APPRENDIMENTO, ARTE, DIVULGAZIONE, METAFORE, PAROLE, RAPPRESENTAZIONE, SCIENZA

Vesalio e il corpo come metafora

Molto del comune e “figurato” modo di volgersi al corpo umano, per esempio pensando a vene e arterie come a tubature o allo scheletro come alla struttura di un’abitazione, risale a un grande lavoro linguistico compiuto nel XVI secolo dal fiammingo Andrea Vesalio (1514-1564, all’anagrafe Andreas van Wesel).

La sfida che Vesalio decise di affrontare fu quella di riportare su carta – nello specifico, sui manuali dedicati agli studenti di medicina – l’esperienza diretta dell’anatomia che solo in sala chirurgica era possibile vivere. Il principale ostacolo a questo obiettivo era l’astrazione, non solo sotto forma di un uso inadeguato del linguaggio ma anche quanto all’incapacità della rappresentazione a due dimensioni di rendere la ricchezza di movimento e forma implicata dall’esperienza reale.

Con il suo De Humani Corporis Fabrica, pubblicato per la prima volta nel 1543, Vesalio riuscì a far fronte a queste difficoltà, stabilendo al tempo stesso un nuovo standard in grado di superare il suo principale riferimento, cioè il lavoro compiuto dal medico romano Galeno ben tredici secoli prima. Quanto alle illustrazioni, Vesalio si affidò alle splendide incisioni di Jan van Calcar (1499–1546), pittore fiammingo formatosi con Tiziano. Quanto al linguaggio, ricorse alla metafora, usandola come vero e proprio strumento di apprendimento. Riuscì così a parlare agli studenti di medicina in modo nuovo, costruendo un repertorio di analogie che ha a tutti gli effetti rivoluzionato il modo di guardare all’anatomia grazie a un patrimonio di metafore che, come nota un bell’articolo del Public Domain Review, oggi suona molto “post-industriale” e dunque estremamente contemporaneo.

[ illustrazione: particolare da una tavola del De Humani Corporis Fabrica di Andrea Vesalio, 1543 – silografia di Jan van Calcar ]

APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, SCIENZA, TEORIE

Ecco perché la scienza gode di cattiva salute

Un recente numero dell’«Economist» ha aperto un’accesa discussione sull’approccio alla scoperta scientifica. Quel che si mette in discussione è uno dei suoi capisaldi, cioè la verifica della bontà di un esperimento tramite la sua ripetizione. In questo ambito “replicabilità” è tradizionalmente inteso come sinonimo di “oggettività”, dunque mettere in discussione questo presupposto significa minare l’intera impalcatura del metodo scientifico. È quello che ha di recente fatto un test condotto dalla farmaceutica americana Amgen: cercando di replicare 53 studi sulla ricerca contro il cancro considerati fondamentali, ha ottenuto successo in soli sei casi. Il che significa che i restanti 47 studi si sono rivelati fallaci.

L’esperimento citato non è che la più manifesta spia di una situazione di difficoltà generalizzata. Secondo l’«Economist» la principale causa di questo fallimento sarebbe da rintracciarsi nel clima estremamente competitivo e forsennato della ricerca scientifica. In termini di produzione di nuovi studi, lo slogan di molti ricercatori è purtroppo diventato “publish or perish” e la conseguente concentrazione su quantità e velocità va evidentemente a scapito della qualità delle pubblicazioni. Insieme a questo problema ne esiste un secondo, altrettanto grave, legato alle modalità di verifica degli studi stessi. È di nuovo un piccolo test, in questo caso condotto da un biologo di Harvard, a mettere in luce il problema. Inviando a 304 riviste scientifiche un paper pieno di errori e mancanze, il suddetto ricercatore è comunque riuscito a vederselo pubblicato da ben 157 testate. È evidente che la fiducia nei confronti di un sistema viziato sia rispetto alle sue modalità di produzione che a quelle di verifica è destinata a calare vertiginosamente. Citando l’Economist:

«Science still commands enormous – if sometimes bemused – respect. But its privileged status is founded on the capacity to be right most of the time and to correct its mistakes when it gets things wrong. And it is not as if the universe is short of genuine mysteries to keep generations of scientists hard at work. The false trails laid down by shoddy research are an unforgivable barrier to understanding».

