CONCETTI, LAVORO, PAROLE, STORIE

L’origine del boicottaggio

Nella seconda metà del XIX secolo la pressoché totale gestione del territorio agricolo d’Irlanda era nelle mani di una piccola élite (circa il 2% della popolazione) che imponeva a chi lavorava la terra condizioni di lavoro piuttosto restrittive. In reazione a queste circostanze nacque l’Irish National League, i cui princìpi erano rappresentati da tre “F”: “Fair rent, Fixity of tenure, Free Sale”.

Uno dei presupposti dell’Irish National League fu fin dall’inizio quello della resistenza non violenta. Per questo, fra le sue diverse iniziative, nel 1880 l’ente invitò i contadini a rifiutarsi di prestare la loro opera nelle aziende agricole più grandi e insieme più coercitive. Fra queste rientravano i terreni di Lord Enre, localizzati nell’Irlanda occidentale. Loro amministratore era un certo Charles Cunningham Boycott (1832-1897), il quale si trovò a fronteggiare la protesta dei contadini.

Boycott fu oggetto di una vera e propria campagna di ostracismo, cui di fatto parteciparono non solo i lavoratori agricoli ma l’intera popolazione locale, che si rifiutò di interagire (dalle più basiche relazioni sociali a quelle commerciali) con Boycott. Quest’ultimo, a causa dell’inaridimento delle terre di Enre, venne licenziato e fu costretto a trasferirsi a Dublino e in seguito, continuamente perseguitato dall’alone di protesta legato al suo nome, addirittura a lasciare l’Irlanda.

La nefasta fama di Boycott lo accompagnò nei suoi peregrinaggi europei e perfino in terra americana, ove fu costretto a viaggiare sotto falso nome. Ma era ormai troppo tardi: già dal 1888 l’espressione verbale “to boycott”, ormai dotata di valenza simbolica e universale, iniziò a entrare nei dizionari di lingua inglese per poi diffondersi in tutto il mondo.

[ illustrazione: ritratto di Charles Cunningham Boycott ]

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EPISTEMOLOGIA, FOTOGRAFIA, METAFORE, PAROLE, PERCEZIONE, SEGNI

La foto vincitrice del World Press Photo e il rapporto tra testo e immagine

Il 13 febbraio 2014 sono stati annunciati i vincitori del World Press Photo di quest’anno. Il premio “photo of the year” se l’è aggiudicato il fotografo di reportage americano John Stanmeyer con l’immagine qui sopra.

Si tratta di una foto di indubbia e immediata forza compositiva. Più ambigua è la lettura del suo contenuto. A prima vista, sembrerebbe di vedere qui rappresentate persone in procinto di immortalare la luna con i propri telefoni. Secondo questa interpretazione, la foto parrebbe dunque in sintonia con l’ampio coro di chi denuncia l’abuso della documentazione – via smartphone e in tempo reale – di ogni momento della vita. Così intesa, l’immagine richiamerebbe in qualche modo l’ormai celebre foto scattata dal fotografo Michael Sohn in San Pietro in occasione dell’elezione dell’ultimo Pontefice. L’interpretazione, benché plausibile, non è corretta.

Il titolo attribuito all’immagine dal fotografo è Signal. Di quale segnale si parla? Con tutta probabilità di quello dei telefoni cellulari. Questa informazione allarga il contesto, ma non contribuisce né a delegittimare l’ipotesi precedentemente illustrata, né a suggerirne con chiarezza un’altra. Per giungere a una diversa ipotesi c’è bisogno di leggere anche le note di accompagnamento della foto, che svelano che essa è stata scattata sulla costa di Djibouti, comune punto di passaggio per migranti provenienti da diverse nazioni africane e diretti verso l’Europa. Le persone qui raffigurate cercano di catturare il segnale telefonico proveniente dalla Somalia, nella speranza di poter così comunicare con i propri cari.

