BIGDATA, FOTOGRAFIA, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE, TECNOLOGIA

I limiti della percezione e il ruolo della fotografia

Il curatore americano Marvin Heiferman riflette in un suo articolo sull’irritazione che a volte la fotografia finisce, suo malgrado, per generare. Dagli anni ’70 a oggi, lo status della fotografia come “arte” è stato progressivamente accettato a livello collettivo, non senza reazioni negative. Se è vero che a disturbare molte persone è la sensazione di essere privi di conoscenze e strumenti utili per comprendere la fotografica, ad Heiferman interessa partire da una caratteristica essenziale della fotografia, vale a dire la sua indicalità. La fototografia è catalogabile, fra i diversi tipi di segno, come un indice, vale a dire una traccia che ha un rapporto estremamente diretto e materiale con il suo referente, proprio come accade per un’impronta. La foto-grafia è traccia del reale scritta grazie alla luce, che riproduce su un medium analogico o digitale una enorme quantità di dati e informazioni che spesso facciamo fatica a processare.

Come cita la teoria della “gist of the scene” (essenza della scena) elaborata dalla studiosa cognitiva Aude Oliva, la nostra percezione generale di quel che ci passa davanti agli occhi prende forma in appena 1/20 di secondo. Questa visione di insieme è estremamente schematica e carente dal punto di vista dei dettagli. Citando il classico esempio della percezione della foresta e di un singolo albero, la teoria della “gist of the scene” conferma che siamo naturalmente portati a percepire la forma generale della foresta e non a identificarne singolarmente un albero. È per questo motivo che l’osservazione della fotografia può continuare a metterci in difficoltà; oggi, in tempi di foto “sgranate” fatte con smartphone, quanto all’epoca del celebre gruppo f/64 (la cui cifra stilistica era la massima definizione ottenibile tramite il medium fotografico), il tema resta quello del colpo d’occhio.

[ illustrazione: Tokyo Stock Exchange di Andreas Gursky ]

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COMUNICAZIONE, LETTERATURA, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE

Il realismo come rottura dello stereotipo

Il realismo è l’impossibile (2013) di Walter Siti è un libriccino che parla di realismo narrativo, in letteratura e più in generale nelle arti. Non è da intendersi come opera esclusivamente per addetti ai lavori, in quanto contiene alcune utili riflessioni sul tema delle abitudini cognitive, dell’attenzione al dettaglio e dell’uso di stereotipi.

Quanto al realismo, Siti mostra come la classica metafora dello specchio – mirata a intendere una narrazione come simulacro del reale – sia ingannevole: il realismo è una anti-abitudine, una trasgressione di codici e stereotipi assodati che permette l’emergere di qualcosa che rompe l’usuale (che è poi l’archetipo della finzione). Quindi è bene fare molta attenzione quando si descrive qualcosa usando categorie come “oggettivo” o “normale”.

Il tema dei dettagli e della loro significanza è cruciale per un approccio che potrebbe dirsi “sistemico” alla narrazione (e prima ancora alla percezione). Il dettaglio è sempre inserito in un contesto e il suo rimandare ad altro costruisce una catena di senso che è leggibile a partire da – e con – ogni suo elemento. Un po’ come ribadire che l’interpretazione di un fenomeno non può mai prescindere dallo spazio da cui esso emerge.

Sul tema degli stereotipi, che ovviamente sono acerrimi nemici del realismo, Siti parla di se stesso e confessa di  farvi ricorso nella scrittura in casi di mancata documentazione (su un tema, un contesto sociale o un luogo). Questo accade, per ammissione dello scrittore, per pigrizia o paura. Non può forse dirsi che siano proprio queste le cause dell’adagiarsi su stereotipi anche in qualsiasi altro contesto?

[ illustrazione: fotogramma da Reality (2012) di Matteo Garrone ]

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APPRENDIMENTO, DIVULGAZIONE, METAFORE, RAPPRESENTAZIONE

Il padre dell’infografica

Fritz Kahn (1888-1968), medico, scrittore e studioso tedesco, viene celebrato da un volume che riconosce il suo ruolo pionieristico rispetto alla rappresentazione che chiamiamo “infografica”. La sua importanza è paragonabile a quella del coevo Otto Neurath (1882-1945),  padre del celebre sistema di pittogrammi “Isotype”.

La rilevanza di Kahn va oltre il tema dell’infografica, toccando quello più generale della conoscenza e dell’apprendimento. Con un approccio che suona come un aggiornamento di quello praticato da Vesalio nel XVI secolo, Kahn ha saputo costruire un sistema metaforico coerente in grado di supportare lo studio del corpo umano con rappresentazioni che coinvolgono, invitano a immaginare e a identificare connessioni.

Se l’iconografia rinascimentale impiegata da Vesalio risulta oggi piacevolmente “post-industriale”, quella di Kahn è industriale in tutto e per tutto, con il corpo come luogo di lavoro e ogni singolo organo governato da specifici macchinari e pannelli di controllo cui lavorano minuscoli operatori. In questo modo, processi fisiologici inaccessibili e spesso difficilmente comprensibili diventavano perfettamente intelligibili grazie a una metafora tecnica estremamente familiare per il pubblico cui Kahn si rivolgeva.

[ illustrazione: particolare da Der Mensch als Industriepalast di Fritz Kahn, 1926 ]

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APPRENDIMENTO, ARTE, DIVULGAZIONE, METAFORE, PAROLE, RAPPRESENTAZIONE, SCIENZA

Vesalio e il corpo come metafora

Molto del comune e “figurato” modo di volgersi al corpo umano, per esempio pensando a vene e arterie come a tubature o allo scheletro come alla struttura di un’abitazione, risale a un grande lavoro linguistico compiuto nel XVI secolo dal fiammingo Andrea Vesalio (1514-1564, all’anagrafe Andreas van Wesel).

La sfida che Vesalio decise di affrontare fu quella di riportare su carta – nello specifico, sui manuali dedicati agli studenti di medicina – l’esperienza diretta dell’anatomia che solo in sala chirurgica era possibile vivere. Il principale ostacolo a questo obiettivo era l’astrazione, non solo sotto forma di un uso inadeguato del linguaggio ma anche quanto all’incapacità della rappresentazione a due dimensioni di rendere la ricchezza di movimento e forma implicata dall’esperienza reale.

Con il suo De Humani Corporis Fabrica, pubblicato per la prima volta nel 1543, Vesalio riuscì a far fronte a queste difficoltà, stabilendo al tempo stesso un nuovo standard in grado di superare il suo principale riferimento, cioè il lavoro compiuto dal medico romano Galeno ben tredici secoli prima. Quanto alle illustrazioni, Vesalio si affidò alle splendide incisioni di Jan van Calcar (1499–1546), pittore fiammingo formatosi con Tiziano. Quanto al linguaggio, ricorse alla metafora, usandola come vero e proprio strumento di apprendimento. Riuscì così a parlare agli studenti di medicina in modo nuovo, costruendo un repertorio di analogie che ha a tutti gli effetti rivoluzionato il modo di guardare all’anatomia grazie a un patrimonio di metafore che, come nota un bell’articolo del Public Domain Review, oggi suona molto “post-industriale” e dunque estremamente contemporaneo.

[ illustrazione: particolare da una tavola del De Humani Corporis Fabrica di Andrea Vesalio, 1543 – silografia di Jan van Calcar ]

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