[ illustrazione: fotogramma da Flesh for Frankenstein di Paul Morrisey, 1973 ]

APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CITTÀ, COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CULTURA, STORIE

L’Olanda, le biciclette e il cambiamento culturale

L’Olanda è la nazione con più ciclisti al mondo e, insieme, quella in cui pedalare risulta probabilmente più sicuro. Benché questa ottimale condizione appaia oggi così pervasiva e strutturale da sembrare “naturale”, sarebbe sufficiente tornare indietro nel tempo di circa quarant’anni per trovare una situazione completamente diversa.

In seguito all’eccezionale boom economico manifestatosi tra gli anni ’50 e ’60, un grandissimo numero di automobili invase le strade olandesi, portando con sé molti lavori legati alla realizzazione di strade e infrastrutture adeguate ad accogliere un grande flusso di traffico. Questa direzione di sviluppo penalizzò il ciclismo, che diminuì con un tasso del 6% annuo. Soprattutto, l’Olanda fu funestata da un inopinato numero di incidenti che causarono, nel solo 1971, ben 3300 morti di cui oltre 400 fra minori. Questa terribile situazione generò violente proteste popolari che portarono a cambiare completamente direzione.

In concomitanza con la crisi petrolifera del 1973, il primo ministro olandese Joop den Uyl decretò una svolta nel sistema di trasporti. La nuova politica si mostrò fin da subito nettamente orientata alla mobilità su due ruote, con pedonalizzazione di centri storici e sperimentazioni di percorsi ciclabili completi e sicuri nelle città di Den Haag e Tilburg, luoghi ove il ciclismo crebbe istantaneamente con un tasso di oltre il 60%.

La felice storia del ciclismo in Olanda, ben riassunta da questo video, mostra che è possibile incontrare condizioni culturali così radicate da sembrare “naturali”, anche se di fatto non lo sono. L’attuale viabilità olandese è frutto di una scelta collettiva e di un processo di cambiamento sostenuto con tenacia ed efficacia a fronte di condizioni di partenza decisamente avverse.

[ illustrazione: Jacques Tati alle prese con la sua bici ]

COMUNICAZIONE, CONCETTI, CULTURA, DIVULGAZIONE, STORIE

Sfatare un mito grazie a Braccio di Ferro

Che gli spinaci contengano alte quantità di ferro è cosa nota. Così nota da aver ispirato il tratto caratteristico di uno dei più celebri personaggi dei comics americani: Popeye (dalle nostre parti: Braccio di Ferro). Ma le cose non stanno proprio così.

Nel 1870 il chimico tedesco Erich Von Wolf si cimentò nell’esame del quantitativo di ferro contenuto in diversi vegetali. Quello degli spinaci risultò misurabile in 3.5 milligrammi per 100 grammi, quindi una percentuale non particolarmente alta. Senonché, Von Wolf commise un errore nel trascrivere i suoi risultati e il dato che venne ufficialmente registrato fu quello di ben 35 milligrammi. Dato decisamente spropositato e di fatto equiparabile, quanto a percentuale di ferro, a quello riscontrabile per una piccola clip metallica. A ogni modo, il dato erroneamente indicato da Von Wolf si diffuse in tutto il mondo, generando la leggendaria fama degli spinaci come elemento estremamente ricco di ferro.

L’errore venne riconosciuto e corretto solo nel 1937, ma nel frattempo – per la precisione nel 1929 – prese vita il personaggio di Braccio di Ferro e con lui un popolarissimo e duraturo culto per il potere “energizzante” degli spinaci: benché sia un dato tutt’altro che scientificamente provato, si dice che Braccio di Ferro abbia contribuito a far salire il consumo di spinaci in America di ben un terzo. Questa storia, insieme a molte altre, è contenuta nel libro di Samuel Arbesman The Half-Life of Facts: Why Everything We Know Has an Expiration Date (2012) e offre un’interessante riflessione sul ruolo degli errori nel dar vita a molte nostre credenze.

[ illustrazione: Popeye, l’uso della cui immagine è ormai libero da copyright (almeno in Europa) ]

CULTURA, LAVORO

Il pensiero positivo e i “buoni pessimisti”

In ambito organizzativo, la dottrina del “pensiero positivo” gode di un solido e duraturo successo. Gli ottimisti, oltre a contribuire a un clima lavorativo sereno, sono in grado di prendere dal verso giusto le difficoltà, risultando resilienti e perseveranti. Il mondo lavorativo è a ogni modo popolato anche dai pessimisti. Il loro atteggiamento, critico per definizione, è a sua volta dotato di lati positivi, soprattutto rispetto alla capacità di prevedere e gestire i cosiddetti worst case scenario.

