CAMBIAMENTO, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ

Disoccupazione e ruolo sociale delle aziende, dal 1959 a oggi

Quel che più colpisce leggendo oggi Donnarumma all’assalto, romanzo scritto da Ottiero Ottieri nel 1959, sono i grandi cambiamenti subiti nel corso del tempo dal fenomeno della disoccupazione, osservato nei suoi elementi scatenanti e nelle conseguenze sociali.

È a valle dell’esperienza di selezionatore del personale presso lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli che Ottieri scrisse questo libro, che risulta colmo della sofferenza dell’autore nell’interpretazione uno scomodo ruolo di cerniera fra impresa e cittadini. Nel romanzo i disoccupati – di cui il rancoroso e violento Donnarumma diventa principale simbolo – recriminano un lavoro che difficilmente potrà loro essere dato, soprattutto per via del cambiamento in corso nelle modalità di organizzazione aziendale, ormai improntate all’automazione e alla specializzazione del manovale. La rabbia proletaria, simbolicamente rivolta contro la schematicità dei test di valutazione “psicotecnici” (su cui ironizzerà anche Ermanno Olmi nel suo Il posto, film del 1961), si innesta sul senso di bisogno di un posto di lavoro che viene percepito,raffrontandosi con un’istituzione aziendale cui si attribuisce un ruolo civile e non solo economico, come dovuto.

Provando a confrontare questa visione della disoccupazione, collocata nell’Italia industriale del boom, con quella dominante oggi nel nostro Paese, emergono differenze molto significative per quel che riguarda l’atteggiamento degli stessi disoccupati. Questi ultimi, soprattutto quando particolarmente giovani, si caratterizzano per una sensazione di frustrazione e rassegnazione che non è in grado di esprimere nessuna forma di protesta nei confronti delle istituzioni organizzative. La sensazione di impotenza che la “crisi sistemica” ha inculcato nei giovani si unisce a un atteggiamento di immobilismo rafforzato dal ruolo di protezione spesso rivestito dalle famiglie. Se a ciò si aggiunge il sentimento di disillusione nei confronti dell’impegno politico (manifestato dall’emergere di nuovi movimenti guidati da “tribuni del popolo”), il quadro dei disoccupati d’oggi risulta completo e non potrebbe essere più distante da quello descritto da Ottieri oltre cinquanta anni fa.

[ illustrazione: fotogramma da La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, 1971 ]

ANTROPOLOGIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MEDIA, MUSICA, TECNOLOGIA

Il valore creativo delle tecnologie obsolete

Il passaggio da una tecnologia all’altra porta con sé un adattamento a diverse pratiche di pensiero e azione. Abbracciare un nuovo mezzo di espressione e creazione significa anche, implicitamente, abbandonare modalità di pensiero di cui spesso siamo scarsamente consapevoli. Su questa traccia si innestano alcune riflessioni di un recente articolo di William Gibson, autore noto per la fantascienza – su tutte, la sua opera più famosa è Neuromante (1984) – a cui si deve anche uno dei più interessanti contributi di “saggistica varia” degli ultimi anni, cioè Distrust That Particular Flavor (2012).

Spunto di riflessione è per Gibson l’iniziativa che risponde al nome di “The 78 Project”, che recupera il progetto di documentazione musicale “universale” che fu proprio del musicologo e antropologo americano Alan Lomax (1915-2002). Lomax è stato il primo grande etnomusicologo del mondo occidentale. Le sue registrazioni audio, in seguito confluite nell’Archive of American Folk Song della Biblioteca del Congresso, hanno portato alla scoperta di musicisti fondamentali per le radici della musica blues e rock, fra cui per esempio un personaggio circondato da un alone mitico come Leadbelly (1885-1949). Lomax non si limitò all’America, conducendo le sue ricerche anche in Africa, Asia, Europa (e Italia).

L’opera di Lomax è oggi ripresa nello spirito da “The 78 Project”, il cui nome fa riferimento alla tecnica con cui i promotori del progetto stanno affrontando la loro ricerca di musica per il mondo, cioè la cattura di musica tramite un semplice microfono e un registratore “Presto” degli anni ’30 che incide su vinile a 78 giri, storicamente il primo supporto fonografico (subito dopo i “cilindri” di Thomas Edison), introdotto da Emile Berliner nel 1888.

