CAMBIAMENTO, CITTÀ, CULTURA, ECONOMIA, LAVORO, LETTERATURA, LIBRI, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TEMPO

Da Kansas City a Milano: Bianciardi, Parise e il cambiamento culturale

«Non siamo in America, dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato, e dove il paesaggio e la realtà giornaliera coincidono perfettamente con la cultura americana».

«Essendo il nostro paese molto vecchio permangono in molti suoi abitanti e nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso che rende uguale ogni apparenza, alcuni frammenti di “cultura umanistica”: cioè autoctona, locale […]. Essi sono scomparsi completamente nella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande, specialmente al Nord […], malata di una malattia americana: il pragmatismo».

Così scriveva Goffredo Parise (1929-1986) tra il luglio e l’agosto del 1974, in due articoli pubblicati su una rubrica di corrispondenza con i lettori da lui curata per il «Corriere della Sera» in quegli anni (di cui oggi viene presentata una piccola selezione in Dobbiamo disobbedire, 2013). Qui il tema è quello delle origini culturali e della loro cancellazione da parte del pensiero funzionalista diffuso dalla cultura lavorativa di stampo americano. Dalle parole di Parise emerge il riconoscimento di una cultura “umanistica”, retaggio di un passato agricolo, popolare paesano e cattolico, e insieme la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla sua scomparsa, causata da quella che, in altri articoli tratti dalla sua rubrica, egli chiama con ineluttabile semplicità la “forza delle cose”.

Il frammento tratto da Parise ne evoca un altro di Luciano Bianciardi (1922-1971), estratto da Il lavoro culturale (1957-1964):

«Kansas City, Kansas City è la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovi».

Kansas City è per Bianciardi la sua Grosseto, percepita dai più giovani – di cui lo scrittore si sente parte – come senza origini, nonostante ci fossero ancora molti accapigliati a cercarle, per esempio indagando la storia degli Etruschi. Per Bianciardi il dialogo è fra Grosseto/Kansas City e Milano, città che rappresenta “il lavoro culturale” e in cui si trova incarnata, tanto nella sostanza quanto nella forma del “linguaggio aziendale”, l’ideologia pragmatista di stampo americano di cui parlerà poi anche Parise. Non a caso, Bianciardi si trasferirà proprio a Milano in cerca di lavoro e riconsidererà con amarezza la sua Kansas City.

Questi due frammenti, scritti in anni diversi da autori coevi, fotografano lo sforzo dell’intellettuale nel dar conto di un momento che, per il nostro Paese, è stato di effettiva svolta e di forzato scontro culturale. Le parole di Bianciardi e Parise testimoniano un cambiamento il cui destino è forse solo oggi possibile vedere nel pieno sviluppo delle sue conseguenze.

[ illustrazione: articolo di «Epoca» del 29 aprile 1962 ]

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ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, MANAGEMENT

L’Arsenale di Venezia, culla industriale e manageriale

L’Arsenale di Venezia, oggi familiare soprattutto per gli spazi espositivi che presta alla Biennale, era nel Cinquecento un complesso industriale che dava lavoro fino a 5000 persone. Come nota lo studioso di management Giorgio Brunetti in Artigiani, visionari e manager. Dai mercanti veneziani alla crisi finanziaria (2012), l’Arsenale può essere definito come il primo grande insediamento industriale occidentale dell’età moderna.

La produzione delle galere, pur senza mai giungere a una vera standardizzazione – e dunque continuando ad aderire a un’impostazione artigianale – , offrì occasione per sperimentare diverse modalità di lavoro, organizzazione e rendicontazione. Analizzando i libri contabili del lavoro navale è possibile rinvenirvi una suddivisione per attività e fasi di produzione che racchiude un in sé una prima messa a punto del concetto di costo di produzione.

Quanto alla prospettiva gestionale, i resoconti legati alle problematiche quotidiane del lavoro in Arsenale non affrontavano solamente tematiche pratiche. Giungevano anche a discutere di strutture organizzative, relazioni fra capi e subordinati, disciplina dei rapporti del lavoro. L’attenzione per questi temi mostra che Venezia era fin dal Cinquecento all’avanguardia rispetto ai temi del “maneggio”, destinati a essere codificati anche in Italia come “manageriali” (ma a non prima di quatto secoli di distanza).

