APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, FRUGALITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Un diverso punto di vista sulla frugalità

Paolo Legrenzi, Docente di Psicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, esplora nel suo Frugalità (2014) un concetto che in tempi di crisi gode di particolare popolarità. Ma cosa significa essere frugali? Assumendo il punto di vista dello psicologo, la frugalità è un atteggiamento generale di fronte alla vita, una scelta di stile e buon gusto che poco o nulla ha che fare – come ha sostenuto Bruno Munari in Da cosa nasce cosa (1981) – con il lusso. La frugalità, nota Legrenzi, non è uno strumento orientato a uno scopo; deve essere coltivata come un fine in se stessa. Non si tratta, come nel caso della povertà, di una costrizione, ma del risultato di una libera scelta. Essere frugali significa rifiutare l’abbondanza e il superfluo, concentrandosi sull’essenziale.

Un simile approccio alla frugalità si distanzia fortemente da quello assunto dalla maggior parte dei libri di business orientati a questo tema. Come citato in apertura, se oggi si parla tanto di frugalità è principalmente a causa del generale contesto di crisi e della diffusa percezione di scarsità. Soprattutto per quanto riguarda le aziende, vissute per lungo tempo in un ambiente di abbondanza di risorse, ricorrere alla frugalità è oggi più un obbligo che una scelta. Proprio come lo è l’imparare a improvvisare per chi si è cullato per anni nella credenza che i piani possano essere immutabili e impermeabili ai cambiamenti di contesto.

La maggiore utilità del libro di Legrenzi è dunque questa: offrire un convinto paradigma di vita orientato alla frugalità a chi inizia solo ora a confrontarsi con questa parola. Benché l’autore sembri guardare i nuovi adepti dall’alto al basso (la frugalità è un sapere tacito che si impara da piccoli in famiglia, non una nozione che si apprende a scuola – sostiene Legrenzi), nelle ultime pagine di Frugalità (2014) stila un decalogo il cui senso può essere sintetizzato in una parola: autocontrollo.

[ illustrazione: Giuseppe Vermiglio, S. Paolo Eremita, circa 1649 ]

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ARTE, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ, STORIA

White collar, la graphic novel italiana del 1938 che racconta la grande depressione

Genovese, emigrato negli Stati Uniti a soli diciotto anni, Giacomo Patri (1898–1978) può essere considerato fra i precursori dell’attuale graphic novel. Più correttamente, l’arte di Patri – attivo come illustratore e docente a Los Angeles – rientra nella categoria delle “wordless novel”, racconti in forma di sole immagini realizzati con tecniche di incisione e stampa a rilievo. Storicamente, il primo esempio di questo genere narrativo – fortemente debitore nei confronti dell’arte espressionista – è la novella del 1918 25 images de la passion d’un homme, realizzata dal belga Frans Masereel (1889-1972) a partire da incisioni su legno e incentrata sulle peripezie della classe operaia nella società industriale.

A simili tematiche si lega il capolavoro di Giacomo Patri, l’opera in linografia (incisioni su linoleum) White Collar (1938), frutto di tre anni di lavoro e di una paziente opera di stampa e rilegatura operata dall’autore stesso con la moglie. Con toni parzialmente autobiografici, la novella di Patri racconta le gesta di un illustratore pubblicitario che vive il suo sogno di ascesa sociale, senza troppo curarsi dei movimenti di protesta dell’attivismo operaio. Ma la cattiva sorte è in agguato, sotto forma della crisi finanziaria del 1929, che causa al protagonista la perdita del lavoro e l’accumulazione di una serie di debiti. La spirale di sfortune nella quale il protagonista e la sua famiglia precipitano sembra non avere fine, con la difficoltà nel sostentare l’ultimo nato, un lavoro indipendente fallito, un impiego da travet conclusosi con un licenziamento, la conseguente perdita della casa. Ormai in mezzo alla strada, il protagonista si libera finalmente dal suo “colletto bianco”, simbolo delle false speranze di scalata sociale e della stessa crisi del ’29, e si unisce al movimento operaio.

