APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, FILOSOFIA, LAVORO, PERCEZIONE

Fallimento e consapevolezza

In tempi di recessione, riflettere sul senso del limite e del fallimento offre una preziosa opportunità per riconsiderare gli usuali punti di vista. La lettura di un articolo del New York Times offre diversi spunti di riflessione a riguardo.

Anzitutto, il fallimento è consustanziale alla nostra natura di esseri finiti. Ci ricorda che tutti i piani di grandezza, crescita e prosperità devono prima o poi confrontarsi con un limite:

«Failure is the sudden irruption of nothingness into the midst of existence. To experience failure is to start seeing the cracks in the fabric of being, and that’s precisely the moment when, properly digested, failure turns out to be a blessing in disguise».

Comprendere come affrontare il fallimento si rivela una capacità fondamentale, che ci aiuta ad acquisire consapevolezza della nostra imperfezione e, in senso propositivo, del continuo slancio che esiste tra quel che siamo e quel che possiamo diventare.

[ illustrazione: foto di John Dominis, Mickey Mantle Having a Bad Day at Yankee Stadium, New York, 1965 ]

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ANTROPOLOGIA, COMUNICAZIONE, LAVORO, TECNOLOGIA

Le app come modello di pensiero

Un testo del “padre” delle intelligenze multiple Howard Gardner – scritto insieme a Katie Davis e intitolato The App Generation (2013) – traccia le abitudini comunicative dei più giovani, con particolare riferimento all’influenza delle nuove tecnologie.

Al di là di temi noti quali la preferenza per una comunicazione privata in forma scritta (in cui l’emotività è più gestibile) e l’ostentazione pubblica dello status sociale (la bacheca di Facebook in cui esporre come trofeo il numero di amici o di invitati a una festa), dell’analisi di Gardner e Davis colpisce soprattutto un tema, vale a dire quello dell’approccio alla pianificazione della propria vita.

Una delle principali attività svolte dai teenager tramite le app comunicative installate sui loro smartphone è quella di organizzare incontri con i propri amici. Il fattore novità legato a questa attività è quello di un approccio cosiddetto “on-the-fly”, che permette in pochi istanti di condividere un programma, cambiarlo, cancellarlo. La dinamica dell’incontro e dell’appuntamento, che prima dell’avvento dei cellulari viveva di una sua preparazione, di un accordo e poi della fiducia affidata al vedersi con qualcuno in un dato luogo a una data ora, è ora sconvolta da un’indecisione elevata a sistema che fa sì che tutto si giochi e rigiochi nell’istante.

Secondo Gardner e Davis la “mentalità delle app”, abituata ad avere informazioni, beni e servizi sempre disponibili on-line, porterebbe a trattare con la stessa pretesa di accessibilità anche le persone. Questo fenomeno, etichettato da alcuni studiosi anche come “microcoordination”, ha un forte impatto sulla percezione della presenza altrui e, evidentemente, delle aspettative e dei sentimenti legati a un cambiamento di idea o a un rifiuto. Provando a leggere questa nuova dinamica in proiezione rispetto all’età adulta e alla sfera lavorativa, è facile immaginare che il tema della pianificazione – a livello di singolo lavoratore o più in generale su un piano aziendale – sarà necessariamente impattato da questa inattesa svolta antropologica.

[ illustrazione: fotogramma dal film Bling Ring di Sofia Coppola, 2013 ]

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CINEMA, COMPLESSITÀ, ECONOMIA, LAVORO, POLITICA, TECNOLOGIA

La Guerra Fredda e il successo di Silicon Valley

C’è un fondamentale dettaglio sull’ascesa di Apple Computer che l’apologetico (e in definitiva mal fatto) film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern manca di mettere in luce: quello delle condizioni di contesto di cui Steve Jobs e Steve Wozniak poterono giovarsi. Ne parla, indirettamente, un articolo della rivista Slate.

