CREATIVITÀ, FILOSOFIA, INTERNET, LAVORO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Calibano e la tecnica: una critica di Lewis Mumford al paradigma scientifico

«Per spiegare la natura dell’uomo nella sua totalità, dobbiamo includere nella sua storia un elemento temporale che, dopo Aristotele, non ha avuto alcuna parte nei calcoli scientifici: la sfera del potenziale e del possibile, la sfera della reale creatività».

Da queste parole di Lewis Mumford (1895-1990), tratte da una lezione tenuta a New York nel 1954 e raccolte in forma scritta in Per una civiltà umana (2002), emerge una profonda critica nei confronti del paradigma scientifico che ha determinato il destino della nostra civiltà. Per sostenere le sue tesi, Mumford ricorre a un prestito metaforico da La Tempesta di William Shakespeare: i personaggi di Prospero e Calibano sono assimilati al pensiero di Sigmund Freud e alle diverse facoltà dell’uomo. Se Prospero rappresenta il superego, incarnazione delle facoltà superiori, l’animalesco Calibano è simulacro dell’id, cioè dell’io primitivo e inconscio. Mumford legge nella crisi del presente – il suo, del 1954, ma facilmente anche il nostro – il dominio di Calibano su Prospero, ovvero la perdita per l’uomo di una autodeterminazione spirituale causata del prevalere di istinti orientati al qui e ora e al mero possesso della materia.

Nella trattazione di Mumford, centrale per il prevalere di Calibano è la sua alleanza con la tecnica e l’approccio scientifico. Quando l’azione dell’uomo sulla natura – che è costitutiva della sua autopoiesi – assume un approccio “scientifico” che punta all’oggettivazione, alla misurazione e alla razionalizzazione di ogni pratica, genera un uomo-automa che procede nel perfezionamento della sua ricerca svincolandosi da scopi e dunque deresponsabilizzandosi rispetto all’umanità. Sono figli di questo atteggiamento, nota Mumford avvicinandosi qui fortemente al pensiero di Gunther Anders (ma anche di Arnold Gehlen), le barbarie della guerra e in particolare la progettazione di armi di distruzione di massa. Benché Mumford non le citi, riconducibili a questo approccio paiono anche barbarie meno disastrose ma sottilmente pervasive, quelle generate dall’approccio scientifico al lavoro. Il lavoratore-macchina può ben dirsi figlio di Calibano e della de-umanizzazione del lavoro.

L’alleanza tra Calibano e la tecnica rappresenta la sconfitta della cultura e la realizzazione di quello che Mumford definisce  – citando Henry Miller – un “incubo ad aria condizionata”, cioè la riduzione della vita a meccanismo dentro meccanismi, senza nessuna spinta teleologica. L’antidoto all’apparentemente irreversibile marcia di Calibano è identificato da Mumford nell’impegno, a livello individuale e politico, a produrre qualcosa che trascenda l’orizzonte di una singola persona e guardi a un progetto dal lungo orizzonte futuro. Per cogliere tutta l’attualità delle parole di Mumford, pur a distanza di 60 anni da quando sono state pronunciate, è utile leggere questo suo proposito personale, che suona come una critica in nuce a quanto internet avrebbe realizzato molti anni dopo:

«La mia norma consiste nell’evitare, nei limiti del possibile, la partecipazione a tutte le organizzazioni in cui sia impossibile la conoscenza e la relazione personale, in cui il rapporto di io-tu sia stato distrutto e al suo posto sia stato introdotto un sistema di controllo remoto».

[ illustrazione: Caliban, Miranda, Prospero, C.W. Sharp, 1875 ]

CIBO, DECISIONE, FOTOGRAFIA, IRONIA, SOCIETÀ

Instagram, selfie, food (ovvero: quanto tempo passiamo al ristorante?)