E qui torniamo a Gibson: l’utilizzo di una tecnologia obsoleta come quella del 78 giri è strettamente correlato al recupero di un progetto altrettanto passé. Seguendo il filo del discorso di Gibson, sembrerebbe che la scelta di un particolare mezzo sia centrale per poter anche solo pensare alla costruzione di un dato contenuto. Detto in altri termini: è proprio l’uso del 78 giri a rendere possibile il recupero di una certa modalità di registrazione musicale. Gibson discute anche il caso dell’ampio – per lo meno in America – filone di giovani scrittori che tornano alla vecchia macchina da scrivere, in cerca di un diverso approccio alla scrittura non più disponibile attraverso le tastiere dei computer.

Le considerazioni di Gibson aiutano ad andare oltre i pregiudizi – moda? revival? – che accompagnano oggi il recupero di molte tecnologie (su tutte la fotografia analogica), portando a concentrarsi sull’effettivo valore di interfaccia creativa insito in ogni medium.

[ illustrazione: la modella Nellie Elizabeth “Irish” McCalla ascolta un disco – foto degli anni ’50 ]

CAMBIAMENTO, CITTÀ, CULTURA, ECONOMIA, LAVORO, LETTERATURA, LIBRI, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TEMPO

Da Kansas City a Milano: Bianciardi, Parise e il cambiamento culturale

«Non siamo in America, dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato, e dove il paesaggio e la realtà giornaliera coincidono perfettamente con la cultura americana».

«Essendo il nostro paese molto vecchio permangono in molti suoi abitanti e nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso che rende uguale ogni apparenza, alcuni frammenti di “cultura umanistica”: cioè autoctona, locale […]. Essi sono scomparsi completamente nella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande, specialmente al Nord […], malata di una malattia americana: il pragmatismo».

Così scriveva Goffredo Parise (1929-1986) tra il luglio e l’agosto del 1974, in due articoli pubblicati su una rubrica di corrispondenza con i lettori da lui curata per il «Corriere della Sera» in quegli anni (di cui oggi viene presentata una piccola selezione in Dobbiamo disobbedire, 2013). Qui il tema è quello delle origini culturali e della loro cancellazione da parte del pensiero funzionalista diffuso dalla cultura lavorativa di stampo americano. Dalle parole di Parise emerge il riconoscimento di una cultura “umanistica”, retaggio di un passato agricolo, popolare paesano e cattolico, e insieme la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla sua scomparsa, causata da quella che, in altri articoli tratti dalla sua rubrica, egli chiama con ineluttabile semplicità la “forza delle cose”.

Il frammento tratto da Parise ne evoca un altro di Luciano Bianciardi (1922-1971), estratto da Il lavoro culturale (1957-1964):

«Kansas City, Kansas City è la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovi».

Kansas City è per Bianciardi la sua Grosseto, percepita dai più giovani – di cui lo scrittore si sente parte – come senza origini, nonostante ci fossero ancora molti accapigliati a cercarle, per esempio indagando la storia degli Etruschi. Per Bianciardi il dialogo è fra Grosseto/Kansas City e Milano, città che rappresenta “il lavoro culturale” e in cui si trova incarnata, tanto nella sostanza quanto nella forma del “linguaggio aziendale”, l’ideologia pragmatista di stampo americano di cui parlerà poi anche Parise. Non a caso, Bianciardi si trasferirà proprio a Milano in cerca di lavoro e riconsidererà con amarezza la sua Kansas City.

Questi due frammenti, scritti in anni diversi da autori coevi, fotografano lo sforzo dell’intellettuale nel dar conto di un momento che, per il nostro Paese, è stato di effettiva svolta e di forzato scontro culturale. Le parole di Bianciardi e Parise testimoniano un cambiamento il cui destino è forse solo oggi possibile vedere nel pieno sviluppo delle sue conseguenze.

[ illustrazione: articolo di «Epoca» del 29 aprile 1962 ]

BENI CULTURALI, ECONOMIA, INDUSTRIA, INTERNET, LIBRI, MARKETING

Amazon e la tirannia del cliente

En Amazonie (2013) è il reportage del giornalista francese Jean-Baptiste Malet, infiltratosi per tre mesi come interinale nel magazzino Amazon di Montélimar, nel sud della Francia.

