JAZZ, LETTERATURA, METAFORE, MUSICA, SCRITTURA

Ritratti in jazz: il Murakami che non ti aspetti

Chi conosce Murakami Haruki sa che nei suoi libri sono disseminate tracce di una riconoscibile passione musicale. In particolare, l’amore per il jazz – in maniera simile a quello per il podismo raccontato in L’arte di correre (2007) – ha accompagnato momenti importanti della vita dello scrittore giapponese (che ha anche gestito un jazz club per diversi anni), e questo si coglie leggendo i suoi romanzi, a partire dal “beatlesiano” Norwegian wood (1987).

Recentemente pubblicato in Italia da Einaudi, Ritratti in jazz (2013) costituisce un’ottima introduzione al Murakami jazzofilo. A partire da due serie di illustrazioni di  Makoto Wada, composte da ritratti di musicisti jazz di varie epoche e stili, Murakami si diverte a mettere sul piatto del giradischi un album per ciascuno dei jazzisti ritratti da Makoto, lasciando che sia la musica a guidare il moto della penna sulla carta (o, se si preferisce, il battito delle dita sulla tastiera). Il risultato è un piccolo “manuale del jazz” sui generis, buono tanto per neofiti quanto per ascoltatori esperti, nel quale la dimensione affettiva prevale su qualsiasi pretesa filologica.

Si può ben dire che Murakami, scrivendo di jazz, improvvisi. Le sue note mostrano una passione di lunga data, sorretta da una profonda conoscenza di questo genere musicale. La padronanza dell’argomento gli permette di divagare senza troppe remore, per esempio iniziando a scrivere di un musicista e finendo per tessere le lodi di un altro. Il giornalismo musicale è un mestiere arduo – come non citare, anche in questa occasione, la massima “scrivere di musica è come ballare di architettura? – e Murakami mostra di non avere particolare cura di adeguarsi ai suoi canoni.

Poiché l’approccio è smaccatamente autobiografico, la scrittura può prendersi libertà che a un giornalista non sarebbero concesse. Diventa dunque ancor più piacevole confrontarsi con il ricco lavoro sul tessuto narrativo – e in particolare sull’aggettivazione e le metafore – svolto da Murakami. Nelle sue brevi schede il contrabbasso di Scott LaFaro è “fresco come la primavera e profondo come un bosco”, il suono del pianista Thelonious Monk “sembra scalfire un duro pezzo di ghiaccio”, la voce del sax tenore di Johnny Griffin suona “dura come un nigiri ben compresso”. Ogni pagina di Ritratti in jazz è fresca, coinvolgente e capace di far crescere in chiunque l’amore per quella magnifica musica che risponde al nome di jazz.

[ illustrazione: Thelonious Monk in un disegno di Wada Makoto ]

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CONCETTI, LAVORO, MARKETING, METAFORE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

La nuova ideologia della “mindfulness”

«If Max Weber were alive today, he would definitely write a second, supplementary, volume to his Protestant Ethic, entitled The Taoist Ethic and the Spirit of Global Capitalism».

Così il filosofo sloveno Slavoj Žižek, a proposito dell’ideologia “new age” che guida la classe dirigente del nuovo capitalismo. A citarlo è, in un articolo per «The New Republic», Evgeny Morozov, esperto di new media bielorussso noto per le sue posizioni avverse al “cyber-ottimismo”.

Morozov si collega alle parole di Žižek per costruire un’argomentazione critica nei confronti della moda della “mindfulness”. Che l’espressione sia tanto diffusa quanto oscura è di fronte agli occhi di tutti, tanto che Morozov la descrive come la nuova “sostenibilità” (senza dubbio una delle categorie più abusate dell’ultimo decennio).

Quanto Morozov nota della mindfulness – interpretata soprattutto come volontà di “disconnessione” – è la viziosità del circolo che da ciò che la origina conduce alle sue soluzioni. L’artificialità degli stimoli in relazione ai quali nasce il bisogno di essere “mindful” corrisponderebbe fin troppo bene all’artificiosità delle risposte messe in atto da chi se ne professa seguace. Non a caso, tanto stimoli quanto risposte hanno origine dallo stesso substrato culturale, cioè quello di Silicon Valley (di qui il rimando a Weber, tramite Žižek). Soprattutto, la nota più debole del movimento della mindfulness sarebbe – secondo Morozov – l’incapacità di superare un approccio individuale “reazionario” per costruire una più autentica emancipazione su base collettiva.

