CULTURA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, MANAGEMENT

Il ruolo dell’intellettuale in azienda, secondo Ottiero Ottieri

Ottiero Ottieri (1924-2002) è uno dei protagonisti della letteratura industriale italiana, nonché membro di un privilegiato gruppo di intellettuali scelti da Adriano Olivetti per il suo progetto industriale insieme scientifico e umanistico (fra gli altri: Giovanni Giudici, Franco Fortini, Paolo Volponi, Leonardo Sinisgalli, Geno Pampaloni, Libero Bigiaretti). L’esperienza in Olivetti è raccontata da Ottieri, oltre che nella sua opera più celebre Donnarumma all’assalto (1959), in una raccolta di taccuini redatta fra il 1948 e il 1958 e pubblicata prima sulla rivista «Menabò» come Taccuino Industriale e infine, nel 1963, per l’editore Bompiani con il titolo La linea gotica.

L’arco temporale 1948-1958 è per Ottieri cruciale nella formazione del suo punto di vista rispetto all’azienda industriale italiana. Giovane di buona famiglia e intellettuale mai davvero integrato, Ottieri si avvicina al mondo delle grandi aziende anzitutto per comprendere se stesso e il proprio tempo, muovendosi tra Roma e Milano e memore della propria gioventù toscana (luogo sentimentale in cui si colloca la personale  “linea gotica” del titolo).

Da un passaggio aziendale all’altro – cruciale quello dallo stabilimento Olivetti di Pozzuoli, spunto per molte osservazioni di questo testo e del già citato Donnarumma all’assalto – , Ottieri si confronta con l’ethos aziendale e con i suoi strumenti (su tutti, la gestione delle risorse umane e la psicotecnica), senza riuscire a giungere a una sintesi fra elementi costruttivi e contraddizioni del proprio ruolo. In questo senso, le parole di Ottieri costituiscono una testimonianza fondamentale per riflettere sul ruolo dell’intellettuale in azienda, figura del resto ormai scomparsa.

«Visto che lavoro molto, tutto il giorno, potrei diventare un dirigente […]. Il mondo lo vuole. Il buon senso lo vuole. Ma un intellettuale ha, per assurdo, una mentalità da operaio, che, sgobbando, sogna i soldi facili, la libertà. Delude il mondo, perché la sera aspetta il campanello per fuggirsene a casa, dove incomincia un pezzettino di vita».

[ illustrazione: stabilimento Olivetti di Pozzuoli, operai del reparto presse, anni ’50 ]

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APPRENDIMENTO, CULTURA, DEMOCRAZIA, DIVULGAZIONE, LAVORO, POLITICA, SCUOLA, SOCIETÀ

Piero Calamandrei: la scuola e le radici della democrazia

Piero Calamandrei (1889-1956) è stato scrittore e giurista di chiara fama, tra i fondatori del Partito d’Azione e da sempre antifascista e parte attiva della Resistenza. Il volume del 2008 Per la scuola raccoglie tre testi (due discorsi pubblici e un articolo) risalenti al periodo 1946-1950 e dedicati al tema dell’istruzione pubblica.

Per Calamandrei l’istituzione scolastica, pubblica e laica, è l’organo centrale della democrazia, l’unico in grado di garantire la costruzione di una classe dirigente basata sul merito e sulla mobilità sociale. Rileggere gli scritti di Calamandrei e confontarne le tesi con la politica scolastica italiana degli ultimi 50 anni significa comprendere retrospettivamente le ragioni di un fallimento nazionale che è civile, sociale ed economico. Leggere e fare leggere le sue pagine dovrebbe essere una prerogativa di chiunque si occupi di apprendimento ed educazione, a ogni livello. Un buon punto di partenza per recuperare il pensiero di Calamandrei è questo splendida metafora:

«Quando io penso a questo concetto della classe dirigente aperta in continuo rinnovamento, che deriva dall’affluire dal basso di questi elementi migliori, cui la scuola deve dare la possibilità di affiorare, mi viene in mente (se c’è qui qualche collega botanico mi corregga se dico degli errori) una certa pianticella che vive negli stagni e che ha le sue radici immerse al fondo, che si chiama la vallisneria e che nella stagione invernale non si vede perché è giù nella melma. Ma quando viene la primavera, quando attraverso le acque queste radici che sono in fondo si accorgono che è tornata la primavera, da ognuna di queste pianticelle comincia a svolgersi uno stelo a spirale, che pian piano si snoda, si allunga finché arriva alla superficie dello stagno: e insieme con essa altre cento pianticelle e anche esse in cerca del sole. E quando arriva su, ognuna, appena sente l’aria, fiorisce, ed in pochi giorni la superficie dello stagno, che era cupa e buia, appare coperta da tutta una fioritura, come un prato. Anche nella società avviene, dovrà avvenire qualche cosa di simile. Da tutta la bassura della sorte umana originaria, dall’incultura originaria dovrà ciascuno poter lanciare su, snodare il suo piccolo stelo per arrivare a prendere la sua parte di sole. A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali».

