APPRENDIMENTO, BIGDATA, TECNOLOGIA

Gordon Bell e l’arte di ricordare tutto con la tecnologia

Gordon Bell è un signore americano ottantenne. Come ingegnere elettrico e imprenditore riveste, da cinquant’anni a questa parte, un ruolo centrale nello sviluppo di tecnologie informatiche. A partire dagli anni ’90, Bell è protagonista di MyLifeBits, progetto promosso da Microsoft e orientato alla completa digitalizzazione di esperienze e memorie. L’ispirazione di MyLifeBits risale a Vannevar Bush (1890-1974), scienziato americano che in un articolo del 1945 per «The Atlantic» immaginò che in futuro potesse essere realizzato uno strumento – da lui chiamato “memex” (abbreviazione di memory expansion) – in grado di immagazzinare tutta la conoscenza raccolta da un individuo.

Come testimoniato dalla centralità di computer e smartphone nella nostra quotidianità – e  in particolare dai fenomeni big data e personal tracking –  quanto immaginato da Vannevar Bush è ormai parte del presente. Per comprenderlo, le riflessioni messe in atto da Gordon Bell nel corso dei suoi esperimenti sono estremamente utili. C’è in particolare una frase di Bell, posta in chiusura a un articolo lui dedicato dal New Yorker nel 2007, che ben esprime la sua – e forse anche nostra – tensione all’accrescimento di conoscenze tramite strumenti tecnologici:

«Your aspirations go up with every new tool. You’ve got all this content there and you want to use it, but there’s always this problem of wanting more».

A queste parole ben si relaziona un’osservazione della studiosa americana Sherry Turkle (dal testo Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri2012) riferita a un incontro con lo stesso Bell:

«One senses a new dynamic: when you depend on the computer to remember the past, you focus on whatever past is kept on the computer. And you learn to favor whatever past is easiest to find».

Il “volere di più” di cui parla Bell è alimentato dalle crescenti potenzialità delle memorie artificiali, che ci obbligano tuttavia a una scelta: a chi vogliamo attribuire la responsabilità di quel che ricordiamo, alla nostra memoria o a quella della tecnologia? Posto in questi termini, il tema non è per nulla nuovo, è anzi uno dei più antichi in assoluto. Facendo un salto indietro nel tempo fino al IV secolo a.C., nel Fedro di Platone si trovano queste considerazioni sul rapporto tra memoria e scrittura:

«Essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza».

[ illustrazione: fotogramma tratto dal film Tron di Steven Lisberger, 1982 ]

CONCETTI, PAROLE

Tornare a bomba

Da cosa deriva la comune espressione “tornare a bomba”? La sua menzione scritta più antica risale al trattato di linguistica del 1570 Ercolano, opera postuma dell’umanista fiorentino Benedetto Varchi (1503-1565):

«Avea cominciato alcun ragionamento; poi entrato in un altro, non si ricordava più di ritornare a bomba, e fornire il primo».

Il modo di dire nasce in epoca rinascimentale in ambiente fiorentino, con riferimento a un antico gioco di ragazzi detto del Pome o Toccapomo. Simile al classico “guardie e ladri”, il gioco prevedeva una sorta di zona franca detta “bom” o “bomba”, usata come punto di partenza e arrivo da chi impersonava la parte del ladro.

Nel corso del tempo il “tornare a bomba” si stacca dalla sua origine ludica – e molto legata a uno spazio fisico – per assumere un significato metaforico incentrato sul ragionamento. Questo percorso conduce l’espressione all’attuale senso di “tornare a un argomento principale in seguito a una divagazione”.

[ illustrazione: particolare di Explosion (1956) di Roy Lichtenstein ]

CINEMA, COLORI, LETTERATURA, SOCIETÀ

Il rosa è un colore femminile?

Le ultime pagine del romanzo di Francis Scott Fitzgerald Il grande Gatsby (1925) contengono un curioso dialogo che riguarda il colore del vestito del protagonista. Gatsby indossa un completo rosa e il suo antagonista Buchanan sottolinea questa scelta cromatica con disprezzo. Per un lettore di oggi, la situazione è ambigua: perché Buchanan critica il rosa di Gatsby? Nessuna delle due versioni cinematografiche del romanzo (1974 e 2013) aiuta a svelare il mistero. E chi pensa che Buchanan voglia deridere una scelta poco mascolina fatta da Gatsby, si sbaglia di grosso. Ecco la verità: negli anni ’20 e ’30 vestire di rosa era considerato perfettamente virile, ma questo colore era associato alle classi sociali più basse. Buchanan intende dunque mettere alla berlina le origini di Gatsby, smascherando tutte le sue menzogne.