Si è già parlato qui di rapporti tra cibo e fotografia, o – per dirla in termini coerenti con il fenomeno – di chi si fa selfie di food. Se è vero che ormai esistono esercizi di ristorazione che vietano di scattare fotografie a quanto viene servito in tavola, grazie al blog di Alex Soojungkim Pang (autore di The Distraction Addiction) scopro che un ristorante newyorkese è riuscito ad attuare – con modalità di per sé curiose, come si vedrà – un piccolo studio statistico sul deterioramento della relazione esercente-cliente causato dal diffondersi della moda della “fotografia gastronomica”.

Il suddetto ristorante, dotato come molti negozi di un servizio di sicurezza con telecamere a circuito chiuso, ha raffrontato un nastro risalente all’inizio della propria attività – aperta nel 2004 – con una registrazione attuale, al fine di analizzare il comportamento della propria clientela. Il motivo da cui è scaturita questa curiosa indagine? La constatazione di una crescita dei tempi di permanenza dei clienti presso il ristorante, pur a fronte di un aumento di personale e di uno snellimento del menu. Dal confronto tra i due campioni raccolti a distanza di dieci anni emergono evidenze per le quali non sono particolarmente necessari commenti. In gioco vi è non solo la relazione esercente-cliente; qui si tratta anche di dinamiche decisionali, del nostro rapporto con la tecnologia e, più in generale, il modo in cui impieghiamo il nostro tempo.

Nel 2004 i clienti del ristorante passavano in media 8 minuti a osservare il menu. Il cibo veniva loro servito dopo circa 6 minuti. Dopo il pasto, in genere i clienti pagavano e lasciavano il locale 5 minuti dopo aver ricevuto il conto. Il tempo medio passato al ristorante dall’inizio alla fine del pasto era di cerca 65 minuti.

Nel 2014 i clienti impiegano in media circa 21 minuti per ordinare. Menu alla mano, restano attaccati al loro telefono facendo fotografie o altro finché il cameriere (spesso invocato perché il wireless non funziona a dovere) non passa da loro una seconda volta. Finalmente, aprono il menu e ordinano. Una volta fatto, ricevono il loro pasto dopo circa 6 minuti. A quel punto, il 57% dei clienti scatta una fotografia del cibo. In caso di due o più persone, le fotografie aumentano, richiedendo circa 3 minuti per scatto (e gli eventuali selfie non abbisognano di meno tempo). Questo comporta, nel 20% dei casi, che il cibo si raffreddi e venga mandato in cucina per essere riscaldato. Durante il pasto, il 60% dei clienti chiede l’intervento del cameriere per una foto di gruppo (spesso ripetuta, fino a un risultato soddisfacente). A pasto finito, i clienti impiegano in media 20 minuti per chiedere il conto e infine altri 20 per pagare e andarsene. Tempo complessivo da inizio a fine pasto: in media, 115 minuti.

[ illustrazione: Daniel Spoerri, Tableau piège n° 57, 1972 ]

CONCETTI, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

L’identikit dell’innovatore frugale

Lo studioso inglese di social entrepreneurship (e già consulente del governo di Tony Blair) Charles Leadbeater costruisce nel suo testo The Frugal Innovator (2014) una personale lettura del fenomeno dell’innovazione frugale. In seguito a fasi economiche focalizzate sul bisogno (dal 1945), sul desiderio (dal 1960) e sulla frenesia dell’offerta (dal 1990) – e soprattutto nel necessario attraversamento delle conseguenze della crisi economica del 2008 – Leadbeater riconosce nella frugalità la via di uscita dal tunnel della grande recessione. L’approccio frugale all’innovazione risponde al nuovo atteggiamento della classe media occidentale e al crescente ruolo di protagonista delle popolazioni delle nazioni emergenti. Su questa linea di pensiero, i principali riferimenti di Leadbeater sono il testo The Fortune at the Bottom of the Pyramid (2005) dello studioso C. K. Prahalad (1941-2010) e Jugaad Innovation (2013) di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja, di recente traduzione in italiano.