Il rapporto tra testo e immagine messo in luce da questa foto chiama in causa le categorie semiotiche di denotazione e connotazione. Mentre la comprensione del livello denotativo di un’immagine riguarda il suo significato “letterale”, la lettura di quello connotativo lascia spazio a interpretazioni emotive, metaforiche e simboliche. Pensando proprio al rapporto tra fotografie e didascalie, Roland Barthes introdusse nel suo L’ovvio e l’ottuso (1982) il concetto di “ancoraggio”: il testo si àncora all’immagine, guidando (e spesso forzando) non solo la percezione denotativa, ma anche quella connotativa. La foto di Stanmeyer conferma l’efficacia delle riflessioni di Barthes e offre un nuovo affascinante esempio di foto che conduce a riflettere su come guardiamo e interpretiamo il mondo.

[ illustrazione: John Stanmeyer, Signal, 2013 ]

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METAFORE, PAROLE

L’origine omerica dell’aggettivo “stentoreo”

Quale è l’origine dell’aggettivo “stentoreo”, che usiamo riferire a chi è dotato di una voce particolarmente potente?

Nell’Iliade di Omero compare – per la verità in una sola circostanza – un soldato dalla voce potente quanto quella di una una tromba. Non a caso, in lui si incarna la dea Era/Giunione per esortare i Greci alla battaglia:

«Presa la forma di Stèntore, che voce avea di ferro e pareggiava di cinquanta il grido, Giuno sclamò: Vituperati Argivi, mere apparenze di valor, vergogna!».

È dunque in relazione a questo personaggio epico “minore” che l’aggettivo entra in uso prima nella lingua latina e poi in quella italiana.

[ illustrazione: William Kentridge, schizzo per The Refusal of Time, 2011 ]

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CONCETTI, CREATIVITÀ, DIVULGAZIONE, LETTERATURA, MANAGEMENT, PAROLE, TEORIE

Il declino della “creative class”

Un articolo di Thomas Frank fa il punto sulla “moda” della creatività e dell’innovazione. Fenomeno non esattamente recente, dato che le sue origini possono essere rintracciate nei primi testi dedicati al tema da Edward De Bono negli anni ’70. E tuttavia ancora in gran voga, come testimoniato da recenti exploit mediatici come quelli dei TED Talk o dai libri di autori “guru” della creatività e dell’innovazione, quali Steven Johnson o Jonah Lehrer (entrambi citati da Frank).

L’aspetto più puntuale e al tempo stesso crudo della critica di Frank riguarda l’autoreferenzialità dei sedicenti esperti di creatività, che altro non farebbero se non continuare a citare e ri-citare esempi e casi studio a volte vecchi ormai di trent’anni (su tutti il celeberrimo caso dell’invenzione dei foglietti adesivi Post-it). Ecco dunque il paradosso: lungi dall’aprire nuovi orizzonti, la divulgazione della creatività è quanto di più conservatore, autoindulgente e conformista possa esistere.

Ma Frank si spinge oltre: partendo dal titolo di uno dei testi più famosi della recente – non recentissima, in questo caso – letteratura sulla creatività, cioè The Rise of the Creative Class (2002) di Richard Florida, nota come sia proprio l’uso dell’espressione “classe creativa” a spiegare la diffusione e il successo dell’intero fenomeno della creatività. I sui paladini non sono, come si vorrebbe propagandare, coloro i quali la esercitano quotidianamente in maniera tacita ed efficace; a farsene portabandiera  è piuttosto una certa classe professionale e manageriale che si fa vanto di considerare innovazione e creatività proprio patrimonio intellettuale. La letteratura sul tema si manifesta a conti fatti come un vulgata della superstizione, vale a dire una raccolta di testi autocelebrativi in cui le persone giuste giungono sempre a produrre le invenzioni giuste al momento giusto.

La stringente argomentazione di Frank si conclude con una citazione dal celebre testo Flow (1996) dello psicologo Mihaly Csikszentmihalyi:

«Innovation, that is, exists only when the correctly credentialed hivemind agrees that it does. And without such a response, van Gogh would have remained what he was, a disturbed man who painted strange canvases».

Quel che riconosce e legittima la creatività è esattamente ciò contro cui essa dovrebbe lottare, cioè la rassicurante e conforme approvazione messa in atto dell’audience professional-manageriale che di essa si è appropriata.