Molteplici studi – in particolare quelli condotti dagli psicologi Julie Norem and Nancy Cantor – mostrano che quanto aiuta e sostiene una persona mediamente ottimista può rivelarsi deleterio per un pessimista. Questo vale anzitutto per gli stati d’animo: se di norma il buonumore aiuta un ottimista a lavorare meglio, nel caso di un pessimista questo diventa un elemento negativo. Se di buonumore, un pessimista tende ad assumere un atteggiamento eccessivamente rilassato e compiacente che neutralizza la costitutiva dose d’ansia che normalmente anima il suo apporto.

È necessario prestare attenzione anche agli incoraggiamenti: se questi ultimi possono aiutare la performance di un ottimista, rispetto a quella di un pessimista risultano pericolosi. Il motivo di questa reazione va di nuovo individuato nel depotenziamento dello stato di critica allerta che i pessimisti riescono a usare così produttivamente. Un’accresciuta fiducia finisce per minimizzarlo, riducendo concentrazione ed efficacia di un “buon pessimista”.

[ illustrazione: Lisa Simpson – © Matt Groening ]

ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CULTURA

Apprendimento e identità

Norbert Wiener (1894-1964), matematico americano considerato il padre fondatore della cibernetica, ha inserito nel suo Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani (1958) una delle più efficaci descrizioni della centralità dell’apprendimento per la specie umana.

Anzitutto, l’uomo è una forma neotenica, cioè caratterizzata da un periodo di immaturità indeterminatamente prolungato. Questo fa sì che negli individui adulti si presenti una serie di caratteristiche tipiche delle forme infantili. Per esempio, nota Wiener, se si confronta la specie umana con le grandi scimmie si nota come l’uomo adulto somigli più alla scimmia appena nata che a quella matura. Per nulla a caso, il periodo dell’infanzia umano è relativamente più lungo di quello di qualsiasi animale.

Questo stato di “eterno Peter Pan” ha ripercussioni importanti per il tema dell’apprendimento. Poiché l’uomo non può mai dirsi del tutto adulto, nemmeno può dirsi che egli giunga mai a uno stato di maturazione cognitiva e sedimentazione di conoscenze “definitivo”. Il continuo rielaborare esperienze passate rappresenta il fulcro del nostro altrettanto continuo apprendere, così come della possibilità di emanciparci, in un modo del tutto “culturale”, dalla nostra provenienza più strettamente biologica. Secondo le parole di Wiener:

L’uomo trascorre circa il quaranta per cento della sua vita nella condizione di apprendista, per ragioni che hanno a che fare con la sua struttura biologica. È del tutto naturale che una società umana si fondi sulla capacità di apprendere, come all’opposto una comunità di formiche si basi su un modello ereditario. Essenzialmente apprendere è una forma di retroazione, nella quale il modello del comportamento è modificato dall’esperienza passata».

[ illustrazione: dettaglio da San Gerolamo nello studio di Antonello da Messina,1474-1475 circa ]

ARTE, BIGDATA, INDUSTRIA, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

Il valore “mistico” dei big data

I Big Data stanno entrando in moltissimi aspetti della nostra vita. Anche nei videogiochi, nota un articolo della rivista KillScreen, e non con esiti esaltanti. L’output delle nuove applicazioni come Fuseboxx, che monitora e analizza l’esperienza di chi gioca per poter poi offrire nuovi prodotti conformati su quanto raccolto, rischia di assomigliare agli esiti di un bizzarro esperimento condotto a partire dal 1993 da due artisti di nome Vitaly Komar e Alexander Melamid. Questi ultimi condussero in diverse nazioni una ricerca volta a identificare l’opera d’arte visiva “più desiderata”, elaborando un numero molto alto di fattori di preferenza espressi da cittadini. Si cominciò dagli USA, dove l’output – poi realizzato tramite un elaborazione digitale – risultò quanto meno “pittoresco”:

«Most people polled thought that blue was the color they would like to see most in a painting so the painting is mostly blue. Most people wanted natural outdoor scenes featuring bodies of water, so that’s the landscape. Most people wanted to see animals, people and historical figures, so there is a few people, some deer, and George Washington. It’s a terrible painting and a great joke».

Il raffronto tra videogiochi e arte visiva serve a tenere a mente, casomai ce ne fosse bisogno, due certezze relative alla realizzazione di qualsiasi prodotto culturale: il pubblico è sovrano, ma meglio non fidarsi troppo dei suoi gusti (ne parlava già Karel Teige nel 1936 ne Il Mercato dell’arte); l’opera di inventiva e creatività di un progettista (meglio questo termine del troppo connotato “artista”) non è sostituibile da alcun computer o algoritmo, per quanto preciso esso possa essere.