Ma quali sono le caratteristiche dell’innovatore frugale? Secondo Leadbeater, quattro: un approccio lean, inteso sia nel classico, toyotistico senso di efficienza processuale che come ecologica dinamica di ri-ciclo e sfruttamento degli scarti; l’orientamento alla semplicità come risposta alle esigenze concrete di un mercato orientato alla soluzione di problemi per un numero il più possibile vasto di persone; la ricerca di coesione sociale, finalizzata a costruire comunità e a condividere conoscenze; lo scrupolo di agire in maniera pulita e sostenibile rispetto all’ambiente. Questi principi vengono distillati in The Frugal Innovator grazie all’analisi di diversi casi studio, che pur attingendo abbondantemente al patrimonio di innovazioni offerto dalla jugaad indiana non mancano di individuare casi di frugalità anche in territorio Europeo.

[ illustrazione: immagine tratta dal sito settimanadelbaratto.it ]

CONCETTI, CULTURA, INNOVAZIONE, PAROLE, SOCIETÀ

Le origini anti-industriali del biologico

L’aggettivo “biologico”, entrato da una ventina d’anni a questa parte nel linguaggio del marketing alimentare, indica – in realtà in maniera impropria, in quanto ogni processo agricolo è ovviamente biologico – una modalità di coltivazione che evita di impiegare energia proveniente da processi industriali, preferendo reimpiegare la materia sotto forma organica. Più corretto sarebbe dunque parlare di “organico”, così come fanno l’inglese e altre lingue.

Come nota Michael Pollan nel suo best-seller Il dilemma dell’onnivoro (2006), il primo utilizzo di “organico” risale a un contesto lontano da quello alimentare. Nel’Ottocento l’aggettivo era utilizzato dagli studiosi inglesi che criticavano la frammentazione sociale portata dalla rivoluzione industriale, raffrontandola a una precedente società “organica” (o più semplicemente naturale) nella quale vigevano forti legami affettivi e cooperativi.

L’utilizzo del termine in ambito alimentare risale agli anni ’40, con la fondazione della rivista americana «Organic Gardening and Farming». La testata rimase a lungo poco nota finché non le venne dedicato, nel 1969, un articolo dal «Whole Earth Catalog», la bibbia della controcultura ideata da Stewart Brand. La tiratura della rivista passò in soli due anni da quattrocentomila a settecentomila copie, ponendo le basi del futuro successo di un aggettivo che oggi campeggia, in maniera più o meno veritiera, su tutti i più appetibili prodotti di ogni supermercato del mondo.

[ illustrazione: particolare da una copertina di «Organic Gardening» del 2013 ]

GIOCO, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ, UFFICI

Office Boy: prima di Monopoly, il gioco come strumento per l’educazione al lavoro

Parker Brothers è un’azienda americana produttrice di giochi da tavolo e giocattoli. La sua storia inizia nel 1883 a Salem (Massachusetts), quando il sedicenne George Parker mette a punto la sua prima creazione: “Banking” è un gioco che simula una scalata al successo mediata da prestiti bancari e scommesse di investimento. Nata come George S. Parker Company per iniziativa del solo George, con l’ingresso in società dei suoi due fratelli nel 1888 l’azienda diventa Parker Brothers. Il più grande successo giunge nel 1935 con “Monopoly”, al quale seguiranno nel decennio successivo altri giochi destinati alla celebrità come “Cluedo” e “Risiko!” Dalla fine degli anni ’60, l’azienda inizia a produrre meno innovazioni – nonostante un interessante avventura nel mondo dei videogame che produrrà titoli come “Q-Bert” – e a staccarsi dalla gestione familiare. Come ultimo esisto di una serie di acquisizioni, il marchio è attualmente proprietà del gruppo Hasbro.

