Quello di Vivian Maier (1926-2009) è il caso fotografico degli ultimi anni. Vissuta principalmente a Chicago, dedicò oltre quarant’anni della sua vita alla cura dei bambini, lavorando come tata e governante. Nel corso della sua esistenza schiva e riservata scattò circa 100.000 fotografie, in gran parte mai sviluppate e soprattutto mai mostrate ad anima viva prima che un giovane collezionista, in seguito alla morte della fotografa, ne facesse la scoperta. Da quel momento in poi, il “caso” di Vivian Maier, street photographer d’eccezione, ha fatto il giro del mondo in molte mostre e ha prodotto due raccolte di sue fotografie, Vivian Maier: Street Photographer (2011) e Vivian Maier: Self-portraits
(2013).
Riflettendo su Vivian Maier vale la pena di soffermarsi, più che sull’ennesimo caso di fama postuma in campo artistico, sull’opportunità di accostare alla sua fotografia l’aggettivo “privata”. “Privata” delle fotografie di Vivian Maier è stata, fino alla morte di quest’ultima, la società. E tuttavia “privata” è stata anzitutto, per tutto il corso della vita della fotografa, la realizzazione e fruizione delle sue immagini. Questa ambivalenza porta a porsi domande sullo scopo dell’arte, tra espressione personale e condivisione. Questo pare un tema di grande interesse in questo momento per il mondo dell’arte: come esempio si possono citare vari artisti (su tutti l’italo-americano Marino Auriti) recentemente protagonisti della 55a Biennale di Venezia curata da Massimiliano Gioni.
Le fotografie di Vivian Maier – in particolare i suoi autoritratti, di più recente pubblicazione – pongono in continuazione all’osservatore un quesito: è giusto che io sia di fronte a questa immagine?
[ illustrazione: autoritratto di Vivian Maier ]