Negli anni della Guerra Fredda il governo americano, terrorizzato dal fatto che qualsiasi nuova scoperta potesse essere usata in chiave di arma militare, investì una ingente quantità di denaro nella ricerca accademica e scientifica. Un esempio di questa politica fu la nascita nel decennio 1958-1968 di ARPANET, esperimento comunicativo pilota destinato a dar vita negli anni successivi a internet.

In relazione alla compresenza di basi militari, centri tecnologici e poli universitari di prestigio, le due aree americane che più beneficiarono di investimenti governativi fin dagli anni ’40 furono Silicon Valley e la “route 128” in Massachussets (area di pertinenza del MIT e dell’università di Harvard). La spinta alla ricerca e la stabilità economica generate in quegli anni hanno costruito un formidabile humus culturale ed economico che nei decenni successivi ha permesso la sopravvivenza e il successo di moltissime startup tecnologiche fra cui Hewlett-Packard, Fairchild, Xerox – e ovviamente Apple.

[ illustrazione: fotogramma dal film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern ]

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ANTROPOLOGIA, LAVORO, TECNOLOGIA, TEMPO

L’orologio da polso e la nascita del tempo lavorativo

Quella dell’orologio da polso è un’invenzione relativamente recente, posteriore per esempio rispetto a quella della fotografia. Se l’arte del far foto inizia a essere praticata tra gli anni ’20 e ’30 del XIX secolo, è solo nel 1868 che l’azienda svizzera Patek Philippe mette a punto il primo “montre au poignet”, confezionandolo per una contessa ungherese. Per gli uomini l’orologio da taschino rimane scelta d’elezione ancora per qualche decennio, finché le crude esigenze della prima guerra mondiale non convincono i più a passare alla praticità dell’orologio da polso.

Un fondamentale fenomeno legato alla diffusione dell’orologio da polso è l’invenzione del tempo del lavoro, o meglio di un tempo lavorativo coincidente con l’organizzazione industriale e con lo scientific management tayloristico, filosofia lavorativa che inizia a diffondersi proprio nei primi decenni del XX secolo. Non si tratta più, come avveniva nel caso del lavoro pre-industriale e agricolo, di una scansione temporale legata a cicli naturali, ma di una parcellizzazione della giornata che corrisponde all’organizzazione specialistica di compiti e mansioni. Il nuovo lavoro industriale definisce un nuovo tempo e genera perfino il concetto del “tempo libero” (cioè liberato dal lavoro).

Non a caso, il sociologo americano Lewis Mumford (1895-1990) ha definito l’orologio lo strumento chiave dell’era industriale. Il suo diventare portatile e addirittura indossato ha contribuito all’interiorizzazione di questo ruolo simbolico. Grazie all’orologio da polso, il tempo del lavoro diventa accessorio personale, non abbandonando mai chi lo indossa.

[ illustrazione: fotografia di Josef Koudelka scattata il 21 agosto 1968 mentre le truppe sovietiche invadono Praga ]

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BIGDATA, LAVORO, TECNOLOGIA

Usi e abusi del personal tracking

Il movimento del “quantified self”, fondato nel 2007 dai guru di «Wired» Gary Wolf e Kevin Kelly, lavora sulle opportunità conoscitive offerte dalla raccolta di dati personali. Secondo le parole dello stesso Wolf, i personal traker praticano in modo del tutto nuovo l’antica massima greca del “conosci te stesso”:

«Instead of interrogating their inner worlds through talking and writing, they are using numbers. They are constructing a quantified self».

Secondo un articolo dello studioso di tecnologie Nicholas Carr, il personal tracking a 360°, cioè applicato alle più svariate attività della vita quotidiana (dai ritmi di sonno e veglia ai regimi dietetici), sarebbe in realtà un fenomeno molto limitato e appannaggio di un ristretto numero di fanatici del dato. Per il restante 90% delle persone, andare al di là dell’orologio sportivo che misura passi e calorie è semplicemente troppo.