[ illustrazione: fotogramma dal film They Live (1988) di John Carpenter ]

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APPRENDIMENTO, ARTE, DIVULGAZIONE, METAFORE, PAROLE, RAPPRESENTAZIONE, SCIENZA

Vesalio e il corpo come metafora

Molto del comune e “figurato” modo di volgersi al corpo umano, per esempio pensando a vene e arterie come a tubature o allo scheletro come alla struttura di un’abitazione, risale a un grande lavoro linguistico compiuto nel XVI secolo dal fiammingo Andrea Vesalio (1514-1564, all’anagrafe Andreas van Wesel).

La sfida che Vesalio decise di affrontare fu quella di riportare su carta – nello specifico, sui manuali dedicati agli studenti di medicina – l’esperienza diretta dell’anatomia che solo in sala chirurgica era possibile vivere. Il principale ostacolo a questo obiettivo era l’astrazione, non solo sotto forma di un uso inadeguato del linguaggio ma anche quanto all’incapacità della rappresentazione a due dimensioni di rendere la ricchezza di movimento e forma implicata dall’esperienza reale.

Con il suo De Humani Corporis Fabrica, pubblicato per la prima volta nel 1543, Vesalio riuscì a far fronte a queste difficoltà, stabilendo al tempo stesso un nuovo standard in grado di superare il suo principale riferimento, cioè il lavoro compiuto dal medico romano Galeno ben tredici secoli prima. Quanto alle illustrazioni, Vesalio si affidò alle splendide incisioni di Jan van Calcar (1499–1546), pittore fiammingo formatosi con Tiziano. Quanto al linguaggio, ricorse alla metafora, usandola come vero e proprio strumento di apprendimento. Riuscì così a parlare agli studenti di medicina in modo nuovo, costruendo un repertorio di analogie che ha a tutti gli effetti rivoluzionato il modo di guardare all’anatomia grazie a un patrimonio di metafore che, come nota un bell’articolo del Public Domain Review, oggi suona molto “post-industriale” e dunque estremamente contemporaneo.

[ illustrazione: particolare da una tavola del De Humani Corporis Fabrica di Andrea Vesalio, 1543 – silografia di Jan van Calcar ]

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CONCETTI, PAROLE

Tornare a bomba

Da cosa deriva la comune espressione “tornare a bomba”? La sua menzione scritta più antica risale al trattato di linguistica del 1570 Ercolano, opera postuma dell’umanista fiorentino Benedetto Varchi (1503-1565):

«Avea cominciato alcun ragionamento; poi entrato in un altro, non si ricordava più di ritornare a bomba, e fornire il primo».

Il modo di dire nasce in epoca rinascimentale in ambiente fiorentino, con riferimento a un antico gioco di ragazzi detto del Pome o Toccapomo. Simile al classico “guardie e ladri”, il gioco prevedeva una sorta di zona franca detta “bom” o “bomba”, usata come punto di partenza e arrivo da chi impersonava la parte del ladro.

Nel corso del tempo il “tornare a bomba” si stacca dalla sua origine ludica – e molto legata a uno spazio fisico – per assumere un significato metaforico incentrato sul ragionamento. Questo percorso conduce l’espressione all’attuale senso di “tornare a un argomento principale in seguito a una divagazione”.

[ illustrazione: particolare di Explosion (1956) di Roy Lichtenstein ]

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CITTÀ, PAROLE, STORIE

L’origine dell’omnibus

“Omnibus” è parola da tempo desueta, sostituita tanto per il trasporto urbano quanto per quello ferroviario da alternative molto più contemporanee (su tutte, l’abbreviazione “bus”). La sua origine resta a ogni modo interessante: se il principale rimando linguistico è al latino (ove l’espressione significa “per tutti”), questa lingua risulta mediata dal francese, poiché l’introduzione dell’omnibus ha luogo all’inizio del secolo XIX in Francia. Qui, per la precisione a Nantes, venne avviato nel 1826 il primo servizio di trasporto pubblico con carrozza a cavalli. Per etichettare questo nuovo servizio il rimando al latino si estende nell’espressione “omnes omnibus”, nella quale la parola “omnes” pare anche essere, curiosamente, un rimando a un cognome. A tal proposito, esistono almeno due diverse versioni della vicenda.