A queste considerazioni la rivista affianca un’osservazione dello studioso di videogiochi italiano Matteo Bittanti:

«The problem, he said, is the almost mystical value we attribute to big data, the illusion that science provides all the answers. He compares it to our ongoing obsession with neural science, brain imagery that can supposedly teach us everything there is to know about human behavior».

La fiducia nei big data è il più delle volte cieca, semplicemente perché essi ci spiegano i “cosa” ma non i “perché” di quel che accade. Il parallelismo con l’ossessione per lo studio delle neuroscienze è molto calzante: il sapere quale area del cervello si attiva quando prendiamo un certo tipo di decisione ci spiega forse perché lo facciamo? Ironicamente, tutto questo ricorda la  storia di Kaspar Hauser, “freak” vissuto a inizio Ottocento e studiato con forzato zelo dalla scienza di allora, impegnata a educarlo e a comprendere i meccanismi biologici legati alla sua devianza. Che rimasero misteriosi anche a fronte dell’autopsia che permise loro di esaminare il suo cervello.

[ illustrazione: Most Wanted Painting, America, elaborazione grafica di Vitaly Komar e Alexander Melamid, 1995 ]

CITTÀ, COMPLESSITÀ, ECONOMIA, GEOGRAFIA, LAVORO

La globalizzazione economica secondo Enrico Moretti

L’economista italiano Enrico Moretti, docente presso l’università californiana di Berkeley, ha tracciato con il suo La nuova geografia del lavoro (2013) una precisa mappatura delle trasformazioni dell’attuale mondo del lavoro. Focalizzandosi sugli USA, ove si è trasferito fin dagli anni ’90, Moretti analizza i cambiamenti demografici e sociali che un’economia fortemente basata su innovazione e asset intangibili ha portato con sé negli ultimi 20 anni.

Uno degli aspetti che rendono particolarmente credibile il testo è la capacità di sfatare alcuni miti sorti nel corso dei primi anni 2000 riguardo la globalizzazione e il ruolo delle nuove tecnologie. In particolare, Moretti mostra come le previsioni di un libro celebre come The World Is Flat (2005) del giornalista Thomas Friedman, incentrate sulla “morte delle distanze” e sul passaggio in secondo piano della variabile geografica, siano state ampiamente sfatate. Al di là del fatto che strumenti come videoconferenze e Skype sono ben lontani dall’incidere a livello davvero significativo sulla collaborazione a livello globale, resta indubbio che la prossimità geografica continua a essere il più efficace catalizzatore di attività lavorative.

Analizzando i casi di alcuni “hub” legati all’innovazione (su tutti, prevedibilmente, spicca Silicon Valley), quanto emerge è che questi distretti lavorano come veri e propri ecosistemi che, oltre a reggersi sulla forza di un concreto co-working basato sulla prossimità, sono in grado di dar vita a positive esternalità economiche che si estendono ad attività appartenenti ad altri ambiti. Molto prosaicamente: per ogni nuovo posto di lavoro legato all’innovazione, si creano mediamente cinque altri posti in diversi ambiti professionali del medesimo ecosistema.

Il principale limite del libro di Moretti è quello di focalizzarsi quasi esclusivamente sul contesto americano. Per un’integrazione rispetto all’ambito europeo e italiano può essere utile accompagnare questa lettura a quella di Futuro artigiano (2011) di Stefano Micelli, testo dal taglio diverso ma proficuamente complementare.

[ illustrazione: mappa dal testo Kort begrip der waereld – Historie voor de jeugd di J.F. Martinet, 1789 ]

BIGDATA, COLLABORAZIONE, CULTURA, DIVULGAZIONE, LAVORO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

BuzzFeed e l’uso tayloristico dei dati

Il claim del sito web BuzzFeed descrive la sua offerta come “the hottest, most social content on the web”. È probabile che sia stato proprio questo proclama a convincere lo studioso di nuovi media Evgeny Morozov a sottoporre il popolare sito, che nell’agosto 2013 ha registrato 85 milioni di visitatori, all’analisi della sua critica lente indagatrice.