Questo esempio mostra quanto l’interpretazione di un colore possa essere soggetta a mutamenti legati a diverse epoche e contesti culturali. Un articolo del «The Atlantic» ricostruisce un’articolata storia del legame tra rosa e vestiario, dal XVIII secolo a oggi. Se, come già notato, il rosa è considerato colore maschile fino agli anni ’30, in realtà esso porta con sé soprattutto una connotazione di salute e giovinezza. Era dunque normale vederlo indossato da bambini, giovani uomini e donne, ma non da persone anziane. Rispetto ai più piccolo, in queste epoche la scelta dei colori era intesa più per differenziare gli infanti dagli adulti che non per distinguere i due sessi. I classici rosa e azzurro erano quindi entrambi legati ai bambini, ma in modo perfettamente interscambiabile rispetto al loro sesso. I primi segnali di differenziazione in questo senso nascono verso la fine dell’Ottocento, sulla spinta delle teorie sullo sviluppo infantile di Freud. Parallelamente, in un romanzo come Piccole donne (1880) di Louisa May Alcott si attribuisce a un’usanza francese la preferenza del rosa per le bambine.

È solo dopo la metà del Novecento che si arriva ad associare il rosa prettamente con la femminilità, in relazione a una conformità di codici – non solo vestiari – messa in atto a partire dagli anni ’50. Quel che segue nella seconda metà del XX secolo è uno spostamento verso una lettura “unisex” dell’abbigliamento dei bambini – coincidente con la fine degli anni ’70 – che ha poi condotto, probabilmente per semplice reazione, al ritorno “tradizionalista” che oggi viviamo.

Questa breve storia dell’abbigliamento rosa aiuta a comprendere quanto molte usanze che si sembrano date, immutabili o perfino naturali siano in realtà del tutto dipendenti da un’interpretazione culturale legata a un ambiente e a un momento storico. Quanto vale per il rosa è applicabile a moltissime altri apparenti “dati di fatto” della vita personale e lavorativa.

[ illustrazione: fotogramma dal film Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, 2013 ]

APPRENDIMENTO, VIDEOGIOCHI

I videogiochi allenano al fallimento?

Nel suo The Art of Failure (2013) il ludologista Jesper Juul riflette su un aspetto poco studiato dei videogiochi – e di ogni altro gioco in generale – , vale a dire il senso di fallimento che ogni “game over” porta con sé.

In maniera diversa dalla catarsi che possono offrire opere di finzione come drammi teatrali, romanzi o film, il videogioco non lascia mai al giocatore l’opportunità di tirarsi fuori. Questo significa che quando in un videogioco si perde non è possibile agire il tipico sguardo distaccato e critico che viene assunto di fronte a un fallimento narrato. Al contrario, si è obbligati a vivere in prima persona l’intera onta legata al fallimento. Pur essendo quello del videogioco un dominio simbolico esistente solo in relazione alle sue regole, le sensazioni di sconfitta che proviamo al suo interno risultano estremamente reali.

Con riferimento al popolare tema della gamification, Juul si domanda se la logica di fallimento / successo su cui si basano i videogiochi possa servire da allenamento ai reali fallimenti della vita. Sembra difficile rispondere positivamente, perché mentre i videogiochi sono frutto di una programmazione che bilancia perfettamente sconfitte e vittorie aiutando il giocatore a trovarsi in un motivante stato di “flow”, i fallimenti della vita reale – Juul usa l’esempio della crisi finanziaria esplosa nel 2008 – sono caratterizzati da imprevedibilità e mancanza di schemi riconoscibili. Tutto ciò rende impossibile trovarsi nel flow.

Juul riflette anche sul tema dei “bias” che ci influenzano quando dobbiamo decidere a chi o a cosa attribuire la responsabilità di un fallimento. Avvicinandosi alle riflessioni sul cosiddetto locus of control reso celebre dalla psicologia del lavoro, Juul nota come il videogiocatore medio sia tanto propenso a riconoscersi i meriti di una vittoria quanto, prevedibilmente, ad attribuire a “bug” del sistema la responsabilità del proprio fallimento. Efficace è a questo proposito un esempio riportato da Juul: quando ai mondiali di calcio del 2010 la squadra americana venne eliminata dalla competizione, il «New York Post» pubblicò un articolo dal titolo “Comunque, questo gioco è stupido”.