La splendida opera di Patri, che fu utilizzata dal movimento operaio americano per mettere il luce il comune pericolo corso in tempi di crisi sia dai colletti bianchi che da quelli blu, è oggi facilmente reperibile nel volume Graphic Witness (2007), che raccoglie quattro fra le migliori wordless novel delle origini (compresa 25 images de la passion d’un homme di Masereel).

[ illustrazione: tavola da White Collar di Giacomo Patri, 1938 ]

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APPRENDIMENTO, COMUNICAZIONE, CONOSCENZA, ECONOMIA, FILOSOFIA

Fritz Machlup, pioniere dello studio economico sulla conoscenza

Il nome di Fritz Machlup (1902-1983), economista di origine austriaca e in seguito cittadino americano, è legato alla nascita degli studi economici sulla conoscenza. Per curiosa coincidenza, Machlup sviluppò le proprie riflessioni su questi temi quasi contemporaneamente a quelle formulate da un altro austriaco naturalizzato statunitense, Peter Drucker (1909-2005), universalmente noto come il “guru” della knowledge economy.

Machlup pubblicò nel 1962 l’opera dal titolo The Production and Distribution of Knowledge in the United States, in cui mise in atto un progetto rivoluzionario: la quantificazione – e monetizzazione – dell’economia della conoscenza statunitense. Per la cronaca, Machlup la stimò (in base a rilevazioni del 1858) in 136.4 milioni di dollari, pari al 29% del prodotto interno lordo nazionale. Al di là di questo dato numerico, risulta soprattutto interessante, per il uso grado di innovazione e influenza sugli studi seguenti, il lavoro definitorio svolto da Machlup sul concetto di conoscenza.

Anzitutto, Machlup si premurò di superare un concetto meramente scientifico o astratto di conoscenza. Con riferimento agli studi filosofici di Gilbert Ryle e Michael Polanyi, assunse una concezione di conoscenza pratica e legata al fare. In relazione invece all’economista e filosofo austriaco Friedrich von Hayek (1899-1992) – e in particolare al suo saggio The Use of Knowledge in Society (1945) – fece propria una concezione soggettiva della conoscenza, interpretata in senso critico come opposizione alle informazioni supposte “perfette” dal pensiero economico. Come risultato di questa summa di ispirazioni, Machlup mise a punto la propria nomenclatura di cinque tipi di conoscenza: pratica (o professionale); intellettuale; del passatempo (cioè legata al divertimento e alla curiosità); spirituale; involontaria (acquisita incidentalmente).

Machlup non mancò di riflettere sui meccanismi di produzione e distribuzione delle conoscenze, identificando ben sei tipi di produttori: il trasportatore (distribuisce esattamente quel che ha ricevuto); il trasformatore (cambia la forma del messaggio, ma non il suo contenuto); l’elaboratore (interviene sia su forma che contenuto con procedure di routine e combinatorie); l’interprete (cambia forma e contenuto usando l’immaginazione e la traduzione); l’analista (utilizza il proprio giudizio critico al punto da mutare radicalmente il messaggio originario); il creatore (aggiunge così tanto grazie alla propria invenzione da allontanarsi in massima misura da quanto ricevuto).

Grazie al pensiero e alle definizioni che contiene, The Production and Distribution of Knowledge in the United States rappresenta un testo cruciale per lo studio sulla produzione e disseminazione delle conoscenze in ogni ambito sociale.

[ illustrazione: il platonico “mito della caverna”, allegoria della conoscenza, in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam ]

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BIGDATA, CONCETTI, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Benvenuti nell’era del taylorismo 2.0

Fra le varie ipotesi di reviviscenza del taylorismo emerse dal dibattito manageriale degli ultimi anni, ve ne è una dotata di particolare concretezza. Se è vero che alla base dello scientific management è, da sempre, il progressivo perfezionamento nella gestione di dati, il fenomeno tecno/sociale noto come “big data” sembra offrire la possibilità di una nuova, aggiornata incarnazione dello spirito tayloristico.

La reincarnazione è resa possibile dalla quasi perfetta comunanza di intenti tra un elemento tecnologico – l’enorme, pervasivo potere delle attuali infrastrutture tecnologiche – e un tratto culturale, cioè l’ideologia cyber-ottimista diffusa nel mondo dal modello delle startup americane. È la congiunzione fra questi due fattori – nota un recente articolo della rivista «Pop Matters» – a dar vita al taylorismo 2.0.