Uno dei più peculiari giochi prodotti da Parker Brothers nei suoi primi anni di attività è, nel 1889, “Office Boy”. L’ispirazione economica già alla base di “Banking” viene in questo caso letta alla luce del più importante fenomeno sociale del momento: l’ascesa del lavoro d’ufficio. Coerente con lo spirito del “sogno americano” alimentato dai romanzi di Horatio Alger (1832-1899), “Office Boy” mette i giocatori nei panni di un ragazzo di bottega pronto a iniziare la sua avventura nel mondo del lavoro. Attraverso un semplice “gioco dell’oca”, l’office boy inizia la sua carriera dalle posizioni aziendali più basse (per esempio portatore o magazziniere) e, diventando poi venditore e dirigente, può aspirare a giungere a capo dell’intera organizzazione. Il cammino è costellato da elementi che consentono l’avanzamento del giocatore o lo costringono all’arresto, brillantemente rappresentati da atteggiamenti lavorativi di segno opposto: disattento/attento, disonesto/onesto, incapace/ambizioso. Attraverso un apparentemente semplice gioco da tavolo, il ragazzo medio americano inizia a fare esperienza dei valori lavorativi che il mondo degli uffici sta iniziando a diffondere nella società. Di lì a poco l’office boy, accompagnato dal suo ideale di scalata sociale e anelito al successo, diventerà il simbolo di più generazioni di colletti bianchi.

[ illustrazione: tabellone di gioco di “Office Boy” di Parker Brothers, 1889 ]

APPRENDIMENTO, COMUNICAZIONE, CONOSCENZA, ECONOMIA, FILOSOFIA

Fritz Machlup, pioniere dello studio economico sulla conoscenza

Il nome di Fritz Machlup (1902-1983), economista di origine austriaca e in seguito cittadino americano, è legato alla nascita degli studi economici sulla conoscenza. Per curiosa coincidenza, Machlup sviluppò le proprie riflessioni su questi temi quasi contemporaneamente a quelle formulate da un altro austriaco naturalizzato statunitense, Peter Drucker (1909-2005), universalmente noto come il “guru” della knowledge economy.

Machlup pubblicò nel 1962 l’opera dal titolo The Production and Distribution of Knowledge in the United States, in cui mise in atto un progetto rivoluzionario: la quantificazione – e monetizzazione – dell’economia della conoscenza statunitense. Per la cronaca, Machlup la stimò (in base a rilevazioni del 1858) in 136.4 milioni di dollari, pari al 29% del prodotto interno lordo nazionale. Al di là di questo dato numerico, risulta soprattutto interessante, per il uso grado di innovazione e influenza sugli studi seguenti, il lavoro definitorio svolto da Machlup sul concetto di conoscenza.

Anzitutto, Machlup si premurò di superare un concetto meramente scientifico o astratto di conoscenza. Con riferimento agli studi filosofici di Gilbert Ryle e Michael Polanyi, assunse una concezione di conoscenza pratica e legata al fare. In relazione invece all’economista e filosofo austriaco Friedrich von Hayek (1899-1992) – e in particolare al suo saggio The Use of Knowledge in Society (1945) – fece propria una concezione soggettiva della conoscenza, interpretata in senso critico come opposizione alle informazioni supposte “perfette” dal pensiero economico. Come risultato di questa summa di ispirazioni, Machlup mise a punto la propria nomenclatura di cinque tipi di conoscenza: pratica (o professionale); intellettuale; del passatempo (cioè legata al divertimento e alla curiosità); spirituale; involontaria (acquisita incidentalmente).

Machlup non mancò di riflettere sui meccanismi di produzione e distribuzione delle conoscenze, identificando ben sei tipi di produttori: il trasportatore (distribuisce esattamente quel che ha ricevuto); il trasformatore (cambia la forma del messaggio, ma non il suo contenuto); l’elaboratore (interviene sia su forma che contenuto con procedure di routine e combinatorie); l’interprete (cambia forma e contenuto usando l’immaginazione e la traduzione); l’analista (utilizza il proprio giudizio critico al punto da mutare radicalmente il messaggio originario); il creatore (aggiunge così tanto grazie alla propria invenzione da allontanarsi in massima misura da quanto ricevuto).

Grazie al pensiero e alle definizioni che contiene, The Production and Distribution of Knowledge in the United States rappresenta un testo cruciale per lo studio sulla produzione e disseminazione delle conoscenze in ogni ambito sociale.