[ illustrazione: fotogramma dal film Scott Pilgrim VS the World di Edgar Wright, 2010 ]

COMPLESSITÀ, PERCEZIONE, TECNOLOGIA, UFFICI

Semafori, termostati, bancomat. Ovvero: gli effetti placebo intorno a noi

Un articolo del blog di David McRaney, specialista di tranelli cognitivi e autore di You Are Not So Smart (2012) e You Are Now Less Dumb (2013), riflette sul cosiddetto “effetto placebo” osservandolo da un particolare punto di vista.

Fra le esperienze comuni ai pedoni di tutto il mondo rientra quella dei pulsanti che permettono, quando si aspetta che il semaforo diventi verde, di rendere l’attesa meno lunga. Ogni qual volta premiamo con fiducia uno di questi bottoni, stiamo facendo – almeno secondo McrRaney – una cosa probabilmente inutile. In quasi tutto il mondo i semafori stradali sono infatti gestiti da sistemi computerizzati e nella maggior parte dei casi i pulsanti per “chiamare il verde” si trovano ancora al loro posto – ormai inattivi – semplicemente per via degli alti costi legati alla loro disintallazione.

Sempre secondo McRaney, l’effetto generato da questi bottoni sarebbe quello di rassicurarci e farci sentire padroni della situazione, arrivando a credere in relazioni causa-effetto che sono in realtà inesistenti:

«Your brain doesn’t like randomness, and so it tries to connect a cause to every effect; when it can’t, you make one up».

Forse ancor più interessante è il caso di pulsanti il cui effetto placebo non è casuale ma deliberatamente indotto. Fra questi rientrerebbero i falsi termostati presenti in molti uffici americani. Come è noto, la percezione del calore ambientale è estremamente soggettiva e in un ufficio mediamente numeroso è molto probabile che la temperatura venga alzata e abbassata più volte nell’arco della giornata. I cambiamenti frequenti, oltre a essere fonte di possibili discordie, comportano per le aziende un significativo costo di gestione. Da qui sarebbe nata l’idea di falsi termostati – in certi casi accompagnati da suoni operativi altrettanto fasulli – capaci di accontentare le esigenze di ognuno senza in realtà modificare mai la temperatura ambientale. In tema di effetti placebo indotti, simile è il caso dei rumori prodotti dai distributori di denaro bancomat (ATM nel resto del mondo). Più fonti sostengono che anche questi suoni sarebbero studiati ad arte e finalizzati a rassicurare l’utente del fatto che il suo denaro è “in arrivo”.

La veridicità di questi esempi – o quantomeno la loro applicazione su larga scala e al di fuori dagli USA, contesto cui McRaney fa riferimento – resta tutta da verificare. Indubbia è la loro capacità di farci riflettere su quanto la presenza o assenza di un risposta positiva a un’azione sia in grado di influenzare la nostra soddisfazione. In secondo luogo, questi esempi mettono bene in luce quanto la mediazione di una “macchina” (categoria che include tanto semafori quanto termostati e bancomat) rispetto a un processo di feedback renda quest’ultimo ambiguo, opaco e altamente manipolabile.

[ illustrazione: foto di Berni Andrew ]

APPRENDIMENTO, COMUNICAZIONE, CONCETTI, EPISTEMOLOGIA

L’egemonia logico-scientifica nel pensiero occidentale

Benché meno noto di Zenone di Elea (489 a.C. – 431 a.C.), cui sono attribuiti i celebri paradossi relativi al movimento e al pluralismo, Zenone di Cizio (333 a.C. – 263 a.C) occupa un posto di tutto rispetto nella storia del pensiero occidentale, soprattutto per quel che riguarda le nostre modalità di conoscenza e comunicazione.

Gli stoici – di cui Zenone di Cizio è considerato il capostipite – distinguevano la logica dalla retorica (o eloquenza). La prima era considerata arte della dimostrazione, la seconda della persuasione. In altri termini, laddove la logica cerca di convincere in base alle caratteristiche oggettive del discorso, la retorica lavora sulle qualità soggettive dell’oratore e sulla sua capacità di coinvolgere ed emozionare i suoi interlocutori.