La rinascita di un’attitudine al continuo perfezionamento individuale, ben rappresentata sul web da «Life Hacker», dalla rubrica Work Smart di «Fast Company» e da molti articoli di Linkedin Pulse – testimonia della completa internalizzazione dei principi di controllo del taylorismo fatta propria da orde di “knowledge worker”. In altri termini, mettersi al servizio dell’efficientismo della macchina taylorista non è mai stato così cool.

Se questa indole rappresenta bene il colletto bianco medio, dalle organizzazioni d’impresa e dai dipartimenti HR sembra provenire una consonante risposta, riassunta dalle sperimentazioni in termini di raccolta e valutazione dati identificate dalla sigla “people analytics”. Misurare è tornato dunque decisamente di moda, con buona pace di vent’anni di letteratura manageriale spesi ad affiancare l’aggettivo “emotivo” al mondo del business.

[ illustrazione: fotogramma dal film Modern Times di Charles Chaplin, 1936 ]

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CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INNOVAZIONE, SEGNI, TECNOLOGIA

I primi 40 anni del codice a barre

Simbolo del dominio del mercato sulla vita, il codice a barre è con noi da 40 anni. Emanazione del pragmatismo americano, il barcode non è privo di implicazioni sinistre, soprattutto quando prende la forma critica di tatuaggi che sembrano evocare, oltre che segnali di omologazione culturale, ben più sinistri eventi della storia novecentesca.

Il primo articolo acquistato grazie alla mediazione di un codice a barre fu, il 26 giugno 1974 alle ore 08.01 in un supermercato dell’Ohio, un pacchetto di gomme da masticare “Wrigley’s Juicy Fruit”. Il codice utilizzato, noto come Universal Product Code (UPC) era del tutto simile a quelli che oggi vengono scansiti, stando alle statistiche, circa due miliardi di volte al giorno in tutto il mondo.

La storia del codice a barre inizia tuttavia ben prima, portando con sé un particolare stilistico curioso. Il pioniere di questo sistema di codifica fu Norman Joseph Woodland (1921-2012), ingegnere che mise a punto una prima versione del sistema pensando al funzionamento del codice Morse. Il brevetto originario di barcode – registrato nel 1949 – aveva l’aspetto di un bersaglio, nel quale la codifica di un dato era ottenuta attraverso la combinazione di cerchi concentrici. Questa versione non si rivelò del tutto efficace e non venne mai utilizzata fuori da un laboratorio. Woodland, nel frattempo passato in forze all’IBM, lasciò il progetto in eredità ai suoi colleghi. Fra questi, fu George Laurer a mettere a punto il barcode di forma rettangolare utilizzato per la prima volta nel 1974 e che tutti conosciamo.

[ illustrazione: studio per il primo codice a barre messo a punto da Joseph Woodland nel 1948 ]

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CONCETTI, ECONOMIA, INNOVAZIONE, MANAGEMENT, PAROLE, TEORIE

L’innovatore, un dilemma quasi maggiorenne

«Il diciottesimo secolo ha abbracciato l’idea di progresso; il diciannovesimo quella di evoluzione; il ventesimo quelle di crescita e innovazione. La nostra era ha prodotto la “disruption”, atavica a dispetto del suo mostrarsi futuristica. È una teoria della storia fondata su una profonda ansietà per un collasso finanziario, su una paura apocalittica di una devastazione globale».

Il quadro costruito da Jill Lepore, contributrice del «New Yorker», non può dirsi rassicurante. A diciassette anni dalla pubblicazione di Il dilemma dell’innovatore di Clayton M. Christensen, l’innovazione “disruptive” (improprio tradurla con “dirompente”) è una delle religioni più diffuse nel mondo del business. Professata – più di rado praticata – da orde di fedeli, è riconducibile al filone ideologico dell’innovazione come fine e non come mezzo.