[ illustrazione: il platonico “mito della caverna”, allegoria della conoscenza, in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam ]

APPRENDIMENTO, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

Edward Filene, dallo shop management alla traduzione simultanea

Benché trovi un antecedente nel semplice atto del bisbigliare nelle orecchie, la traduzione simultanea come processo mediato dalla tecnologia ha un preciso anno di origine, il 1925. Nel contesto della Società delle Nazioni, nata nel 1919, le due lingue parlate nel quartier generale di Ginevra erano inglese e francese, motivo per cui un processo di traduzione era continuamente necessario. Per qualche anno si utilizzò l’inefficace pratica della traduzione consecutiva, finché Edward Filene (1860-1937) non propose di accorpare in un unico atto l’ascoltare, il tradurre e il parlare.

Edward Filene è uno dei personaggi più interessanti vissuti tra il secolo XVIII e il XIX. Nativo del Massachussetts, ereditò l’attività familiare di commercio di abbigliamento e sviluppò insieme al fratello la catena Filene’s. Ispirato dagli aspetti più illuminati dello scientific management tayloristico, mise a punto moltissime innovazioni nei processi di gestione di magazzino e di vendita. Fra queste, il meccanismo del cosiddetto “automatic bargain”, secondo il quale i prodotti venivano automaticamente scontati e spostati dal piano terra al piano sotterraneo del magazzino, per poi essere infine – se di nuovo invenduti – donati in beneficenza. Filene introdusse inoltre sistemi per il match dei colori dei tessuti e complete e trasparenti policy nei confronti dei clienti, compreso l’ormai classico “soddisfatti o rimborsati”. Fu estremamente corretto e solidale con la classe lavorativa, sostenendo lo sviluppo di cooperative di credito in tutto il Paese e agendo a livello più generale come filantropo, quasi rendendo fattivo l’involontario gioco di parole suggerito dalla radice “fil-” del suo cognome.

Per quanto riguarda la Società delle Nazioni – di cui Filene fu immediato sostenitore – e la traduzione simultanea, furono probabilmente gli stessi principi di scientific management praticati da Filene nella sua azienda a suggerirgli l’innovazione. L’inefficienza della traduzione consecutiva raddoppiava infatti i tempi di traduzione, cosa inammissibile per una comunicazione efficace. L’intuizione di Filene venne sviluppata sul piano tencnologico grazie a un coeso gioco di squadra che coinvolse l’ingegnere meccanico inglese A. Gordon-Finlay e il fondatore dell’IBM Thomas Watson Sr. In seguito alla loro introduzione, le cabine di traduzione simultanea vennero utilizzate sporadicamente durante gli anni ’30 a Ginevra e in Unione Sovietica, per poi riemergere durante il processo di Norimberga.

[ illustrazione: cabina di traduzione simultanea presso il quartier generale dell’aviazione internazionale Montréal, 1949 ]

STORIE

A proposito di Ian Fieggen, “professor lacci da scarpe”

«Mamma diceva sempre che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose: dove va, cosa fa, dove è stata».
Dal film Forrest Gump, 1994.

Se la massima della madre di Forrest Gump può essere mai stata presa davvero sul serio da qualcuno, in cima alla lista dei sospettati compare il nome dell’australiano Ian Fieggen, ex programmatore e per gli amici “professor lacci da scarpe”.

Allacciarsi le scarpe è un gesto tanto quotidiano quanto automatico, di norma oggetto di ben poca riflessione. Tuttavia, se è vero che “il diavolo è nei dettagli”, delle stringhe ben allacciate possono fare la differenza. O almeno questo è quanto deve aver pensato Fieggen: secondo la leggenda – ovviamente alimentata da lui stesso – è stato un laccio spezzato nel 1982 ad aver dato vita alla sua missione, cioè quella di mettersi in cerca del nodo per scarpe perfetto. Nel corso degli anni Ian ha individuato ben 41 modi per stringare le scarpe e 18 per fare il nodo, tutti accuratamente descritti nel suo sito web , lanciato nel 2000 e a oggi visitato da circa 9000 persone al giorno.

