paese.

Se la multinazionale di Alba è oggi considerata uno dei luoghi di lavoro più ambiti in Italia, con un sistema di welfare organizzativo efficace e strettamente interconnesso con il territorio, il merito è soprattutto della buona gestione di una “company family” la cui caratteristica distintiva resta, a oltre settant’anni dalla fondazione, una “autarchica” indipendenza. L’azienda resta infatti italiana al 100% e, a oggi, non ha mai pensato di quotarsi in borsa.

Quanto alla Nutella, battezzata nel 1964 con un nome appropriatamente internazionale (da “nut”, nocciola in inglese), tutto è nato da un’intuizione imprenditoriale del piccolo laboratorio di Pietro Ferrero (1898-1949). Nel 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale, i semi di cacao erano in Italia rari e costosi. La loro indisponibilità spinse Pietro a porsi una domanda: perché non svincolarsi dal cacao e sfruttare invece le nocciole – materia prima economica e largamente disponibile – per mettere a punto un prodotto completamente nuovo?

Attenzione al contesto e capacità di scorgere un’opportunità all’interno di un’apparente avversità: da questi principi di innovazione oggi ben descritti dal concetto indiano di “jugaad” nascono, assecondando l’intuizione di Pietro, i primi prodotti Ferrero a base di nocciole, cioè la Pasta Giandujot e la Supercrema. Già nel 1957, Ferrero inizia a espandersi in Europa con stabilimenti in Germania e Francia e, con la nascita della Nutella nel 1964, si trasforma nell’affermata multinazionale cui oggi tutto il mondo tributa incondizionato plauso.

[ illustrazione: fotogramma da Bianca di Nanni Moretti, 1984 ]

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INDUSTRIA, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE

Il lato oscuro di Henry Ford

Henry Ford (1863-1947) è ricordato come uno dei più grandi imprenditori della storia. Seguace del pensiero taylorista e inventore della catena di montaggio, introdusse nel mercato americano la prima automobile prodotta su larga scala, il celebre Modello T. Noto per l’amicizia con Thomas Edison e per l’ammirazione nei confronti dell’Alfa Romeo, Ford fu personaggio non privo di lati oscuri, testimoniati in particolare da uno spiccato antisemitismo e da un duraturo rapporto con Adolf Hitler.

Un nome decisamente meno noto è quello di Harry Bennett (1892-1979), ex pugile e marinaio che fu per circa un ventennio braccio destro di Ford. Le pagine di The Arsenal of Democracy: FDR, Detroit, and an Epic Quest to Arm an America at War (2014) del giornalista A.J. Baime presentano un corposo resoconto del rapporto fra i due, di cui la rivista «Salon» pubblica un estratto.

Assunto da Ford come guardia del corpo e uomo di fiducia, Bennett era a capo di un piccolo esercito di sicurezza, fondamentalmente composto da avanzi di galera, da lui denominato “Service Department”. Già alla fine degli anni ’20, Bennett supervisionava qualsiasi attività del complesso Ford di Rouge (Dearborn, Michigan). Henry lo teneva in altissima considerazione e questo rapporto influì negativamente sulla sua relazione con il figlio Edsel, erede naturale dell’azienda.

L’industria automobilistica di Detroit uscì sconvolta dalla crisi del 1929. Ford si trovò a fronteggiare sul fronte esterno il crollo del mercato, su quello interno forti proteste. Bennett e il suo “Service Department” instaurarono all’interno dell’azienda un regime del terrore basato su corruzione e violenza. Mentre alle linee di produzione veniva chiesto di aumentare i ritmi di lavoro, gli operai sviluppavano, a causa dello stress subito, patologie all’apparato digerente presto etichettate come “the Ford stomach.” Nel giro di pochi anni la Ford divenne, da miglior posto di lavoro americano, un luogo da incubo.

Nel 1938 Ford lasciò la direzione dell’azienda al figlio Edsel, ma solo dal punto di vista formale: in realtà controllava ancora ogni attività aziendale, attraverso il braccio armato del fido Bennett. Il dominio di quest’ultimo perdurò fino al 1943, quando, in seguito alla morte di Edsel per un tumore, a entrare in scena fu la moglie di Henry, Clara. Quest’ultima convinse il marito a trasferire la guida dell’azienda al nipote ventiseienne Henry Ford II, il cui primo atto ufficiale di ristrutturazione fu l’allontanamento di Henry Bennett. L’ex pugile si ritirò in un lussuoso “fortino” nel Michigan ove trascorse il resto della sua vita.