A suscitare interesse – e inquietudine – è oggi l’adozione del traking da parte delle aziende. Queste ultime stanno iniziando a far indossare ai propri addetti device in grado di raccogliere dati riguardo ad azioni, interazioni con il contesto, conversazioni con i colleghi. Come Carr osserva, questa concentrazione sulla misurazione della performance ricorda molto da vicino l’approccio dello scientific management di Taylor, riletto tuttavia alla luce della knowledge economy. La prospettiva della raccolta di dati – e la conseguente tensione verso un’ottimizzazione del lavoro – si sposta dalle concrete azioni un tempo svolte in fabbrica alle astratte occupazioni oggi agite dai lavoratori della conoscenza.

[ illustrazione: dettaglio da Power House Mechanic di Lewis Hine, 1920 ]

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LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ

Il paternalismo organizzativo secondo Goffredo Parise

Nel romanzo di Goffredo Parise Il padrone (1964), grottesco bozzetto del paternalismo organizzativo, i due termini più ricorrenti sono “possesso” e “morale”. Sull’irrisolto rapporto tra essi si costruisce il percorso di assimilazione del protagonista all’identità aziendale, fondamentalmente corrispondente, come il titolo del libro chiaramente indica, con quella del padrone.

Il percorso del giovane protagonista, punteggiato da personaggi con nomi da fumetto, malattie di origine nervosa e punizioni corporali, è di allontanamento dalla realtà e progressiva spersonalizzazione. La forza simbolica dell’ideologia aziendale è talmente prepotente da scardinare in un battibaleno il pur concreto passato del protagonista, fatto di famiglia, affetti e ricordi che vengono sostituiti in toto dall’astrazione organizzativa. In uno dei passaggi centrali del testo, il quasi mistico inabissarsi nell’uniformità aziendale viene descritto da queste parole del protagonista:

«C’è in questa sensazione di spersonalizzazione e di anonimia qualche cosa di naturale e di religioso, la stessa inconsapevole ebbrezza che devono provare le formiche quando si aggirano frenetiche in lunghe file, una di andata e una di ritorno, dalla tana al luogo del cibo. Mi sento come una di quelle formiche e proprio come una formica sarei tentato di salutare tutti, di riconoscermi negli altri, e così vorrei che gli altri facessero con me. Credo che anche le religioni accomunino in questo modo gli uomini ma non c’è paragone tra la religiosità che respira nelle chiese e quella che sprigiona invece dai grandi agglomerati urbani, soprattutto dalle ditte, dalle officine e, in generale, dai luoghi dove si lavora. Perché la prima è una religiosità che si rivolge sempre alla morte, cioè a qualcosa di immobile e anche astratto, la seconda invece appartiene alla vita e alla realtà».

[ illustrazione: ritratto di Alfried Krupp, Arnold Newman – 1963 ]

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ANTROPOLOGIA, CONCETTI, LAVORO, SOCIETÀ

Il senso del lavoro e il rischio di diventare ciò che si fa

«An unquenchable passion for work might be a panic-stricken way of concealing the fear of a lack of passion for life itself. If you are what you do, what are you when you stop doing it and you still are? There are people who don’t find this a problem, who have not entirely or even at all identified existence with what they do and how they make a living, but they are evidently a great problem to those – the majority –who do».

Così recita un articolo della scrittrice inglese Jenny Diski significativamente intitolato “Learning how to live”. La massima secondo cui “si diventa ciò che si fa” sembra implicare che quando si termina di “fare” – cioè di lavorare – si smetta anche di essere. Il far niente incute paura perché ci fa sentire colpevoli. Per questo si stigmatizza chi, come i bambini, si occupa con piacere di attività non necessariamente produttive. Oppure si guarda dall’alto in basso chiunque svolga un lavoro “culturale”, dunque non un “vero lavoro”. Salvo poi finire per invidiare, a proposito di parole fra virgolette, chiunque abbia un’occupazione “creativa”:

«Creative work sits uneasily in the fantasy life between dread leisure and the slog of the virtuous, hardworking life. It’s seen as a method of doing something while doing nothing, one that stops you flying away in terror».