Secondo una variante, il fondatore del primo trasporto pubblico di Nantes sarebbe stato Stanislas Baudry, ex ufficiale dedicatosi alla gestione di bagni pubblici. Il percorso delle carrozze univa i suoi bagni a Place du Commerce, proprio di fronte a un negozio di copricapi gestito da un tal Monsieur Omnès, la cui insegna riportava, giocando con le parole, “Omnès omnibus”.

Una seconda versione semplifica le cose e pone l’accento sulla diversificazione imprenditoriale. In questo caso, il sistema di trasporto pubblico viene attribuito a un mugnaio che, chiedendosi come sfruttare al massimo l’acqua calda prodotta dalle macchine per la farina, decise di fondare dei bagni pubblici e conseguentemente di provvedere a un sistema di trasporto. Si dice che il suo nome fosse François Omnès e che il cartello che indicava la fermata nella piazza principale riportasse, manco a dirlo, la dicitura “Omnès omnibus”.

[ illustrazione: autore ignoto ]

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ANTROPOLOGIA, CONCETTI, LETTERATURA, PAROLE

L’invenzione della nostalgia

Nelle peregrinazioni letterarie del suo affascinante Carte false (2013), la scrittrice messicana Valeria Luiselli ricostruisce, passando attraverso saudade e malinconia, l’origine della parola e del concetto di nostalgia.

Il medico alsaziano Johannes Hofer (1669–1752) condusse nel 1688 uno studio su alcuni soldati che, dopo lunghe permanenze in terra straniera, presentavano al loro ritorno sintomi come mal di testa, insonnia, allucinazioni. Identificò il malanno nella “tristezza ingenerata dall’ardente brama di tornare in patria” e diede al suo resoconto di ricerca il titolo Dissertatio medica de nostalgia, coniando un neologimo tramite la combinazione delle parole greche νόστος (nóstos, ritorno) e άλγος (algòs, dolore). L’invenzione linguistica di Hofner risulta particolarmente felice grazie al rimando all’antica cultura greca, che con l’Odissea di Omero generò lo stereotipo del νόστος e del suo correlato malessere.

Se la storia della nostalgia inizia alla fine del XVII secolo, i suoi più significativi sviluppi hanno luogo nei secoli successi. Nel saggio Ipocondria del cuore: nostalgia, storia e memoria (in Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo, 2003), la studiosa russa Svetlana Boym nota quanto segue:

«La nostalgia come emozione storica raggiunse la maggiore età in epoca romantica ed è contemporanea alla nascita della cultura di massa. Ebbe inizio con l’affermarsi del ricordo dell’inizio del XIX secolo, che trasformò la cultura da salotto degli abitanti delle città e dei proprietari terrieri istruiti in una commemorazione rituale della giovinezza perduta, delle primavere perdute, delle danze perdute, delle occasioni perdute […]. Il malinconico senso di perdita si trasformò in uno stile, una moda di fine Ottocento».

[ illustrazione: Francesco Hayez, Ulisse alla corte di Alcinoo (1813-15), Museo di Capodimonte, Napoli ]

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APPRENDIMENTO, ARTE, CONCETTI, CULTURA, PAROLE

Smart vs dumb?

Kenneth Goldsmith, poeta anti-creativo e fondatore dell’archivio dell’avant-garde UbuWeb (nonché  promotore dell’incredibile progetto crowdsourcing Printing out the Internet), è autore di un saggio on-line dal titolo Being Dumb.