[ illustrazione: proiezione iconografica dell’Arsenale di Venezia realizzata da Gian Maria Maffioletti, 1797 – particolare ]

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BIGDATA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

La tecnologia ucciderà la middle class?

In Average Is over: Powering America Beyond the Age of the Great Stagnation (2013) l’economista americano Tyler Cowen immagina una feroce polarizzazione della società, causata dall’influenza delle nuove tecnologie sulle attività lavorative. Il mondo verrà a trovarsi diviso, secondo Cowen, tra coloro il cui lavoro sarà reso obsoleto dalla tecnologia e chi invece riuscirà a sopravviverle. Ricollegandosi idealmente ad alcune delle tesi contenute in La fine del lavoro di Jeremy Rifkin (1995), Cowen immagina una middle class largamente composta da “bohémien” che saranno sempre meglio istruiti, soprattutto grazie a risorse on-line  gratuite, ma si accontenteranno di salari medio-bassi.

Fra gli altri temi trattati nel testo, Cowen riflette anche sul concetto di meritocrazia. Il monitoraggio del lavoro e la sua visibilità on-line permetteranno, secondo l’autore americano, un controllo trasparente sulla produttività di ogni lavoratore e dunque l’opportunità per le aziende – e in generale per il sistema economico – di premiare chi merita di esserlo (e viceversa).

[ illustrazione: Futurama di Matt Groening ]

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CONCETTI, CREATIVITÀ, MANAGEMENT, PERCEZIONE

La creatività va all’università

“Creatività” è categoria aziendale per eccellenza, come ben dimostrato dal fatto che su Linkedin essa risulta la “buzzword” più in voga nei résumé di migliaia di persone. Sono state le aziende ad appropriarsi – ormai molti anni fa – di questo concetto e sono proprio le aziende a continuare a richiedere formazione orientata alla creatività, alimentando un mercato le cui principali beneficiarie sono state fino a oggi le società di consulenza. Ma le cose stanno cambiando, forse proprio in relazione ai résumé sopra citati.

In America i corsi universitari sulla creatività stanno spuntando come funghi. Dalla State University of New York alla Saybrook di San Francisco; dalla St. Andrews di Laurinburg alla Drexel di Philadelphia: questi i nomi delle prime istituzioni statunitensi che hanno attivato master o dottorati dedicati al tema. Di certo non tarderanno ad aggiungersene altre e c’è da immaginare che la moda possa in breve diffondersi anche in Europa.

È difficile valutare le conseguenze di questa novità. Dal punto di vista accademico, essa farà certo gola a molte università, pronte a far cassa grazie a nuovi corsi molto “vendibili” (un po’ come successo nei primi anni 2000 con la moda dei corsi interfacoltà dedicati al management della cultura). D’altro canto, provocherà reazioni contrariate da parte dei docenti meno inclini a fare i conti con una categoria davvero un po’ troppo aziendale. Per quanto riguarda l’aspetto divulgativo del concetto, si può forse sperare che veicolare l’idea secondo cui la creatività “si insegna” (e dunque si impara) contribuisca a indebolire l’alone esoterico che da sempre la accompagna, ma questo sarà da valutare nel corso del tempo.

Certo è che trent’anni circa di ossessione aziendale per la creatività hanno reso questo concetto materia da curriculum vitae al pari dei cliché sul “lavoro di gruppo / orientamento ai risultati”. Il fatto che uno studente sia oggi disposto a investire sulla promessa dell’acquisizione di una competenza che risponde al nome di creatività è probabilmente frutto di questa efficace opera di propaganda.