Fra gli adepti, pochi realizzano che l’origine della disruption è di natura negativa. Il dilemma dell’innovatore è quello del fare la cosa giusta al momento sbagliato: la storia è troppo veloce, il cambiamento incalza, i più restano indietro. Chi sopravvive, guida il cambiamento. Le sue innovazioni, se guardate retrospettivamente (come del resto ogni successo, participio passato del verbo succedere), passano alla storia come radicali, dirompenti. Questo, per sommi capi, il pensiero di Christensen.

Il concetto di “disruption” altro non è che una rimasticatura in salsa americana della “distruzione creatrice” teorizzata fin dal 1942 da Joseph Schumpeter. Quanto Christensen vi aggiunge – suffragato da casi studio di cui l’articolo di Jill Lepore mette in luce una certa pretestuosità – è un’indole di spietatezza che antepone il successo a qualsiasi regola, responsabilità e sostenibilità di lungo periodo. Non è casuale l’esempio citato da Lepore in proposito: quando l’industria finanziaria si è messa a innovare in maniera disruptive, ha generato una crisi globale. E tuttavia, proprio come lo scoppio della bolla delle dot.com, la crisi non ha sedato le attitudini disruptive ma le ha rinfocolate. Mostrando tutta la ricorsività di un’ideologia il cui principale alimento è la paura.

[ illustrazione: Free Universal Construction Kit ]

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BIGDATA, CAMBIAMENTO, CULTURA, ECONOMIA, INTERNET, LAVORO, TECNOLOGIA

L’utopia del “lavoro digitale”

In Who Owns the Future? (2013) Jaron Lanier affronta il tema dell’impatto della tecnologia sulle classi medie da un punto di vista non scontato. Per l’autore americano la questione non è chiedersi se l’automazione stia rubando o meno posti di lavoro, ma piuttosto rendersi conto che la diffusa pretesa di accedere gratuitamente (in maniera più o meno legale) a servizi e contenuti si sta trasformando in un circolo vizioso che danneggia un numero crescente attività lavorative. In altri termini: siccome pretendiamo di avere tutto gratis, accettiamo di buon grado di mettere a disposizione altrettanto gratuitamente quanto disseminiamo nella rete, senza realizzare che questo significa privare di valore il nostro contributo intellettuale. Questa è per sommi capi la tesi di Lanier, il quale paventa una disgregazione sociale di ampie proporzioni: anche ammesso che si possa sopravvivere continuando a deprezzare il lavoro della classe media “creativa” (giornalisti, musicisti, fotografi), sarà difficile farlo se un simile deprezzamento colpirà anche attività considerate primarie dal punto di vista industriale e sociale.

L’utopico antidoto proposto da Lanier è quello di un sistema di micro-pagamenti esteso a ogni nostra attività on-line, dalla ricerca su Google alla recensione di un libro su Amazon. In questo modo, un inedito meccanismo economico a due vie premierebbe di continuo tanto produttori quanto consumatori, permettendo un più adeguato ammortizzamento delle dinamiche dell’economia “informale” diffusa da internet. Quel che la pur affascinante ipotesi di Lanier tralascia di chiedersi è quanti servizi attualmente gratuiti potranno davvero funzionare e sopravvivere all’interno di un simile sistema. E soprattutto: siamo davvero sicuri che la mera produzione e diffusione sul web di dati e informazioni – ché le conoscenze sono ben altro – meriti di essere retribuita? Dare una risposta affermativa significherebbe, oltre che assumere una posizione piuttosto semplicistica e demagogica, accettare implicitamente che la soluzione al deprezzamento del lavoro culturale possa coincidere con un suo livellamento verso il basso. Il che suona come l’argomentazione più preoccupante contenuta nell’intero discorso di Lanier.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Invisible Boy di Herman Hoffman (1957)]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, CULTURA, ECONOMIA, MOBILITÀ, TECNOLOGIA

Perché ai giovani non interessano più le automobili?

Il possesso di un’automobile ha rappresentato per più generazioni – su tutte quella dei baby boomers – una promessa di emancipazione e libertà. Per i giovani di tutto il mondo, lo status symbol dell’auto ha avuto per lungo tempo pochi rivali rispetto ad altri beni di consumo. Oggi le cose sembrano cambiare: il numero di auto intestate a giovani sotto i 35 anni è calato dal 2007 a oggi del 30%. Dato ancora più rilevante: meno della metà degli individui in età da patente si iscrive alla scuola guida entro i 18 anni, dimostrando di non avere troppa fretta di mettersi al volante. Come spiegare questo mutamento?