[ illustrazione: ritratto di Henry Ford, autore ignoto ]

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ANTROPOLOGIA, EPISTEMOLOGIA, FILOSOFIA, LAVORO, TECNOLOGIA

La vergogna prometeica: l’esperienza della tecnica secondo Günther Anders

Nessun mito esprime bene la relazione fra uomo, tecnica e sapere quanto quello di Prometeo. Il filosofo tedesco Günther Anders (1902-1992) ne ha costruito una fondamentale rilettura nel primo volume – datato 1956 – della sua opera L’uomo è antiquato.

Anders parla di “vergogna prometeica” per descrivere la peculiare sensazione ispirata dai più mirabili raggiungimenti della tecnica. L’uomo si sente inferiore alla grande qualità di oggetti che sfuggono al suo controllo benché da lui stesso creati.

Quando è la tecnica a prevalere, decadono tanto la competenza dell’uomo a decidere da sé i suoi problemi quanto l’esistenza stessa di problemi che non siano risultato di un calcolo tecnico. Un ulteriore risvolto della vergogna prometeica è la percezione della propria non-responsabilità di fronte alla tecnica, ovvero l’impossibilità di farsi carico di un’abilità di risposta per qualcosa che va oltre sé.

Con particolare riferimento al senso di alienazione tipico della produzione industriale, Anders nota come l’uomo non riesca più a provare orgoglio per i risultati della tecnica, perché questi ultimi sono frutto di una frammentazione di processi produttivi impossibile da abbracciare con uno sguardo che riconosca e valorizzi le tracce del lavoro individuale.

[ illustrazione: particolare da William Blake, The ancient of days, 1794 ]

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CONCETTI, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

Innovazione organizzativa: da ideologia a prassi

L’innovazione, processo fondamentale per la sopravvivenza di qualsiasi organizzazione all’interno di un mercato competitivo, è spesso ridotta a mera ideologia. Principali responsabili di questa distorsione percettiva sono le pubblicazioni manageriali sul tema, la cui presenza sugli scaffali delle librerie aumenta di anno in anno. Il problema della maggior parte di questi libri è duplice: da un lato presentano l’innovazione come un fine (e non come un mezzo); dall’altro forniscono l’illusoria promessa di “ricette dell’innovazione” applicabili in qualsiasi contesto. Qual è il risultato di questo tipo di propaganda? Un’applicazione generalizzata del linguaggio dell’innovazione, una conoscenza superficiale di casi di studio di successo. E poco altro. Soprattutto, pochissimi cambiamenti nei processi e nelle pratiche lavorative. Un articolo pubblicato dalla «Stanford Social Innovation Review» (basato su una ricerca condotta per la Rockfeller Foundation) analizza la questione sotto una nuova luce.

Anzitutto, l’innovazione non va intesa come un risultato, ma come un processo. In questo senso, ogni organizzazione dovrebbe mettere in atto un serio lavoro di analisi dei propri processi, facendo molta attenzione a distinguere l’innovazione cosiddetta “radicale” da quella incrementale. In molti casi – l’articolo cita quello dell’ospedale oftalmico Aravind di Madurai (India) – applicare uno stravolgimento delle pratiche organizzative che replica su larga scala quanto funzionato in un contesto limitato può portare a risultati nefasti. Questo implica che, soprattutto per quanto riguarda ambienti caratterizzati da povertà diffusa come quello di Madurai, un’innovazione incrementale basata su un sistema di competenze strutturato può funzionare molto meglio di cambiamenti radicali che non tengono in adeguata considerazione il contesto di riferimento. Comprendere tutto questo sembra estremamente razionale; tuttavia, come notano gli autori dell’articolo, l’impegno e il lavoro di routine non risulteranno mai “sexy” quanto l’innovazione radicale.

Un secondo tema di attenzione riguarda il sottovalutare i propri errori inerenti all’innovazione. Citando un secondo caso indiano, quello della non profit del settore idrico Gram Vikas, l’articolo mette in luce come imparare dai propri tentativi falliti di innovazione significa soprattutto mappare il proprio contesto di riferimento e rimuovere le barriere interne che ostacolano gli sviluppi innovativi. Soprattutto quest’ultimo punto è fondamentale per qualsiasi organizzazione: a fronte della faciloneria degli slogan della letteratura di settore, costruire una prassi dell’innovazione significa soprattutto imparare a superare gli ostacoli interni – nel 90% dei casi di matrice manageriale e culturale – che possono bloccare in partenza qualsiasi iniziativa di sviluppo. In mancanza di un’attenzione di questo tipo, i progetti di innovazione continueranno a suonare ideologici quanto le “diete miracolo” che promettono di far perdere sette chili in sette giorni.