[ illustrazione: particolare dalla locandina del film Altered States di Ken Russell, 1980 ]

 

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LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ

I danni della razionalizzazione lavorativa secondo Kracauer

Gli impiegati, scritto da Sigfried Kracauer nel 1930, è un piccolo saggio dedicato al tema dell’organizzazione del lavoro. Focalizzato sulla situazione tedesca e in particolare sull’ambiente lavorativo di Berlino negli anni ’20, tratta la condizione del lavoratore in modo estremamente preveggente, anticipando considerazioni che per esempio in Italia – ma anche in America – non sarebbero emerse che negli anni ’50 e ’60.

Una delle osservazioni più puntuali e contemporanee contenute nel libro riguarda l’impatto organizzativo dei processi di razionalizzazione:

«La qualità si è rovesciata nella quantità. Causa di questo rovesciamento è la razionalizzazione di cui tanto si parla. Da quando esiste il capitalismo all’interno dei suoi confini c’è sempre stata razionalizzazione, ma il periodo della razionalizzazione dal 1925 al 1928 rappresenta una fase particolarmente importante».

Curioso come una procedura di ingegnerizzazione del lavoro che alla fine degli anni ’20 coincideva con la meccanizzazione del lavoro suoni tanto vicina – in termini di impatto distruttivo delle pratiche di razionalizzazione sulla qualità del lavoro – alle strategie di “efficientamento” condotte negli ultimi decenni e di cui le aziende scontano oggi le conseguenze.

[ illustrazione: foto di scena da Fantozzi di Luciano Salce, 1975 ]

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APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA, STORIE

Beatles e Duke Ellington fra managerialità e collaborazione

Un recente articolo di Adam Gopnik raffronta due casi musicali raramente giustapposti, quelli di Duke Ellington e dei Beatles. Principale oggetto del confronto è la relazione con la creatività musicale – personale e altrui – messa in atto da musicisti così diversi.

Quel che anzitutto colpisce è la “mediocre” perizia tecnica che i due casi hanno in comune: Ellington era un pianista poco più che discreto e i Beatles non erano certo grandi strumentisti. Ciononostante, entrambi furono in grado di costruire qualcosa di unico sviluppando in massima misura un’importante competenza musicale, quella dell’orecchio. Competenza che qui si può provare a leggere anche in chiave manageriale.

Ellington esercitò orecchio nei confronti dei tanti musicisti di talento di cui seppe circondarsi, spesso reali autori di molti dei successi registrati a suo nome, come Take the A Train o Caravan. Alcune voci hanno addirittura tacciato Ellington di sfruttamento nei confronti di questi musicisti, ma resta indubbio il fatto che senza le sue capacità di visione e gestione, idee altrui indubbiamente assai brillanti sarebbero rimaste semplicemente tali senza mai concretizzarsi. Fare attenzione a questo, come nota Gopnik, dovrebbe metterci in guardia contro la classica tentazione “romantica” del dar più valore alle idee che al lavoro che le realizza.

Quanto ai Beatles, l’orecchio si mostrò anzitutto nel loro riuscire sempre, anche a fronte delle abilità musicali non eccelse di cui si è detto, a cantare perfettamente in tono, cosa non scontata e in ogni caso decisamente legata alla competenza dell’ascolto. In termini di relazione con idee altrui, i Beatles furono grandissimi divulgatori e interpreti di quanto di musicale erano in grado di raccogliere intorno a loro. L’eclettismo che che caratterizzò i successi della parte finale della loro carriera venne fondato ai loro esordi grazie all’abilità di risultare credibili mescolando “ingredienti” presi tanto da Chuck Berry quanto da Roy Orbison e molti altri. Anche in questo caso, una capacità manageriale di relazione e contestualizzazione mostra di essere ben più importante di un non ben qualificato “talento”.

[ illustrazione: foto dei Beatles agli esordi ]

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COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CONCETTI, LAVORO, MANAGEMENT, TEORIE

Ma che cos’è davvero la holacracy?

Un articolo di Steve Denning per Forbes mette in atto un’utile chiarificazione di alcuni aspetti centrali della logica organizzativa holacracy, recentemente salita alla ribalta delle cronache internazionali per via della sua adozione da parte dell’azienda americana Zappos. Le osservazioni contenute nell’articolo si basano su un’analisi della corposa”constitution” dell’approccio.

