Lei (2013) di Spike Jonze si inserisce nella scia dei “frammenti (filmici) di un discorso amoroso” (con buona pace di Roland Barthes) inaugurata all’inizio del nuovo millennio da film quali Lost in Translation (2003) di Sofia Coppola, Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry e recentemente proseguita per esempio da Ruby Sparks (2012) di Jonathan Dayton e Valerie Faris. Con la sua “fantascienza plausibile”, Lei intende scattare un’istantanea della delicatezza dei rapporti sentimentali d’oggi, inquadrati secondo una precisa interpretazione, più o meno condivisibile: la crescente componente tecnologica delle relazioni sta spingendo la società occidentale verso una deriva solipsistica.
Dal punto di vista sociologico, il riferimento più immediatamente accostabile al film di Jonze è il recente e fortunato testo di Sherry Turkle Insieme ma soli (2012). Tanto in quest’ultimo libro quanto nel film di Jonze, emerge l’idea secondo cui la mediazione informatica, unita al progressivo annullamento del senso della privacy, starebbe generando un senso della collettività – ben rappresentato nelle sequenze più “pubbliche” di Lei – che risulta perfettamente descritto dal titolo stesso del testo di Turkle, cioè una alone-togetherness nella quale comportamenti solipsisti fino a poco tempo fa considerati bizzarri diventano, con la massima semplicità, normali. Per averne un’evidenza basta pensare a quanto velocemente è stata metabolizzata la sensazione di “stranezza” che qualche anno fa evocavano le prime persone che, camminando per strada, utilizzavano telefoni con auricolari. Per rintracciarne un’ ulteriore prova – in questo caso letteraria e di nuovo fantascientifica – è utile leggere le pagine di The Circle (2013) di Dave Eggers in cui la protagonista Mae diventa “trasparente” rispetto al mondo, abbattendo ogni barriera di privacy.
Tema centrale del film è poi il rapporto con le interfacce digitali. Ciò che più colpisce è la quasi scomparsa dello schermo a favore di un fondamentale recupero dell’elemento acustico (ma niente a che vedere con Siri di Apple). Chissà cosa penserebbe Marshall McLuhan (1911-1980) a riguardo: ipotizzare che il futuro delle interfacce possa essere legato a un ruolo di primo piano di un senso per molti versi oggi sottovalutato come l’udito pone un interessante stimolo di riflessione a chiunque si occupi di interaction design. In che modo un medium completamente uditivo potrebbe ridar forma a messaggi da troppo tempo plasmati da metafore quasi esclusivamente visive?
[ illustrazione: fotogramma dal film Lei (2013) di Spike Jonze ]