Il resoconto di Malet mette in luce tanto il perfetto sistema organizzativo di Amazon, basato sui ruoli di picker (raccoglitori) e packer (imballatori), quanto la sfiancante esistenza degli interinali costretti a turni impossibili cadenzati dall’ideologia aziendale, cioè «Work hard, have fun, make history». Per la maggior parte di loro un posto a tempo indeterminato resta un sogno, nonostante le molte sovvenzioni ricevute da Amazon da parte degli enti locali.

Dal testo emerge la tirannia del cliente che, per Amazon come per molte altre aziende della grande distribuzione, è origine di una corsa all’efficienza apparentemente senza freni. Nel testo di Malet ciò è reso metaforicamente evidente dal confronto con gli enormi scaffali che raccolgono i libri e gli altri prodotti commercializzati dall’azienda di Seattle. Le montagne di “prodotti culturali”, di cui i magazzinieri hanno a malapena il tempo di osservare le copertine, rappresentano un’incredibile summa – mai prima d’ora concentrata in un unico luogo – dello scibile umano e di tutte le sue contraddizioni. Come nota Malet:

«È una cosa rivoluzionaria percorrere le scaffalature di un solo luogo e avere davanti a sé la quasi totalità delle opere che animano la vita intellettuale di un paese. Viene esplorato tutto lo spettro delle idee e delle sensibilità […]. Quali che siano i gusti, i colori, le opinioni, tutto contribuisce, suo malgrado, al fiorente successo di Amazon».

L’eterogeneità e l’indeterminatezza di questa massa di prodotti rappresentano l’esatto opposto di quanto vissuto all’interno di una libreria tradizionale, basata sul fatto che il cliente possa o meno riconoscersi in un gusto e in un orientamento condivisi con il libraio. La spersonalizzazione del libraio – di fatto la sua scomparsa – rappresenta il fattore vincente di Amazon, in grado di rispondere alle esigenze di nessuno e tutti insieme, decretando così la totale egemonia del cliente e la scomparsa, in un settore nonostante tutto ancora connotato dall’aggettivo “culturale” di qualsiasi pretesa di orientamento ed educazione al consumo.

[ Illustrazione: fotografia del magazzino Amazon di Phoenix, Arizona (AP Press) ]

CAMBIAMENTO, CINEMA, COMPLESSITÀ, MEDIA, SOCIETÀ, STORIE, TECNOLOGIA

Insieme, ma soli: a proposito di “Lei” di Spike Jonze

Lei (2013) di Spike Jonze si inserisce nella scia dei “frammenti (filmici) di un discorso amoroso” (con buona pace di Roland Barthes) inaugurata all’inizio del nuovo millennio da film quali Lost in Translation (2003) di Sofia Coppola, Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry e recentemente proseguita per esempio da Ruby Sparks (2012) di Jonathan Dayton e Valerie Faris. Con la sua “fantascienza plausibile”, Lei intende scattare un’istantanea della delicatezza dei rapporti sentimentali d’oggi, inquadrati secondo una precisa interpretazione, più o meno condivisibile: la crescente componente tecnologica delle relazioni sta spingendo la società occidentale verso una deriva solipsistica.

Dal punto di vista sociologico, il riferimento più immediatamente accostabile al film di Jonze è il recente e fortunato testo di Sherry Turkle Insieme ma soli (2012). Tanto in quest’ultimo libro quanto nel film di Jonze, emerge l’idea secondo cui la mediazione informatica, unita al progressivo annullamento del senso della privacy, starebbe generando un senso della collettività – ben rappresentato nelle sequenze più “pubbliche” di Lei – che risulta perfettamente descritto dal titolo stesso del testo di Turkle, cioè una alone-togetherness nella quale comportamenti solipsisti fino a poco tempo fa considerati bizzarri diventano, con la massima semplicità, normali. Per averne un’evidenza basta pensare a quanto velocemente è stata metabolizzata la sensazione di “stranezza” che qualche anno fa evocavano le prime persone che, camminando per strada, utilizzavano telefoni con auricolari. Per rintracciarne un’ ulteriore prova – in questo caso letteraria e di nuovo fantascientifica – è utile leggere le pagine di The Circle (2013) di Dave Eggers in cui la protagonista Mae diventa “trasparente” rispetto al mondo, abbattendo ogni barriera di privacy.