Proprio a Zenone di Cizio si deve un’efficace metafora visiva in grado di rappresentare la natura di queste due arti. Si dice che Zenone, per rispondere alla domanda sulla loro differenza, usasse indicare con un pugno chiuso la logica, con una mano aperta la retorica/eloquenza. Questa immagine evoca con forza l’univocità e la definizione della logica, opposte all’apertura e alla disposizione creativa proprie della retorica.

Con un ottimo esercizio proiettivo, lo studioso di management Pasquale Gagliardi (nella sua raccolta di saggi del 2001 intitolata Il gusto dell’organizzazione) riconduce al prevalere del “pugno chiuso” la progressiva affermazione del pensiero scientifico nella cultura occidentale:

«A partire da Newton, i saggi furono sempre più identificati con gli scienziati e le loro affermazioni dovevano essere il risultato di fredde osservazioni, prive di qualsiasi stratagemma stilistico e spogliate del fascino dell’immaginazione. La modernità ha così ereditato dalla rivoluzione scientifica del diciottesimo secolo un pugno chiuso – o almeno l’idea della superiorità del pugno chiuso sulla mano aperta».

[ illustrazione: particolare dalla Scuola di Atene (1509-1510) di Raffaello – Zenone di Cizio è l’uomo anziano con la barba nell’angolo in alto a sinistra ]

LAVORO

L’influenza del clima sull’umore e la produttività

Che esista una stretta relazione tra condizioni climatiche e umore, in grado di influire anche su lucidità e produttività, è cosa nota. Un articolo del New Yorker fa il punto della situazione.

Anzitutto, tra temperature estive e buon umore esiste un’effettiva correlazione. Questa non è tuttavia assoluta, ma relativa, il che significa che chi vive in California non è in generale più felice di un cittadino del Nebraska. Entrambi, tuttavia, saranno mediamente più di buono spirito con l’approssimarsi del solstizio estivo e l’allungarsi delle giornate.

In tema di umore, estate e caldo ci rendono in genere più felici, ma questo non gioca necessariamente a vantaggio delle nostre capacità cognitive. Il troppo caldo annebbia le capacità di ragionamento, rendendo le persone più esposte a tranelli cognitivi e opere di persuasione più o meno occulta. In queste condizioni, inoltre, le persone agiscono seguendo l’impulso di “scorciatoie mentali” piuttosto che mettendo in pratica un pensiero analitico. Al contrario, le giornate nuvolose, piovose, fredde e uggiose acuiscono la nostra capacità critica e di giudizio. Questo influisce anche anche su una motivazione lavorativa che potrebbe definirsi “fisiologica”: pare che nelle giornate di cattivo tempo le persone siano in media disposte a passare in ufficio circa mezz’ora in più rispetto a quelle di sole.

[ illustrazione: Couple Showering at the Copacabana Beach, Martin Parr – 2007 ]

ARCHITETTURA, LAVORO, TECNOLOGIA, UFFICI

Alle origini dell’open space: il Larkin Building

Il Larkin Administrative Building venne edificato nel 1906 a Buffalo (stato di New York) su progetto di Frank Lloyd Wright (1867-1959). L’edificio – dalla struttura introversa a cinque piani – nacque di fianco alla fabbrica di saponi fondata da John Larkin (1845-1926) per assumerne il ruolo di quartier generale amministrativo, con una particolare focalizzazione sui sistemi di mail-order rispetto ai quali l’azienda rivestì un ruolo pionieristico.

Si trattò di un edificio per molti versi rivoluzionario, completamente a prova di incendio e dotato di un tecnologico impianto di aria condizionata. L’innovazione dell’edificio riguardò anche il suo dichiarato valore simbolico rispetto all’etica del lavoro. Sui parapetti delle sue gallerie erano incisi trittici di parole quali: “generosity altruism sacrifice; integrity loyalty fidelity; imagination judgement initiative; intelligence enthusiasm control; co-operation economy industry”.

L’aspetto più interessante del Larkin Administrative Building, nonché dell’organizzazione del lavoro da esso ospitata, fu l’eliminazione del concetto di stanza privata in favore di un’ottica di “open space” decisamente all’avanguardia. La valenza del progetto messo in atto da Wright fu, ancor prima che architettonica, ideologica. Come nota in proposito Imma Forino nel suo eccellente testo Uffici. Interni arredi oggetti (2011):

«La stanza non ha più senso: cristallizzerebbe le persone in assetti senza via d’uscita, limiterebbe l’autentico scambio, visualizzerebbe con evidenza i rapporti di subordinazione. Se libero, lo sguardo deve invece poter riandare al cielo, sotto la cui comune ala ogni impiegato può sentirsi a proprio agio con il datore di lavoro».