Il primo aspetto su cui Denning si sofferma è la supposta avversione alle gerarchie che molti articoli hanno attribuito alla logica holacracy. In realtà, ogni gruppo di lavoro – definito “circolo” è sì dotato di autonomia gestionale, ma strettamente dipendente quanto all’assegnazione di obiettivi dal circolo gerarchicamente superiore. In termini di lavoro per obiettivi, questo approccio non si distanzia dunque da quanto praticato da altri approcci organizzativi.

Un ulteriore “mito” su olacracy sfatato da Denning riguarda la dichiarata assenza di figure manageriali. Qui la questione è in verità molto semplice: se pur a fronte della dismissione del termine “manager”, il sistema prevede la presenza di ruoli e responsabilità altrove tipicamente etichettati in questo modo. Si tratterebbe quindi solo di una questione terminologica ed “estetica”.

Dalla lettura critica di Denning emerge un importante aspetto finora non messo in luce da altri commentatori, cioè il ruolo di secondo piano attribuito dalla holacracy alla figura del cliente. In questo senso, holacracy si mostra come una filosofia organizzativa molto autoriferita e priva di reali meccanismi di feedback con il cliente. Questo costituisce, secondo Denning, un aspetto decisamente critico soprattutto per le startup e limiterebbe quindi un efficace impiego della holacracy a imprese già solide rispetto al rapporto con i propri clienti (il caso di Zappos rientrerebbe secondo Denning in quest’ultima categoria).

[ illustrazione: Alexander Calder, Les Pyramides Grandes, 1973 ]

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COLLABORAZIONE, COMPLESSITÀ, CONCETTI, LAVORO, MANAGEMENT, TEORIE

Zappos dice addio alla gerarchia grazie alla holacracy

È recente notizia l’ingresso di Zappos (impresa americana parte del gruppo Amazon e leader nell’e-commerce di calzature) nel novero delle aziende aderenti alla filosofia organizzativa della “holacracy”. Questo termine si ispira ai concetti di “olone” e “olarchia” elaborati da Arthur Koestler (1905-1983) nel testo Ghost in the Machine (1967): un olone rappresenta, all’interno di un sistema complesso, un elemento individuale relazionato a una moltitudine di altre entità. In termini di governance aziendale, la holacracy intende rifarsi a questo approccio sistemico dando vita a una struttura organizzativa in cui autorità e decisioni non sono emanazione di una scala gerarchica ma si sviluppano in maniera flessibile a partire da una rete di relazioni aperta.

Questo approccio organizzativo – vicino alle logiche agile e lean – è nato nel 2007 grazie alla sperimentazione condotta su una piccola startup di software, il cui fondatore Brian Robertson ha in seguito dato vita all’attività consulenziale oggi conosciuta sotto il nome di Holacracy. Secondo il parere di Robertson, il principale problema delle organizzazioni divisionali sarebbe legato al prevalere dei meccanismi di potere a scapito della concentrazione sul reale contenuto del lavoro. Per questo motivo, la holacracy mette al centro i ruoli e annulla il potere gerarchico delle posizioni (processo attualmente in corso in Zappos). In questo modo il sistema promette di gestire le attività secondo una “naturale” acquisizione di compiti e task che prende le mosse dall’organizzazione autonoma di “circoli” in grado di programmare, organizzare e valutare autonomamente il proprio lavoro.

[ illustrazione: Alexander Calder, Black Pyramids, 1970 ]

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CONCETTI, CREATIVITÀ, MANAGEMENT

La creatività come slogan

Uno dei più lucidi contributi sul tema della creatività individuale e organizzativa è rappresentato da un testo dal titolo Why No One really Wants Creativity a firma del docente di leadership e comunicazione di Berkeley Barry Staw e pubblicato in Creative Action in Organizations, volume collettivo del 1996.

Un primo aspetto esaminato da Staw è la tendenza celebrativa ed “eroicizzante” con cui mediamente ci si confronta con il riconoscimento della creatività altrui. In breve: siamo tutti molto propensi a magnificare ex post le gesta di creativi di successo; altro discorso è confrontarsi con le loro idee nel momento in cui vengono proposte e appaiono azzardate e destabilizzanti.