Un articolo della rivista «Fast Company» indaga le ragioni di un rivolgimento sociale che pare destinato a diventare sempre più significativo, aggravando la più generale stagnazione del mercato dell’automobile. Il primo fronte di analizzare è quello economico: che la diminuzione di giovani al volante sia da correlarsi ai tempi di crisi? Sembrerebbe non essere così: secondo le stime di «Fast Company», il possesso e l’utilizzo di uno smartphone (compresi i canoni mensili di traffico telefonico e dati) produce costi paragonabili a quelli di un leasing mensile per un’auto di livello medio-economico come una Honda Civic.

In tema di smartphone, è da anni ormai palese che il nuovo status symbol dei giovani di tutto il mondo è proprio il telefono cellulare, accompagnato da altri gadget tecnologici fra cui computer, tablet, videogiochi. La pista da seguire per comprendere il disinteresse verso l’auto sarebbe dunque questa: laddove lo smartphone viene visto come un possesso personale irrinunciabile e del tutto privato, i giovani si mostrano più che ben disposti a condividere un mezzo di trasporto con gli amici, il che congiura positivamente a favore di una mobilità più consapevole. D’altro canto, le logiche dello spostamento e dell’incontro sono in mutazione. L’incontro on-line è non solo un surrogato, ma sempre più spesso un sostituto di quello in presenza e la distanza dell’on-line è lo spazio in cui prendono forma l’identità individuale e le opportunità di confronto intersoggettivo. I bisogni di emancipazione e libertà della generazione Y sembrano dunque farsi molto più individualizzati e virtuali di quelli delle generazioni precedenti. Il che sembra sufficiente a spiegare perché le auto stanno cedendo il posto agli smartphone.

[ illustrazione: fotogramma dal film Dazed and Confused di Richard Linklater, 1993 ]

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CINEMA, ECONOMIA, MARKETING, STORIE, VIDEOGIOCHI

L’incredibile storia del “peggior videogame di sempre”

Giugno 1982: nelle sale cinematografiche americane esce E.T., film diretto e prodotto – con un budget di 10.5 milioni di dollari – da Steven Spielberg. La pellicola è destinata a incassare complessivamente più di 790 milioni di dollari e a detenere il record di film più profittevole di sempre fino al 1993 (anno in cui Jurassic Park, nuovamente diretto da Spielberg, farà proprio questo primato, per poi essere a sua volta superato nel 1997 da Titanic e nel 2009 da Avatar, entrambi con la regia di James Cameron). Atari, azienda americana leader nel settore dei videogiochi, comprende le grandi potenzialità del brand E.T. e decide di acquistarne, per 25 milioni di dollari, i diritti al fine di realizzare per la console Atari 2600 un videogame tratto dal film. La produzione del gioco parte subito, per far sì che esso arrivi sugli scaffali dei negozi in tempo per lo shopping natalizio.

Dicembre 1982: Atari rispetta le tempistiche preventivate. Il costo complessivo per la produzione del gioco ammonta a 125 milioni di dollari. Le cartucce del videogame distribuite nei negozi americani sono 5 milioni. Le aspettative sono altissime ma, contrariamente a ogni previsione, E.T. è un flop totale. Le cartucce vendute non superano il milione di unità e il videogioco viene aspramente criticato perché ingiocabile ed esteticamente orribile, tanto da candidarsi immediatamente a “peggior videogame di sempre”, titolo per il quale resta a oggi in lizza con poca competizione.

Settembre 1983: in piena crisi del settore del videogame, Atari si sbarazza delle cartucce di E.T. invendute sotterrandole. La località scelta è tutta un programma: Alamogordo nel New Mexico, dove nel 1945 venne condotto uno dei primi test nucleari degli Stati Uniti, che si trova a due ore di macchina dal famigerato sito “extraterrestre” di Roswell e, non da ultimo, è luogo di sepoltura – nello stesso 1983 – di Ham, primo scimpanzé spedito nello spazio dagli USA. Quale migliore città per mettere una pietra tombale sul videogioco di E.T.?