Tema centrale del film è poi il rapporto con le interfacce digitali. Ciò che più colpisce è la quasi scomparsa dello schermo a favore di un fondamentale recupero dell’elemento acustico (ma niente a che vedere con Siri di Apple). Chissà cosa penserebbe Marshall McLuhan (1911-1980) a riguardo: ipotizzare che il futuro delle interfacce possa essere legato a un ruolo di primo piano di un senso per molti versi oggi sottovalutato come l’udito pone un interessante stimolo di riflessione a chiunque si occupi di interaction design. In che modo un medium completamente uditivo potrebbe ridar forma a messaggi da troppo tempo plasmati da metafore quasi esclusivamente visive?

[ illustrazione: fotogramma dal film Lei (2013) di Spike Jonze ]

CONCETTI, LAVORO, MARKETING, METAFORE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

La nuova ideologia della “mindfulness”

«If Max Weber were alive today, he would definitely write a second, supplementary, volume to his Protestant Ethic, entitled The Taoist Ethic and the Spirit of Global Capitalism».

Così il filosofo sloveno Slavoj Žižek, a proposito dell’ideologia “new age” che guida la classe dirigente del nuovo capitalismo. A citarlo è, in un articolo per «The New Republic», Evgeny Morozov, esperto di new media bielorussso noto per le sue posizioni avverse al “cyber-ottimismo”.

Morozov si collega alle parole di Žižek per costruire un’argomentazione critica nei confronti della moda della “mindfulness”. Che l’espressione sia tanto diffusa quanto oscura è di fronte agli occhi di tutti, tanto che Morozov la descrive come la nuova “sostenibilità” (senza dubbio una delle categorie più abusate dell’ultimo decennio).

Quanto Morozov nota della mindfulness – interpretata soprattutto come volontà di “disconnessione” – è la viziosità del circolo che da ciò che la origina conduce alle sue soluzioni. L’artificialità degli stimoli in relazione ai quali nasce il bisogno di essere “mindful” corrisponderebbe fin troppo bene all’artificiosità delle risposte messe in atto da chi se ne professa seguace. Non a caso, tanto stimoli quanto risposte hanno origine dallo stesso substrato culturale, cioè quello di Silicon Valley (di qui il rimando a Weber, tramite Žižek). Soprattutto, la nota più debole del movimento della mindfulness sarebbe – secondo Morozov – l’incapacità di superare un approccio individuale “reazionario” per costruire una più autentica emancipazione su base collettiva.

[ illustrazione: uffici di Google a Tel Aviv ]

 

ARTE, EPISTEMOLOGIA, FILOSOFIA, RAPPRESENTAZIONE, SEGNI

Mike Kelley, Marcel Duchamp e la natura metaforica di ogni conoscenza

«Da un lato i ready-made reagiscono contro la nozione comune dell’arte come facciata, ossessionata dalla rappresentazione, presentando un oggetto “reale” in quanto opera d’arte. Dall’altro, riducono l’idea modernista dell’arte come materialmente autoreferenziale a un’assurdità, poiché è impossibile per questi oggetti “reali”, una volta presentati nel contesto dell’arte, mantenere il loro status di “realtà”».

Così si espresse sui ready-made Mike Kelley (1954-2012), artista americano fra i più sottovalutati degli ultimi anni. A portare chiarezza sulla sua opera e sul suo pensiero è oggi il testo Di tutto un pop. Un percorso fra arte e scrittura nell’opera di Mike Kelley (2014) di Marco Enrico Giacomelli, che ha il merito di ricostruire un’interpretazione del lavoro di Kelley che si lascia guidare soprattutto dai suoi numerosi scritti sull’arte.

Rispetto ai ready-made Kelley mette in luce qualcosa di non scontato. Prendendo le mosse dal comune modo di osservarli, cioè quello della “cosa che diventa arte” nel momento in cui entra in un museo, Kelley fa un passo in avanti e sposta la questione sul piano ontologico e conoscitivo. Il tema non è infatti solo quello del diverso modo di guardare a un oggetto a seconda della sua contestualizzazione. Quel che è in gioco è l’opportunità stessa di poterlo conoscere. L’opera degli artisti che hanno lavorato con i ready-made, su tutti ovviamente Marchel Duchamp (1887-1968), porta con sé un valore filosofico profondo, che va ben al di là della provocazione.