[ illustrazione: Albert Edelfelt, Ritratto di Louis Pasteur, particolare – 1885 ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, FILOSOFIA, LAVORO, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Arnold Gehlen e i danni dell’iper-specializzazione lavorativa

Il filosofo e antropologo tedesco Arnold Gehlen (1904-1976) è noto per le sue riflessioni sulla natura umana, incentrate sul superamento del dualismo cartesiano mente-corpo. Al centro del suo pensiero – di cui è sintesi l’opera L’uomo (1940-1950) – è una filosofia dell’azione che legge la storia umana come una somma di atti produttivi. L’uomo è caratterizzato da uno stato di non-definizione che lo contraddistingue dall’animale e che lo limita dal punto di vista delle possibilità fisiche. Questa condizione è tuttavia il punto di partenza per un progetto di “esonero” dalla mancanza, cioè una liberazione dagli obblighi e dai difetti naturali condotta attraverso un’emancipazione agita grazie a cultura e tecnica. L’uomo è dunque un essere non specializzato che vive grazie alla sua continua appropriazione del mondo.

Centrale, all’interno del discorso di Gehlen, è la considerazione della tecnica. In particolare nell’opera L’uomo nell’era della tecnica (1957), lo studioso tedesco mette in luce le conseguenze, spesso indesiderate, dell’affermazione del paradigma tecnico corrispondente alla forma di produzione industriale e capitalistica. Molte delle sue riflessioni riguardano il mondo del lavoro e la diffusione di una forma mentis che, per paradosso rispetto all’originaria non-specializzazione su cui è basato l’intero approccio di Gehlen, rende l’uomo un esperto che si allontana sempre più dalla vita quotidiana in cerca del “rendimento totale” propagandato dalle più avanzate evoluzioni tecnico-industriali.

Dalle parole di Gehlen emerge una lettura delle difficoltà di comprensione del proprio ruolo vissute dall’uomo aziendale, con pesanti conseguenze per il senso di appropriazione e responsabilità del proprio fare:

«Se uno ha l’impressione di essere soltanto una rotella facilmente sostituibile e un po’ consumata del gran meccanismo; se è convinto, e del resto con ragione, che questo funzionerebbe anche senza di lui, e se non vede mai le conseguenze del suo agire, ovvero non le vede che cifrate in linguaggio numerico e geometrico o addirittura unicamente sotto forma del conteggio della sua paga, il suo senso di responsabilità dovrà diminuire nella stessa proporzione con cui aumenta la sua sensazione di abbandono».

[ illustrazione: Giacomo Balla, particolare da Numeri innamorati, 1920 ]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, FRUGALITÀ, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, LAVORO, TECNOLOGIA

Dopo i maker, ecco i fixer, nuova frontiera del DIY

Sai come funziona il tuo computer? Sapresti cambiarne l’hard-disk o la scheda madre? E reinstallare il sistema operativo? Domande come queste, per lo meno le prime due, generano inquietudine nell’utente medio di computer, cioè nel 99% delle persone. In aiuto a chi decide di fare da sé, non mancano suggerimenti on-line raccolti da siti come lifehacker o affini. Insomma, a patto di essere disposti a rimboccarsi le maniche, on-line c’è una soluzione per quasi ogni problema legato ai nostri apparecchi elettronici.

Oggi c’è chi, sostenuto non a caso dalla rivista «Wired» (già apripista per il movimento dei maker), reclama la necessità di mettere a punto una filosofia dell’arte di “accomodare” i propri gadget tecnologici. Ecco dunque una nuova etichetta, “fixer”, e un nuovo manifesto, prodotto dal sito web di suggerimenti per la riparazione iFixit. Intervistato da «Pagina99», Miroslav Djuric di iFixit racconta lo spirito dei fixer con queste parole:

«Essere in grado di aggiustare il tuo pc o la tua auto significa sapere di più non solo su quello che fanno, ma su come lo fanno. E instilla in te un nuovo senso di proprietà, che non nasce con il mero atto dell’acquisto».

Fenomeno tutto americano, i fixer sono parenti stretti dei maker, discendenti dell’ampio filone del DIY e, andando più indietro del tempo, dell’Arts and crafts movement di origine anglosassone. Non si limitano a fornire guide on-line per le riparazioni e ad aprire “repair café” sul territorio. Sono anche innovatori dotati di uno spirito decisamente jugaad, capaci di lanciare nel mercato prodotti come la felpa garantita per almeno dieci anni o il mastice attacca-tutto. Al riparare si affianca il ritorno a produrre cose fatte per durare, innestando una controtendenza che punta al consumo sostenibile e al risparmio.

[ illustrazione: particolare di una tavola da La nascita di un sogno, storia a fumetti dedicata al brand Ferragamo dall’illustratore Frank Espinosa ]

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