[ illustrazione: uffici di Google a Tel Aviv ]

 

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ARCHITETTURA, BENI CULTURALI, CITTÀ, CULTURA, LETTERATURA, METAFORE

La Sicilia di Vittorini, simbolo di bellezza civile

Pubblicato postumo da Einaudi nel 1969, Le città del Mondo è l’ultimo scritto di Elio Vittorini (1908-1966). Frutto di una stesura frammentaria che si rispecchia nella forma in cui è stato successivamente edito, il romanzo costruisce – come ebbe a definirla Leonardo Sciascia – una “carta della Sicilia da completare a memoria”. Al preciso tratteggio del riferimento toponomastico si sovrappongono in stretto intreccio le vicende di personaggi così rarefatti da diventare simbolici, conferendo all’opera un senso “mitico” che ne rappresenta la principale fonte di interesse e fascino.

Come notato dallo studioso di urbanistica Giancarlo Consonni nel suo La bellezza civile (2013), Vittorini scrive negli anni in cui in Italia si vede sorgere un particolare interesse per il patrimonio artistico e per i centri storici. Come riferimento di contesto, è utile ricordare che la “Commissione Franceschini” per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio operò fra il 1964 e il 1967.

Il percorso attraverso le città della Sicilia compiuto dai personaggi del libro diventa dunque paradigma di un’attenzione, nuova e insieme antica, al rapporto fra bellezza di un luogo e felicità dei suoi abitanti. Risulta a questo proposito splendido uno dei dialoghi fra i pastori protagonisti del libro:

«Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha, ed è bella gente. Tu lo dici ogni volta che entriamo a Nicosia. Ma che bella gente! È lo stesso ogni volta che entriamo a Enna. Ma che bella gente! Lo stesso ogni volta che entriamo a Ragusa. Ma che bella gente! E se incontriamo un uomo vecchio tu dici ma che bel vecchio. Se incontriamo una donna giovane tu ti volti e dici ma che bella giovane. Vorresti negarlo? Tu dici che dev’essere per l’aria buona, ma più la città è bella e più la gente è bella come se l’aria vi fosse più buona».

[ illustrazione: Ferdinando Scianna, Capizzi, 1982 ]

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EPISTEMOLOGIA, FOTOGRAFIA, METAFORE, PAROLE, PERCEZIONE, SEGNI

La foto vincitrice del World Press Photo e il rapporto tra testo e immagine

Il 13 febbraio 2014 sono stati annunciati i vincitori del World Press Photo di quest’anno. Il premio “photo of the year” se l’è aggiudicato il fotografo di reportage americano John Stanmeyer con l’immagine qui sopra.

Si tratta di una foto di indubbia e immediata forza compositiva. Più ambigua è la lettura del suo contenuto. A prima vista, sembrerebbe di vedere qui rappresentate persone in procinto di immortalare la luna con i propri telefoni. Secondo questa interpretazione, la foto parrebbe dunque in sintonia con l’ampio coro di chi denuncia l’abuso della documentazione – via smartphone e in tempo reale – di ogni momento della vita. Così intesa, l’immagine richiamerebbe in qualche modo l’ormai celebre foto scattata dal fotografo Michael Sohn in San Pietro in occasione dell’elezione dell’ultimo Pontefice. L’interpretazione, benché plausibile, non è corretta.

Il titolo attribuito all’immagine dal fotografo è Signal. Di quale segnale si parla? Con tutta probabilità di quello dei telefoni cellulari. Questa informazione allarga il contesto, ma non contribuisce né a delegittimare l’ipotesi precedentemente illustrata, né a suggerirne con chiarezza un’altra. Per giungere a una diversa ipotesi c’è bisogno di leggere anche le note di accompagnamento della foto, che svelano che essa è stata scattata sulla costa di Djibouti, comune punto di passaggio per migranti provenienti da diverse nazioni africane e diretti verso l’Europa. Le persone qui raffigurate cercano di catturare il segnale telefonico proveniente dalla Somalia, nella speranza di poter così comunicare con i propri cari.

Il rapporto tra testo e immagine messo in luce da questa foto chiama in causa le categorie semiotiche di denotazione e connotazione. Mentre la comprensione del livello denotativo di un’immagine riguarda il suo significato “letterale”, la lettura di quello connotativo lascia spazio a interpretazioni emotive, metaforiche e simboliche. Pensando proprio al rapporto tra fotografie e didascalie, Roland Barthes introdusse nel suo L’ovvio e l’ottuso (1982) il concetto di “ancoraggio”: il testo si àncora all’immagine, guidando (e spesso forzando) non solo la percezione denotativa, ma anche quella connotativa. La foto di Stanmeyer conferma l’efficacia delle riflessioni di Barthes e offre un nuovo affascinante esempio di foto che conduce a riflettere su come guardiamo e interpretiamo il mondo.