A ben vedere, a Ian – che è anche autore di un libro (ovviamente intitolato Laces) e di una app per iPhone – non pare interessare tanto il lato estetico dell’allacciarsi le stringhe, quanto quello funzionale. «I’m passionate about efficiency», dichiara nel suo sito, e riprova di questo spirito, da vero taylorista delle calzature, ha frazionato il processo dell’allacciarsi le scarpe in sei diversi step. Non contento di questo traguardo, Ian ha trovato il modo di rendere questi step tre volte più veloci, mettendo a punto un nodo rivoluzionario indicato come “Ian’s knot”, niente meno che il modo per allacciarsi le stringhe più veloce ed efficiente del mondo. A fronte di questo successo, Ian ha solo un cruccio: quello di non essere stato ammesso al Guinness dei primati. Pare infatti che la sua disciplina sia stata valutata un po’ troppo specialistica.

[ illustrazione: fotogramma dal film di Robert Zemeckis Forrest Gump, 1994 ]

COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, INTERNET, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

JAVA: storia di un’innovazione intraprenditoriale

Non c’è bisogno di essere esperti di informatica per aver visto comparire il nome e il logo “Java” sul monitor di un computer. Per la maggior parte di noi (cioè per i non addetti ai lavori), Java è un linguaggio informatico che permette l’esecuzione di applicazioni web: dagli editor di testo ai filmati, dalle chat ai videogiochi. La sua diffusione va in realtà ben oltre l’ambito web, occupando un ruolo importante nei data center e nelle tecnologie per telefoni cellulari. Se sapete cos’è Java, è tuttavia probabile che possiate non conoscerne la storia.

Nel 1990 il web come lo conosciamo oggi è un fenomeno non ancora pronto a esplodere a livello di massa. Il PC, inteso come personal computer “desktop”, è il prodotto di punta dell’industria informatica, sia in ufficio che nel mercato casalingo. In questo contesto si muove Sun Microsystems, un’azienda della Silicon Valley californiana fondata nel 1982 in relazione all’università di Stanford di Palo Alto. All’inizio del nuovo decennio Sun sta attraversando un periodo di crisi, dovuta alla sua concentrazione sul solo mercato delle workstation professionali e dei server. I suoi prodotti hanno la fama di essere troppo complicati per un mercato di massa; i suoi software non sono all’altezza di quanto Microsoft sta sviluppando.

Patrick Naughton è un programmatore venticinquenne che lavora in Sun da tre anni. Durante una serata conviviale con lo staff dell’azienda, Naughton si avvicina al suo boss – e AD di Sun – Scott McNealy e, fra una birra e l’altra, gli rivela la sua condizione di delusione e frustrazione rispetto al proprio lavoro. Naughton si dice stufo di lavorare a prodotti che sembrano vecchi rispetto alle innovazioni del mercato. Sente che il proprio lavoro non è valorizzato adeguatamente e, afferma, sta valutando di andare a lavorare per NeXT Computer Inc. McNealy prende la palla al balzo e risponde grosso modo così a Naughton: «Prima che tu te ne vada, metti per iscritto quel che pensi Sun oggi stia sbagliando. Non limitarti a indicarmi il problema, dammi una soluzione. Dimmi cosa faresti se qui comandassi tu».

La mattina dopo, Naughton invia a McNealy un report di 20 pagine, che viene subito girato all’intera prima linea manageriale. Il giorno seguente, la casella e-mail di Naughton è piena di messaggi di questo tenore: «È quello che pensavamo anche noi da tempo, ma nessuno aveva avuto il coraggio di ammettere i propri errori». Naughton viene immediatamente inserito in un gruppo di lavoro ad hoc insieme a diversi ingegneri di alto livello. Nel corso di un brainstorming notturno, il neonato gruppo delinea le linee guida per lo sviluppo di un nuovo prodotto. Competere con Microsoft è fuori discussione, si decide così di mettersi al lavoro per costruire un software che possa sostanzialmente “funzionare ovunque”, anche in contesti che ancora non vengono associati all’idea di computer.