Aprile 2013: alcuni “nerd” rimettono le mani sul codice del videogioco di E.T. e risolvono diversi dei “bug” legati al suo malfunzionamento. Così “aggiustato”, il gioco viene rivalutato per il suo gameplay rivoluzionario e avanti coi tempi rispetto al suo originario anno di lancio. Chiunque desideri confrontarsi con questa tesi può provare la versione “corretta” del gioco scaricandola gratuitamente e facendola girare su uno dei vari emulatori dell’Atari 2600.

Marzo 2014: Fuel Industries, azienda di marketing on-line, si è aggiudicata la possibilità di avviare degli scavi presso il sito di Alamogordo per andare in cerca delle famigerate cartucce di E.T. L’intento è quello di realizzare un documentario – il cui lancio è già previsto sulle piattaforme XBox di Microsoft – che racconti la storia del gioco di E.T. e legga sotto nuova luce la crisi del videogame del 1983. Secondo gli autori del progetto, il documentario avrà anche il fine di raccontare la nascita di una comunità legata ai videogame e la sua forza nell’opporsi alla hybris di un mercato che aveva raggiunto la sua saturazione e proponeva prodotti di bassa qualità. L’inizio degli scavi è previsto per aprile 2014, quindi la storia è destinata ad avere presto un seguito.

[ illustrazione: screenshot dal videogame E.T., 1982 ]

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CAMBIAMENTO, CITTÀ, CULTURA, ECONOMIA, LAVORO, LETTERATURA, LIBRI, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TEMPO

Da Kansas City a Milano: Bianciardi, Parise e il cambiamento culturale

«Non siamo in America, dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato, e dove il paesaggio e la realtà giornaliera coincidono perfettamente con la cultura americana».

«Essendo il nostro paese molto vecchio permangono in molti suoi abitanti e nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso che rende uguale ogni apparenza, alcuni frammenti di “cultura umanistica”: cioè autoctona, locale […]. Essi sono scomparsi completamente nella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande, specialmente al Nord […], malata di una malattia americana: il pragmatismo».

Così scriveva Goffredo Parise (1929-1986) tra il luglio e l’agosto del 1974, in due articoli pubblicati su una rubrica di corrispondenza con i lettori da lui curata per il «Corriere della Sera» in quegli anni (di cui oggi viene presentata una piccola selezione in Dobbiamo disobbedire, 2013). Qui il tema è quello delle origini culturali e della loro cancellazione da parte del pensiero funzionalista diffuso dalla cultura lavorativa di stampo americano. Dalle parole di Parise emerge il riconoscimento di una cultura “umanistica”, retaggio di un passato agricolo, popolare paesano e cattolico, e insieme la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla sua scomparsa, causata da quella che, in altri articoli tratti dalla sua rubrica, egli chiama con ineluttabile semplicità la “forza delle cose”.

Il frammento tratto da Parise ne evoca un altro di Luciano Bianciardi (1922-1971), estratto da Il lavoro culturale (1957-1964):

«Kansas City, Kansas City è la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovi».

Kansas City è per Bianciardi la sua Grosseto, percepita dai più giovani – di cui lo scrittore si sente parte – come senza origini, nonostante ci fossero ancora molti accapigliati a cercarle, per esempio indagando la storia degli Etruschi. Per Bianciardi il dialogo è fra Grosseto/Kansas City e Milano, città che rappresenta “il lavoro culturale” e in cui si trova incarnata, tanto nella sostanza quanto nella forma del “linguaggio aziendale”, l’ideologia pragmatista di stampo americano di cui parlerà poi anche Parise. Non a caso, Bianciardi si trasferirà proprio a Milano in cerca di lavoro e riconsidererà con amarezza la sua Kansas City.

Questi due frammenti, scritti in anni diversi da autori coevi, fotografano lo sforzo dell’intellettuale nel dar conto di un momento che, per il nostro Paese, è stato di effettiva svolta e di forzato scontro culturale. Le parole di Bianciardi e Parise testimoniano un cambiamento il cui destino è forse solo oggi possibile vedere nel pieno sviluppo delle sue conseguenze.

[ illustrazione: articolo di «Epoca» del 29 aprile 1962 ]

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