Lo scritto gioca sulla contrapposizione fra “smart” e “dumb”. “Smart” è aggettivo obiettivamente stanco e abusato, ormai esteso a praticamente qualsiasi cosa: dai telefoni alle città; dalle reti elettriche alle scatole regalo. Se applicato alle persone, “Smart” è per Goldsmith sinonimo di una condotta competitiva, faticosa, estenuante e in ultima analisi meccanica:

Smart is a star student, flawlessly dotting i’s and crossing t’s […]. Smart is an over-achieving athlete, accomplishing things that mere mortals can only dream of. Complex and deep, exclusive and elite, smart brims with value. Having sweated for what it’s accomplished, smart pays a handsome dividend to those invested […]. But by playing a high stakes game, smart is always paranoid that it might lose hard-won ground […]. Success or failure, win or lose, smart trades in binaries. Smart is exhausting—and exhausted.

Ben diverso è per Goldsmith l’essere “dumb”, interpretato in maniera tutt’altro che negativa e anzi inteso come sinonimo di riconoscibili capacità creative

Dumb is an ill-prepared slacker, riding on hunches and intuition […]. Caring little for progress or narrative, dumb moves laterally, occasionally spiraling back in on itself […]. Dumb favors re—recontextualization, reframing, redoing, remixing, recycling—rather than having to go through the effort of creating something from scratch.

Giocando con le parole, Goldsmith costruisce alcune combinazioni (“dumb dumb”, “smart smart”, “smart dumb”) e le identifica con personaggi, aziende e istituzioni:

Dumb dumb is rednecks and racists, football hooligans, gum-snapping marketing girls, and thick-necked office boys. Dumb dumb is Microsoft, Disney, and Spielberg.

Smart smart is TED talks, think tanks, NPR news, Ivy League universities, The New Yorker, and expensive five-star restaurants. By trying so hard, smart smart really misses the point.

Smart dumb is The Fugs, punk rock, art schools, Gertrude Stein, Vito Acconci, Marcel Duchamp, Samuel Beckett, Seth Price, Tao Lin, Martin Margiela, Mike Kelley, and Sofia Coppola. Smart dumb plays at being dumb dumb but knows better.

L’essere “smart dumb” è  per Golsmith l’esito più sensato e utile del percorso fra “smartness” e “dumbness”. Ma attenzione, il percorso è lungo:

Dumb is not an inborn condition. You get to dumb after going through smart. Smart is stupid because it stops at smart. Smart is a phase. Dumb is post-smart. Smart is finite, well-trod, formulaic, known. The world runs on smart. It’s clearly not working.

[ illustrazione: Dumb Ways to Die ]

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PAROLE, SCRITTURA, STORIE

Linguaggio e identità

Louis Wolfson, nato a New York nel 1931, è affetto da schizofrenia e fin dalla giovane età rifiuta la lingua materna e pratica un sistema di traduzione simultanea in più lingue che lui stesso ha messo a punto. Da ragazzo, Louis parla col padre in yiddish e in tedesco, mentre cerca di comunicare in russo con la madre. Proprio quest’ultima – il cui accostamento alla lingua “materna” non è casuale – è al centro del testo Le Schizo et les langues, scritto da Wolfson interamente in francese e pubblicato da Gallimard nel 1970.

Il caso di Wolfson ha suscitato l’interesse specialistico degli psicanalisti, ma anche un solido seguito da parte di molti intellettuali francesi, in particolare per la sua scelta di rifiutare la lingua inglese spostandosi verso il francese, “fuga” da molti interpretata come simbolo di resistenza a un’egemonia culturale.

Uno degli aspetti linguisticamente più interessanti della questione – messo a fuoco da un dossier pubblicato dalla rivista on-line Kasparhauser – riguarda l’opposizione alla logica del linguaggio come segno arbitrario. Per Wolfson ogni lingua è cosa a sé e proprio per questo gli è possibile rifiutare l’inglese abbracciando altri idiomi, motivando la scelta in base a specificità di una singola lingua non riducibili a quelle di altre.

Dopo aver soggiornato in Canada, Wolfson vive ora a Porto Rico. Nel corso degli anni ha scritto diversi testi in cui, oltre a continuare il racconto del rapporto con la madre (per esempio in Mia madre, musicista è morta…), spazia fra temi di ogni genere. Fra questi va annoverata anche una forte passione per le scommesse che pare l’abbia reso milionario.

[ illustrazione: elaborazione grafica di un ritratto fotografico di Louis Wolfson ]

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