Durante gli anni ’40 l’azienda Larkin subì una progressiva decadenza che portò anche, nel 1950, alla demolizione del proprio edificio amministrativo.

[ illustrazione: esterno e interni del Larkin Administrative Building nel 1906 ]

ARTE, COLLABORAZIONE, COMUNICAZIONE, MUSICA

Musica come metafora di collaborazione

L’opera The Visitors (2012) dell’artista islandese Ragnar Kjartansson – in esposizione a Milano presso Hangar Bicocca da settembre 2013 a gennaio 2014 – mette in atto una preziosa riflessione sulla musica come metafora di collaborazione.

L’opera consiste in un allestimento spaziale di nove proiezioni video in scala 1:1, che mostrano altrettanti musicisti – fra cui lo stesso Kjartansson – suonare per più di un’ora un brano ispirato a una poesia dell’ex moglie dell’artista, che racconta la fine della relazione fra i due. Il brano è semplice e struggente e i nove musicisti lo suonano negli ambienti di una dimora ottocentesca dell’Upstate New York, separati in stanze diverse ma uniti da cuffie tramite l’invisibile filo della traccia sonora. Gli spettatori si muovono in un ampio allestimento circolare che porta a spostarsi di schermo in schermo e dunque da musicista a musicista (nel gruppo anche componenti di Múm e Sigur Rós), sull’onda della partecipazione emotiva ispirata dal brano.

Dal punto di vista della collaborazione musicale messa in scena dall’opera, lo stesso Kjartansson ha parlato in una recente intervista dello spirito necessario a produrre insieme una performance senza di fatto vedersi, partendo dall’essere in stanze separate e dunque basando tutta l’interazione sull’ascolto reciproco:

«Devi essere totalmente concentrato su ciò che stai facendo e al contempo esserlo anche su ciò che stanno facendo gli altri. Si dà luogo alla società perfetta. Quando si fa musica insieme si crea la società migliore».

Questa lezione di democrazia ispirata dalla musica porta con sé un interessante correlato legato al grado di libertà concesso dalla performance: la partitura condivisa dai musicisti non fa uso di note univocamente scritte su di un pentagramma, ma di una mappa visiva con semplici cenni agli accordi che nel percorso del suo svolgimento lascia grande spazio all’interpretazione di ogni musicista.

[ illustrazione: un fotogramma tratto dall’opera The Visitors (still dal video che mostra Ragnar Kjartansson) accostato alla partitura visiva usata dai musicisti ]

CITTÀ, PAROLE, STORIE

L’origine dell’omnibus

“Omnibus” è parola da tempo desueta, sostituita tanto per il trasporto urbano quanto per quello ferroviario da alternative molto più contemporanee (su tutte, l’abbreviazione “bus”). La sua origine resta a ogni modo interessante: se il principale rimando linguistico è al latino (ove l’espressione significa “per tutti”), questa lingua risulta mediata dal francese, poiché l’introduzione dell’omnibus ha luogo all’inizio del secolo XIX in Francia. Qui, per la precisione a Nantes, venne avviato nel 1826 il primo servizio di trasporto pubblico con carrozza a cavalli. Per etichettare questo nuovo servizio il rimando al latino si estende nell’espressione “omnes omnibus”, nella quale la parola “omnes” pare anche essere, curiosamente, un rimando a un cognome. A tal proposito, esistono almeno due diverse versioni della vicenda.

Secondo una variante, il fondatore del primo trasporto pubblico di Nantes sarebbe stato Stanislas Baudry, ex ufficiale dedicatosi alla gestione di bagni pubblici. Il percorso delle carrozze univa i suoi bagni a Place du Commerce, proprio di fronte a un negozio di copricapi gestito da un tal Monsieur Omnès, la cui insegna riportava, giocando con le parole, “Omnès omnibus”.

Una seconda versione semplifica le cose e pone l’accento sulla diversificazione imprenditoriale. In questo caso, il sistema di trasporto pubblico viene attribuito a un mugnaio che, chiedendosi come sfruttare al massimo l’acqua calda prodotta dalle macchine per la farina, decise di fondare dei bagni pubblici e conseguentemente di provvedere a un sistema di trasporto. Si dice che il suo nome fosse François Omnès e che il cartello che indicava la fermata nella piazza principale riportasse, manco a dirlo, la dicitura “Omnès omnibus”.

[ illustrazione: autore ignoto ]