In cerca di un più sano rapporto con il lavoro e il post-lavoro può essere salutare, con rimando al testo Stone Age Economics (1974) dell’antropologo Marshall Sahlins, riflettere sulla vita di società “primordiali” nelle quali il lavoro era più direttamente legato a un risultato al quale seguiva, ben prima dell’inizio di una nuova attività, il godimento di quanto ottenuto. Nota Diski:

«Once people had done the few days’ hard work of felling a tree and carving out a canoe, there were large amounts of free time to lie about daydreaming, exploring, telling stories: doing “culture” or just skiving. You’d fish in the canoe you’d made, and by preserving and sharing the catch with others, who also shared theirs with you, you could then take a few days off before you needed to get any more. Decent members of those communities did what they needed to do and then when they didn’t need to do it, they stopped».

[ illustrazione: Emiliano Ponzi ]

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CULTURA, LAVORO

Il pensiero positivo e i “buoni pessimisti”

In ambito organizzativo, la dottrina del “pensiero positivo” gode di un solido e duraturo successo. Gli ottimisti, oltre a contribuire a un clima lavorativo sereno, sono in grado di prendere dal verso giusto le difficoltà, risultando resilienti e perseveranti. Il mondo lavorativo è a ogni modo popolato anche dai pessimisti. Il loro atteggiamento, critico per definizione, è a sua volta dotato di lati positivi, soprattutto rispetto alla capacità di prevedere e gestire i cosiddetti worst case scenario.

Molteplici studi – in particolare quelli condotti dagli psicologi Julie Norem and Nancy Cantor – mostrano che quanto aiuta e sostiene una persona mediamente ottimista può rivelarsi deleterio per un pessimista. Questo vale anzitutto per gli stati d’animo: se di norma il buonumore aiuta un ottimista a lavorare meglio, nel caso di un pessimista questo diventa un elemento negativo. Se di buonumore, un pessimista tende ad assumere un atteggiamento eccessivamente rilassato e compiacente che neutralizza la costitutiva dose d’ansia che normalmente anima il suo apporto.

È necessario prestare attenzione anche agli incoraggiamenti: se questi ultimi possono aiutare la performance di un ottimista, rispetto a quella di un pessimista risultano pericolosi. Il motivo di questa reazione va di nuovo individuato nel depotenziamento dello stato di critica allerta che i pessimisti riescono a usare così produttivamente. Un’accresciuta fiducia finisce per minimizzarlo, riducendo concentrazione ed efficacia di un “buon pessimista”.

[ illustrazione: Lisa Simpson – © Matt Groening ]

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CITTÀ, COMPLESSITÀ, ECONOMIA, GEOGRAFIA, LAVORO

La globalizzazione economica secondo Enrico Moretti

L’economista italiano Enrico Moretti, docente presso l’università californiana di Berkeley, ha tracciato con il suo La nuova geografia del lavoro (2013) una precisa mappatura delle trasformazioni dell’attuale mondo del lavoro. Focalizzandosi sugli USA, ove si è trasferito fin dagli anni ’90, Moretti analizza i cambiamenti demografici e sociali che un’economia fortemente basata su innovazione e asset intangibili ha portato con sé negli ultimi 20 anni.

Uno degli aspetti che rendono particolarmente credibile il testo è la capacità di sfatare alcuni miti sorti nel corso dei primi anni 2000 riguardo la globalizzazione e il ruolo delle nuove tecnologie. In particolare, Moretti mostra come le previsioni di un libro celebre come The World Is Flat (2005) del giornalista Thomas Friedman, incentrate sulla “morte delle distanze” e sul passaggio in secondo piano della variabile geografica, siano state ampiamente sfatate. Al di là del fatto che strumenti come videoconferenze e Skype sono ben lontani dall’incidere a livello davvero significativo sulla collaborazione a livello globale, resta indubbio che la prossimità geografica continua a essere il più efficace catalizzatore di attività lavorative.