[ illustrazione: John Stanmeyer, Signal, 2013 ]

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METAFORE, PAROLE

L’origine omerica dell’aggettivo “stentoreo”

Quale è l’origine dell’aggettivo “stentoreo”, che usiamo riferire a chi è dotato di una voce particolarmente potente?

Nell’Iliade di Omero compare – per la verità in una sola circostanza – un soldato dalla voce potente quanto quella di una una tromba. Non a caso, in lui si incarna la dea Era/Giunione per esortare i Greci alla battaglia:

«Presa la forma di Stèntore, che voce avea di ferro e pareggiava di cinquanta il grido, Giuno sclamò: Vituperati Argivi, mere apparenze di valor, vergogna!».

È dunque in relazione a questo personaggio epico “minore” che l’aggettivo entra in uso prima nella lingua latina e poi in quella italiana.

[ illustrazione: William Kentridge, schizzo per The Refusal of Time, 2011 ]

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METAFORE, PERCEZIONE, STORIE

Titanic e Olympic: la forza simbolica degli eventi tragici

La storia del transatlantico britannico Titanic, varato il 10 aprile 1912 e affondato il successivo 15 aprile, è nota a tutti, se non altro grazie ai molti film che ne hanno parlato (quello del 1997 di James Cameron non è infatti l’unico). Meno noto è che il Titanic aveva due navi gemelle, il Britannic e l’Olympic.

Il Britannic venne messo in uso nel 1914 e dopo l’inizio della Prima guerra mondiale e fu utilizzato come nave ospedale fine al 1916, quando venne affondato nel Mar Egeo da una mina navale tedesca.

L’Olympic fu la prima delle tre navi a entrare in servizio, nel 1911. Subì immediatamente uno stop, dovuto a un incidente con l’incrociatore Hawke. Quest’ultimo rimase distrutto, mentre l’Olympic tornò in cantiere per riparazioni trovandosi per qualche tempo di fianco al Titanic, ancora in fasi di ultimazione. In breve la nave fu di nuovo in mare e venne utilizzata per trasporto passeggeri fino all’inizio del conflitto bellico, quando venne messa al servizio dell’esercito inglese e adibita al trasporto truppe. Tornò al trasporto passeggeri nel 1920 per rimanere attiva fino al 1934, anno in cui ebbe un incidente con la nave americana Nantucket, per il cui equipaggio l’evento fu fatale. In questo stesso anno la nave intraprese il suo ultimo viaggio, verso New York. Venne in seguito spogliata dei suoi ricchi arredi interni e infine demolita.

La storia di queste tre navi gemelle è un monito nei confronti della parzialità delle nostre memorie e del ruolo simbolico che affidiamo agli eventi. Il fatto che nel corso del tempo la tragica storia del Titanic abbia alimentato la nostra fantasia (filmica e più in generale metaforica) molto più di quella di successo dell’Olympic, di fatto sopravvissuto a ben due incidenti, dovrebbe dare da pensare.

[ illustrazione: l’Olympic fotografato nel 1911 in arrivo a New York ]

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DIVULGAZIONE, FOTOGRAFIA, METAFORE, SEGNI, STORIE

L’ultima foto di Lincoln e il valore culturale degli artefatti

Il cineasta e studioso di fotografia Errol Morris ha recentemente redatto un saggio in più “puntate” per il New York Times. Oggetto della sua indagine è una foto di Abramo Lincoln nota come “the cracked one”. La foto è particolarmente celebre per due motivi: 1) la si ritiene l’ultima immagine di Lincoln prima della morte; 2) il frammento spezzato nella parte alta della foto, la cui linea di rottura coincide con la sommità del capo del sedicesimo presidente americano, ha assunto un ruolo metaforico rispetto alla sua morte di quest’ultimo. Queste due caratteristiche sono così radicate nell’opinione comune che nel 2005 Barack Obama, allora senatore dell’Illinois, volle proprio questa foto per un suo articolo dedicato a Lincoln.

A partire dalla fama e dal ruolo simbolico di questa immagine Errol Morris si cimenta, con un piglio indagatore che ha largamente praticato nel suo eccellente testo Believing Is Seeing: Observations on the Mysteries of Photography (2011), nella ricerca delle origini della foto, che comunemente si ritiene scattata dal fotografo Alexander Gardner il 10 aprile 1865, cioè cinque giorni prima dell’uccisione di Lincoln. Quel che Morris riesce a scoprire, giovandosi di un’indagine legata a storici e collezionisti, è che in realtà questa data non è corretta ma frutto di un’attribuzione più o meno fortunosa. In realtà Lincoln si recò nello studio del fotografo Gardner il 5 febbraio del 1865, quindi circa due mesi prima. Tutto ciò fa sì che l’ultima immagine di Lincoln sia in realtà un’altra, cioè quella scattata dal fotografo Henry Warren il 6 marzo 1865.