Il ready-made mette sotto scacco la pretesa autoreferenzialità degli oggetti e quindi l’ambizione di poterne acquisire una conoscenza oggettiva, diretta, immediata. Non è facile sbarazzarsi dell’ossessione della rappresentazione di cui Kelley parla. E questo vale in arte come, più in generale, per ogni conoscenza. Estremizzando, ed esprimendo la questione in termini “platonici” che la avvicinano anche all’opera di un artista concettuale come Joseph Kosuth, si potrebbe dire che nessuna conoscenza è in fondo possibile se non per via mediata, cioè attraverso una rappresentazione. In altri termini, ogni conoscenza è metaforica. Con buona pace di chiunque ritenga possibile conoscere la “realtà”.

[ illustrazione: Marcel Duchamp e una delle sue Roue de bicyclette ]

CONCETTI, LAVORO, PERCEZIONE, SOCIETÀ

In cerca del silenzio, nuova frontiera del business

Se vi è capitato di acquistare, ben disposti al sovrapprezzo, un biglietto di treno che promette “area silenzio”, sapete di cosa si parla. Lo sapete anche se siete acquirenti di automobili ed elettrodomestici “silenziosi” o cuffie “noise-canceller” (comprate magari per contrastare gli effetti di un open-space lavorativo). Nonostante John Cage abbia dimostrato in tempi non sospetti che il silenzio non esiste, il business che riguarda la sua ricerca pare essere molto concreto. Un recente articolo della rivista «The New Republic» ne segue le tracce.

La ricerca del silenzio trae origine, più che dalla percezione di crescenti disturbi sonori in termini di decibel (per la cronaca, le città italiane più rumorose del 2013 risultano Roma, Milano, Genova e Napoli), da una brama di “assenze” intese come sinonimo di purezza e riconquistata originarietà. I vari slogan del “senza tossine/grassi/conservanti/eccipienti/”, fino al classico “senza zucchero”, paiono  rispondere a una simile ricerca di sottrazione. Tornando sul piano sonoro, secondo lo studioso Jonathan Sterne, autore del testo The Audible Past: Cultural Origins of Sound Reproduction (2003), il silenzio sarebbe diventato una metafora particolarmente calzante per la ricerca di una condizione utopica e irraggiungibile, agognata in reazione al cosiddetto rumore di fondo (in certi casi letterale, ma soprattutto simbolico) della quotidianità.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Artist di Michel Hazanavicius, 2011 ]

DIVULGAZIONE, FOTOGRAFIA, STORIE

La fotografia di Vivian Maier (o: dell’arte privata)

Quello di Vivian Maier (1926-2009) è il caso fotografico degli ultimi anni. Vissuta principalmente a Chicago, dedicò oltre quarant’anni della sua vita alla cura dei bambini, lavorando come tata e governante. Nel corso della sua esistenza schiva e riservata scattò circa 100.000 fotografie, in gran parte mai sviluppate e soprattutto mai mostrate ad anima viva prima che un giovane collezionista, in seguito alla morte della fotografa, ne facesse la scoperta. Da quel momento in poi, il “caso” di Vivian Maier, street photographer d’eccezione, ha fatto il giro del mondo in molte mostre e ha prodotto due raccolte di sue fotografie, Vivian Maier: Street Photographer (2011) e Vivian Maier: Self-portraits (2013).

Riflettendo su Vivian Maier vale la pena di soffermarsi, più che sull’ennesimo caso di fama postuma in campo artistico, sull’opportunità di accostare alla sua fotografia l’aggettivo “privata”. “Privata” delle fotografie di Vivian Maier è stata, fino alla morte di quest’ultima, la società. E tuttavia “privata” è stata anzitutto, per tutto il corso della vita della fotografa, la realizzazione e fruizione delle sue immagini. Questa ambivalenza porta a porsi domande sullo scopo dell’arte, tra espressione personale e condivisione. Questo pare un tema di grande interesse in questo momento per il mondo dell’arte: come esempio si possono citare vari artisti (su tutti l’italo-americano Marino Auriti) recentemente protagonisti della 55a Biennale di Venezia curata da Massimiliano Gioni.

Le fotografie di Vivian Maier – in particolare i suoi autoritratti, di più recente pubblicazione – pongono in continuazione all’osservatore un quesito: è giusto che io sia di fronte a questa immagine?