Analizzando i casi di alcuni “hub” legati all’innovazione (su tutti, prevedibilmente, spicca Silicon Valley), quanto emerge è che questi distretti lavorano come veri e propri ecosistemi che, oltre a reggersi sulla forza di un concreto co-working basato sulla prossimità, sono in grado di dar vita a positive esternalità economiche che si estendono ad attività appartenenti ad altri ambiti. Molto prosaicamente: per ogni nuovo posto di lavoro legato all’innovazione, si creano mediamente cinque altri posti in diversi ambiti professionali del medesimo ecosistema.

Il principale limite del libro di Moretti è quello di focalizzarsi quasi esclusivamente sul contesto americano. Per un’integrazione rispetto all’ambito europeo e italiano può essere utile accompagnare questa lettura a quella di Futuro artigiano (2011) di Stefano Micelli, testo dal taglio diverso ma proficuamente complementare.

[ illustrazione: mappa dal testo Kort begrip der waereld – Historie voor de jeugd di J.F. Martinet, 1789 ]

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BIGDATA, COLLABORAZIONE, CULTURA, DIVULGAZIONE, LAVORO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

BuzzFeed e l’uso tayloristico dei dati

Il claim del sito web BuzzFeed descrive la sua offerta come “the hottest, most social content on the web”. È probabile che sia stato proprio questo proclama a convincere lo studioso di nuovi media Evgeny Morozov a sottoporre il popolare sito, che nell’agosto 2013 ha registrato 85 milioni di visitatori, all’analisi della sua critica lente indagatrice.

Morozov nota anzitutto come la specializzazione di BuzzFeed non sia semplicemente quella di produrre contenuti, bensì di costruirli con una ricetta che li rende istantaneamente “virali”. In questo senso, il sito lavora molto più come una startup tecnologica di Silicon Valley che come una tradizionale testata giornalistica: il rigore del contenuto è in secondo piano rispetto a “share” e “like” da ottenere tramite l’ingegnerizzazione di precisi algoritmi. A questo proposito, Morozov evidenzia il sapiente – e “tayloristico” – uso dei dati messo in atto dal sito:

«Thanks to advanced analytics and tools of Big Data, they know exactly what needs to be said—and how—to get the story shared by most people. Its approach is best described as Taylorism of the viral: Just like Frederick Taylor knew how to design the factory floor to maximize efficiency, BuzzFeed knows how to design its articles to produce most clicks and shares. The content of the article is secondary to its viral performance».

Se già tutto questo evoca una prospettiva inedita per la diffusione di notizie via web, BuzzFeed risulta un caso interessante anche rispetto ai suoi contenuti. Questi ultimi sono oggi “english only”, ma saranno presto tradotti in molte lingue, raggiungendo un obiettivo di “viralità localizzata” perfettamente coniugabile con la globalizzazione dei contenuti. Tutto ciò è possibile da una partnership con Duolingo, startup dell’apprendimento di lingue via web.

Duolingo è stata fondata da Luis von Ahn, giovane professore di matematica divenuto celebre per il suo lavoro sui “captcha”, i codici di controllo che i siti web usano per verificare che l’utente sia davvero una persona (e non un robot che diffonde “spam”). Uno degli aspetti meno noti dei “captcha” riguarda la loro evoluzione nel corso del tempo: alle stringhe di testo casuali hanno cominciato ad affiancarsi parole scansite da libri che, in questo modo, vengono digitalizzati parola per parola grazie al contributo degli utenti. Questa dinamica di utilizzo incrociato di dati e del contributo gratuito – e spesso ignaro degli utenti rappresenta un tratto tipico dell’era “big data”.

Un meccanismo simile a quello dei “capctha” guida il rapporto tra Duolingo e BuzzFeed: la prima azienda offre gratuitamente corsi di lingue a studenti cui verranno sottoposti, parola per parola, i contenuti che la seconda ha bisogno di tradurre. Sistema perfetto, che Morozov non manca di criticare rispetto alla sua dinamica globalizzata: la diffusione globale delle news “americanocentriche” di BuzzFeed finirà probabilmente per sovrastare news locali dotate di scarsa forza “virale”.

[ illustrazione: staff della rivista studentesca “Aurora” della Eastern Michigan University, 1907]

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