Morris è in grado, con un affascinante lavoro di ricerca che prende le mosse da un’immagine (e che vale la pena di leggere in originale), di farci riflettere sulle modalità con cui diamo valore ad artefatti. Tutto il significato della foto del 5 febbraio di Gardner va attribuito al valore simbolico che essa ha acquisito. Le circostanze in cui è stata scattata sono quindi del tutto secondarie rispetto ai processi culturali di cui è stata ed è tramite.

[ illustrazione: ritratto di Abraham Lincoln realizzato da Alexander Gardner il 5 Febbraio 1865 ]

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APPRENDIMENTO, DIVULGAZIONE, METAFORE, RAPPRESENTAZIONE

Il padre dell’infografica

Fritz Kahn (1888-1968), medico, scrittore e studioso tedesco, viene celebrato da un volume che riconosce il suo ruolo pionieristico rispetto alla rappresentazione che chiamiamo “infografica”. La sua importanza è paragonabile a quella del coevo Otto Neurath (1882-1945),  padre del celebre sistema di pittogrammi “Isotype”.

La rilevanza di Kahn va oltre il tema dell’infografica, toccando quello più generale della conoscenza e dell’apprendimento. Con un approccio che suona come un aggiornamento di quello praticato da Vesalio nel XVI secolo, Kahn ha saputo costruire un sistema metaforico coerente in grado di supportare lo studio del corpo umano con rappresentazioni che coinvolgono, invitano a immaginare e a identificare connessioni.

Se l’iconografia rinascimentale impiegata da Vesalio risulta oggi piacevolmente “post-industriale”, quella di Kahn è industriale in tutto e per tutto, con il corpo come luogo di lavoro e ogni singolo organo governato da specifici macchinari e pannelli di controllo cui lavorano minuscoli operatori. In questo modo, processi fisiologici inaccessibili e spesso difficilmente comprensibili diventavano perfettamente intelligibili grazie a una metafora tecnica estremamente familiare per il pubblico cui Kahn si rivolgeva.

[ illustrazione: particolare da Der Mensch als Industriepalast di Fritz Kahn, 1926 ]

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APPRENDIMENTO, ARTE, DIVULGAZIONE, METAFORE, PAROLE, RAPPRESENTAZIONE, SCIENZA

Vesalio e il corpo come metafora

Molto del comune e “figurato” modo di volgersi al corpo umano, per esempio pensando a vene e arterie come a tubature o allo scheletro come alla struttura di un’abitazione, risale a un grande lavoro linguistico compiuto nel XVI secolo dal fiammingo Andrea Vesalio (1514-1564, all’anagrafe Andreas van Wesel).

La sfida che Vesalio decise di affrontare fu quella di riportare su carta – nello specifico, sui manuali dedicati agli studenti di medicina – l’esperienza diretta dell’anatomia che solo in sala chirurgica era possibile vivere. Il principale ostacolo a questo obiettivo era l’astrazione, non solo sotto forma di un uso inadeguato del linguaggio ma anche quanto all’incapacità della rappresentazione a due dimensioni di rendere la ricchezza di movimento e forma implicata dall’esperienza reale.

Con il suo De Humani Corporis Fabrica, pubblicato per la prima volta nel 1543, Vesalio riuscì a far fronte a queste difficoltà, stabilendo al tempo stesso un nuovo standard in grado di superare il suo principale riferimento, cioè il lavoro compiuto dal medico romano Galeno ben tredici secoli prima. Quanto alle illustrazioni, Vesalio si affidò alle splendide incisioni di Jan van Calcar (1499–1546), pittore fiammingo formatosi con Tiziano. Quanto al linguaggio, ricorse alla metafora, usandola come vero e proprio strumento di apprendimento. Riuscì così a parlare agli studenti di medicina in modo nuovo, costruendo un repertorio di analogie che ha a tutti gli effetti rivoluzionato il modo di guardare all’anatomia grazie a un patrimonio di metafore che, come nota un bell’articolo del Public Domain Review, oggi suona molto “post-industriale” e dunque estremamente contemporaneo.

[ illustrazione: particolare da una tavola del De Humani Corporis Fabrica di Andrea Vesalio, 1543 – silografia di Jan van Calcar ]

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