Morozov nota anzitutto come la specializzazione di BuzzFeed non sia semplicemente quella di produrre contenuti, bensì di costruirli con una ricetta che li rende istantaneamente “virali”. In questo senso, il sito lavora molto più come una startup tecnologica di Silicon Valley che come una tradizionale testata giornalistica: il rigore del contenuto è in secondo piano rispetto a “share” e “like” da ottenere tramite l’ingegnerizzazione di precisi algoritmi. A questo proposito, Morozov evidenzia il sapiente – e “tayloristico” – uso dei dati messo in atto dal sito:

«Thanks to advanced analytics and tools of Big Data, they know exactly what needs to be said—and how—to get the story shared by most people. Its approach is best described as Taylorism of the viral: Just like Frederick Taylor knew how to design the factory floor to maximize efficiency, BuzzFeed knows how to design its articles to produce most clicks and shares. The content of the article is secondary to its viral performance».

Se già tutto questo evoca una prospettiva inedita per la diffusione di notizie via web, BuzzFeed risulta un caso interessante anche rispetto ai suoi contenuti. Questi ultimi sono oggi “english only”, ma saranno presto tradotti in molte lingue, raggiungendo un obiettivo di “viralità localizzata” perfettamente coniugabile con la globalizzazione dei contenuti. Tutto ciò è possibile da una partnership con Duolingo, startup dell’apprendimento di lingue via web.

Duolingo è stata fondata da Luis von Ahn, giovane professore di matematica divenuto celebre per il suo lavoro sui “captcha”, i codici di controllo che i siti web usano per verificare che l’utente sia davvero una persona (e non un robot che diffonde “spam”). Uno degli aspetti meno noti dei “captcha” riguarda la loro evoluzione nel corso del tempo: alle stringhe di testo casuali hanno cominciato ad affiancarsi parole scansite da libri che, in questo modo, vengono digitalizzati parola per parola grazie al contributo degli utenti. Questa dinamica di utilizzo incrociato di dati e del contributo gratuito – e spesso ignaro degli utenti rappresenta un tratto tipico dell’era “big data”.

Un meccanismo simile a quello dei “capctha” guida il rapporto tra Duolingo e BuzzFeed: la prima azienda offre gratuitamente corsi di lingue a studenti cui verranno sottoposti, parola per parola, i contenuti che la seconda ha bisogno di tradurre. Sistema perfetto, che Morozov non manca di criticare rispetto alla sua dinamica globalizzata: la diffusione globale delle news “americanocentriche” di BuzzFeed finirà probabilmente per sovrastare news locali dotate di scarsa forza “virale”.

[ illustrazione: staff della rivista studentesca “Aurora” della Eastern Michigan University, 1907]

APPRENDIMENTO, ARTE

L’arte fa bene all’attenzione e all’apprendimento

La saggezza popolare ci ricorda che per imparare “ci vuole tempo”, anche se spesso ce ne dimentichiamo. A fronte di una costante pressione sociale e tecnologica che spinge verso immediatezza e velocità, accostarsi con la dovuta attenzione e concentrazione a un’esperienza di apprendimento è sempre più difficile. Così come muovere i nostri occhi verso una cosa non equivale necessariamente a vederla, sarebbe ingannevole considerare il semplice accesso a dati e informazioni come sinonimo di un effettivo apprendimento.

La storica di Harvard Jennifer Roberts si è inventata un “sadico” esercizio di osservazione cui ha sottoposto i suoi studenti: trascorrere ben tre ore di fronte a un’opera d’arte, sforzandosi di annotare minuto dopo minuto il progressivo evolvere delle proprie percezioni e osservazioni. I risultati, pare, sono stati sorprendenti. Amplificando enormemente il tempo dedicato all’osservazione di un’opera – si calcola che in media i visitatori del Louvre non trascorrano più di 15 secondi nemmeno davanti a capolavori come la Gioconda – Roberts è riuscita a offrire ai suoi studenti un’esperienza in grado di trasmettere il raro e prezioso valore del “tempo debito”.

Nella conferenza in cui ha descritto le motivazioni e gli esiti del suo esperimento, Roberts fa riferimento alle opere d’arte considerandole “batterie temporali” la cui frequentazione aiuta a ricaricare le nostre riserve di concentrazione, attenzione e perseveranza. Questo tipo di fruizione offre un allenamento cognitivo che si estende a ogni genere di apprendimento, diventando una vera e propria competenza:

«This lesson about art, vision, and time goes far beyond art history. It serves as a master lesson in the value of critical attention, patient investigation, and skepticism about immediate surface appearances. I can think of few skills that are more important in academic or civic life in the twenty-first century».

[ illustrazione: foto di Thomas Struth ]