[ illustrazione: autoritratto di Vivian Maier ]

CITTÀ, DIVULGAZIONE, GEOGRAFIA, INTERNET, MUSICA, SOCIETÀ, STORIE

Fra oblio e successo: la storia di Sixto Rodriguez

Ad ascoltare oggi Cold Fact (1970) di Sixto Rodriguez si ha l’impressione di trovarsi di fronte a uno dei classici del folk-psichedelico americano anni ’60-70. Questa percezione non trova tuttavia riscontro nelle storie della musica rock, per un semplice motivo: le vendite del disco segnarono un disastroso flop, ripetuto con il secondo album (Coming from Reality, 1971). In seguito a questi due exploit negativi, Rodriguez venne licenziato dalla sua etichetta discografica e condusse, per i 40 anni seguenti circa, una vita riservata e modesta, lavorando principalmente come manovale (ma senza negarsi una laurea in filosofia e un discreto impegno a livello politico) nella nativa Detroit.

Nel corso degli anni ’70 e ’80 tuttavia accadde, in tutt’altra localizzazione geografica, qualcosa di sorprendente: la musica di Rodriguez ricevette, per una fortunata e difficilmente ricostruibile serie di eventi, un’accoglienza addirittura entusiastica in Sud Africa. La gioventù sudafricana trovò nelle musiche e nei testi di Rodriguez una perfetta colonna sonora per la lotta contro l’establishment politico e l’apartheid. Cold Fact divenne un classico e rese la figura di Rodriguez mitologica, a completa insaputa del diretto interessato.

In tempi precedenti all’avvento di internet e in assenza di informazioni aggiornate su Rodriguez, le più diverse leggende sulla sua vita e – addirittura – morte trovarono ampia diffusione e incrementarono l’alone di mistero che circondava il personaggio. Questo è lo stato di cose che perdurò grosso modo fino alla fine degli anni ’90, quando due musicologi sudafricani si misero sulle tracce del musicista di Detroit per scoprire – complice un sito internet costruito ad hoc – che egli era ancora vivo e vegeto e, lungi dall’essere la celebrità che immaginavano, pressoché sconosciuto negli USA. Da allora iniziò un percorso di recupero della musica di Rodriguez, ricostruito nel documentario Searching For Sugar Man (2012) di Malik Bendjelloul. Oggi la musica di Rodriguez, ristampata e distribuita in tutto il mondo, riceve un generale plauso e il musicista ha ripreso – o meglio, iniziato – a girare il mondo in tour.

A prima vista, e in particolare assecondando il punto di vista del documentario di Bendjelloul – che pone enfasi soprattutto sullo sfruttamento economico della musica di Rodriguez a scapito di quest’ultimo e a vantaggio di diverse etichette discografiche – , questa sembrerebbe una storia di riconquistato e meritato successo. A guardarla più da vicino, la prospettiva può cambiare: la vicenda di Rodriguez è forse non molto diversa da quella di altri musicisti folk dell’epoca – viene subito in mente anche quella, immaginaria, del protagonista di Inside Llewyn Davis (2013) di Joel ed Ethan Coen – salvo il fatto che la sua ha un lieto fine.

La storia della musica – e, verrebbe da generalizzare, quella delle innovazioni – è piena di esempi di personaggi il cui successo non è probabilmente stato quello che avrebbero meritato. Su tutti, celebre è il caso di Solomon Linda, per lo più ignoto autore non retribuito del brano Mbube, destinato a essere poi diffuso – e a diventare fonte di celebrità e ricchezza per i successivi performer – come The Lion Sleeps Tonight (di questa storia ha scritto Nick Hornby nel suo Rock, pop, jazz & altro. Scritti sulla musica del 2002). In secondo luogo, il tema contestuale non può essere sottovalutato. La Detroit industriale degli anni ’60-70 non era certo la culturalmente animata New York degli stessi anni. Quindi, al di là dei giudizi di merito soggettivi, Rodriguez non può in nessun modo essere paragonato – come il documentario a tratti fa – con personaggi come Bob Dylan. Infine, il successo localizzato in Sud Africa si spiega in relazione alla scarsità di offerta presente all’epoca su questo territorio e, al di là della “romanticizzazione” agita dal documentario, all’azione decisamente efficace delle etichette sudafricane. Ed è proprio questo successo “di nicchia” ad aver condotto, in anni in cui internet ha permesso un facile dialogo tra locale e globale, alla notorietà di questi giorni.

[ illustrazione: Commodore Record Shop, August 1947, fotografia di William P. Gottlieb ]