Sul tema dei tratti tipici di una condotta creativa, riconoscibili secondo Staw in assunzione di rischi, tenacia, flessibilità e duro impegno, il problema fondamentale è che pochissime persone risultano disposte a praticarli, il che genera un gran numero di “creativi a parole” che si fermano di fronte alla prima difficoltà o comunque prediligono una condotta da “satisficer”.

Organizzativamente parlando, la questione diventa più complessa, poiché le aziende sono organismi fondamentalmente basati su una cultura omologante che stigmatizza i comportamenti ritenuti devianti. Nonostante quello della creatività sia uno slogan organizzativo fra i più usati (e a ben vedere abusati), a conti fatti le aziende sono mediamente portate a rigettare le condotte percepite come disobbedienti, cioè quelle che guardano in modo critico alla catena di controllo e mettono in discussione lo status quo. È esattamente per questo motivo che le aziende disposte a ospitare creatività, soprattutto se generata “dal basso”, sono veramente un’eccezione. Il resto, per seguire le parole di Staw, è ipocrisia.

[ illustrazione: particolare dalla foto Watching Bwana Devil in 3D at the Paramount Theater di J. R. Eyerman, 1952 ]

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CONCETTI, CREATIVITÀ, DIVULGAZIONE, LETTERATURA, MANAGEMENT, PAROLE, TEORIE

Il declino della “creative class”

Un articolo di Thomas Frank fa il punto sulla “moda” della creatività e dell’innovazione. Fenomeno non esattamente recente, dato che le sue origini possono essere rintracciate nei primi testi dedicati al tema da Edward De Bono negli anni ’70. E tuttavia ancora in gran voga, come testimoniato da recenti exploit mediatici come quelli dei TED Talk o dai libri di autori “guru” della creatività e dell’innovazione, quali Steven Johnson o Jonah Lehrer (entrambi citati da Frank).

L’aspetto più puntuale e al tempo stesso crudo della critica di Frank riguarda l’autoreferenzialità dei sedicenti esperti di creatività, che altro non farebbero se non continuare a citare e ri-citare esempi e casi studio a volte vecchi ormai di trent’anni (su tutti il celeberrimo caso dell’invenzione dei foglietti adesivi Post-it). Ecco dunque il paradosso: lungi dall’aprire nuovi orizzonti, la divulgazione della creatività è quanto di più conservatore, autoindulgente e conformista possa esistere.

Ma Frank si spinge oltre: partendo dal titolo di uno dei testi più famosi della recente – non recentissima, in questo caso – letteratura sulla creatività, cioè The Rise of the Creative Class (2002) di Richard Florida, nota come sia proprio l’uso dell’espressione “classe creativa” a spiegare la diffusione e il successo dell’intero fenomeno della creatività. I sui paladini non sono, come si vorrebbe propagandare, coloro i quali la esercitano quotidianamente in maniera tacita ed efficace; a farsene portabandiera  è piuttosto una certa classe professionale e manageriale che si fa vanto di considerare innovazione e creatività proprio patrimonio intellettuale. La letteratura sul tema si manifesta a conti fatti come un vulgata della superstizione, vale a dire una raccolta di testi autocelebrativi in cui le persone giuste giungono sempre a produrre le invenzioni giuste al momento giusto.

La stringente argomentazione di Frank si conclude con una citazione dal celebre testo Flow (1996) dello psicologo Mihaly Csikszentmihalyi:

«Innovation, that is, exists only when the correctly credentialed hivemind agrees that it does. And without such a response, van Gogh would have remained what he was, a disturbed man who painted strange canvases».

Quel che riconosce e legittima la creatività è esattamente ciò contro cui essa dovrebbe lottare, cioè la rassicurante e conforme approvazione messa in atto dell’audience professional-manageriale che di essa si è appropriata.

[ illustrazione: fotogramma dal film They Live (1988) di John Carpenter ]

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