Nel 1991 il team di sviluppo è attivo in maniera totalmente indipendente dalle attività considerate core business da Sun. Già in agosto, è pronta una bozza di software che prende il nome di Oak, in inglese quercia, cioè l’albero che si vede fuori dalla finestra della stanza in cui il gruppo di programmatori lavora. Nel 1995 si giunge a una versione stabile del software, sviluppata per diventare una “killer app” come compagna per i nascenti web browser (non a caso, uno dei primi accordi commerciali sarà con l’allora dominante Netscape). Poiché nel team di lavoro si consumavano grandi quantità di caffè Java, si decide di rinominare il software in un modo più funzionale anche rispetto alle esigenze di marketing. Nasce così Hot Java. Il resto è storia, una storia che comprende la diffusione di questo linguaggio software praticamente ovunque. La vicenda di Sun come entità indipendente ha una conclusione nel 2010, quando l’azienda viene acquisita da Oracle, che oggi detiene il marchio Java. Ma questa è un’altra storia.

[ illustrazione: testata del «San Jose Mercury News» del 23 marzo 1995 ]

JAZZ, LETTERATURA, METAFORE, MUSICA, SCRITTURA

Ritratti in jazz: il Murakami che non ti aspetti

Chi conosce Murakami Haruki sa che nei suoi libri sono disseminate tracce di una riconoscibile passione musicale. In particolare, l’amore per il jazz – in maniera simile a quello per il podismo raccontato in L’arte di correre (2007) – ha accompagnato momenti importanti della vita dello scrittore giapponese (che ha anche gestito un jazz club per diversi anni), e questo si coglie leggendo i suoi romanzi, a partire dal “beatlesiano” Norwegian wood (1987).

Recentemente pubblicato in Italia da Einaudi, Ritratti in jazz (2013) costituisce un’ottima introduzione al Murakami jazzofilo. A partire da due serie di illustrazioni di  Makoto Wada, composte da ritratti di musicisti jazz di varie epoche e stili, Murakami si diverte a mettere sul piatto del giradischi un album per ciascuno dei jazzisti ritratti da Makoto, lasciando che sia la musica a guidare il moto della penna sulla carta (o, se si preferisce, il battito delle dita sulla tastiera). Il risultato è un piccolo “manuale del jazz” sui generis, buono tanto per neofiti quanto per ascoltatori esperti, nel quale la dimensione affettiva prevale su qualsiasi pretesa filologica.

Si può ben dire che Murakami, scrivendo di jazz, improvvisi. Le sue note mostrano una passione di lunga data, sorretta da una profonda conoscenza di questo genere musicale. La padronanza dell’argomento gli permette di divagare senza troppe remore, per esempio iniziando a scrivere di un musicista e finendo per tessere le lodi di un altro. Il giornalismo musicale è un mestiere arduo – come non citare, anche in questa occasione, la massima “scrivere di musica è come ballare di architettura? – e Murakami mostra di non avere particolare cura di adeguarsi ai suoi canoni.

Poiché l’approccio è smaccatamente autobiografico, la scrittura può prendersi libertà che a un giornalista non sarebbero concesse. Diventa dunque ancor più piacevole confrontarsi con il ricco lavoro sul tessuto narrativo – e in particolare sull’aggettivazione e le metafore – svolto da Murakami. Nelle sue brevi schede il contrabbasso di Scott LaFaro è “fresco come la primavera e profondo come un bosco”, il suono del pianista Thelonious Monk “sembra scalfire un duro pezzo di ghiaccio”, la voce del sax tenore di Johnny Griffin suona “dura come un nigiri ben compresso”. Ogni pagina di Ritratti in jazz è fresca, coinvolgente e capace di far crescere in chiunque l’amore per quella magnifica musica che risponde al nome di jazz.

[ illustrazione: Thelonious Monk in un disegno di Wada Makoto ]