[ illustrazione: Robert Doisneau, L’information scolaire, 1956 ]

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CAMBIAMENTO, CULTURA, FOTOGRAFIA, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MARKETING, TECNOLOGIA

Polaroid e il brand come patrimonio culturale

Come molte grandi aziende del settore fotografico la cui egemonia si è sviluppata nell’era della pellicola ed è stata messa in discussione dall’avvento del digitale (su tutte: Kodak), anche Polaroid ha trascorso anni difficili. L’azienda ha dichiarato bancarotta nel 2001 e poi ancora nel 2009, anni in cui al suo vertice si sono avvicendati ben sei diversi amministratori delegati. Nel frattempo, l’azienda ha perso praticamente tutti i suoi asset conservandone fondamentalmente uno: il brand.

Grazie alla reputazione del proprio marchio, che ancora oggi comunica al grande pubblico i valori in esso instillati dal suo fondatore Edwin Herbert Land (1909-1991), Polaroid ha potuto stabilire una serie di accordi di licenza che hanno portato il brand ad avvicinarsi a nuovi ambiti di prodotto quali quello dei tablet e delle televisioni. Conservando la memoria affettiva dei tre principi con cui Land aveva fondato nel 1937 l’azienda, e cioè visione, condivisione e convenienza, i prodotti che oggi utilizzano il marchio Polaroid cercano – con discutibile successo – di tenere viva l’immagine di un’azienda che purtroppo non ha saputo innovare in relazione ai cambiamenti del contesto. In qualche maniera, Polaroid ha deciso di puntare sullo sfruttamento del suo patrimonio culturale e di non investire nello sviluppo del nuovo.

Per contrasto, il lavoro di Impossible Project, impresa olandese che nel 2008 ha rilevato da Polaroid i macchinari per la produzione di pellicole istantanee, rappresenta innovazione nella continuità. A fronte del completo arresto della produzione di pellicole per le macchine Polaroid, la domanda di mercato – decisamente significativa in una società prona al senso nostalgico del vintage – ha rischiato di rimanere frustrata. Con grande tempismo, Impossible Project ha rimesso in moto la produzione, costruendo una gamma mai così ampia e variegata di pellicole istantanee che, manco a dirlo, si giovano a loro volta del valore emotivo del brand Polaroid.

[ illustrazione: ritratto di Edwin Herbert Land ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CITAZIONI, COMPLESSITÀ, CULTURA, LAVORO, SOCIETÀ

La cultura è come l’acqua

Uno dei brani più citati di David Foster Wallace (1962-2008) è quello da lui pronunciato nel maggio 2005 presso il Kenyon College (Ohio) in occasione della cerimonia di conferimento delle lauree (il testo del discorso è pubblicato in Questa è l’acqua). Wallace apre il suo intervento con l’ormai nota “storia dei pesci e dell’acqua”:

«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?»

In quest’occasione Wallace parla di fronte a una platea di laureandi e il suo scopo è di introdurre un articolato discorso sul senso della cultura umanistica. La parabola narra della difficoltà del comprendere e discutere le realtà più ovvie, pervasive e importanti. Il ruolo del pesce anziano è quello del saggio, cioè di chi ha un’esperienza e una conoscenza tali da permettergli di guardare alle cose con prospettiva e, per così dire, “da fuori”.

Da quando ho letto per la prima volta l’incipit del discorso di Wallace non ho potuto fare a meno di pensare come la metafora dell’acqua valga, al di là del suo uso specifico in questa circostanza, per raccontare in generale il rapporto dell’uomo con la cultura. La cultura non si vede e, come i pesci, ci nuotiamo e respiriamo dentro. È l’elemento più importante della nostra formazione e del suo risultato, cioè l’immagine di noi che continuamente si dà a vedere agli altri. Ciononostante, ne coltiviamo un livello di consapevolezza ridotto ai minimi termini. Data l’efficacia della storia, credo valga la pena di riflettere in particolare sul ruolo del pesce anziano: quando si parla in generale di una cultura – e per quanto riguarda il sottoscritto, l’esempio che più spesso mi capita di discutere è quello della cultura lavorativa – siamo davvero certi che la sola permanenza di lungo termine nell’acqua possa essere sufficiente per acquisire una posizione consapevole e distaccata, che permetta di percepire l’influenza della cultura sul nostro modo d’essere?

Credo che a fare la differenza sia l’opportunità di mettere almeno qualche volta la testa fuori dall’acqua. Questo significa aver frequentato altre culture e acquisito uno spirito critico che aiuti a non restare eccessivamente immersi nel proprio ambiente culturale dominante. Una simile competenza anfibia, difficile e dolorosa da coltivare perché mette in discussione la nostra provenienza, il nostro essere e tutto ciò che ci è più vicino, è quanto può permettere di nuotare con consapevolezza e trovarsi a proprio agio anche in differenti contesti. Nel caso dei pesci, perfino sulla terraferma.

[ illustrazione: Weeki Wachee Springs, Florida, fotografia di Toni Frissell, 1947 ]

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BIGDATA, CAMBIAMENTO, CULTURA, ECONOMIA, INTERNET, LAVORO, TECNOLOGIA

L’utopia del “lavoro digitale”

In Who Owns the Future? (2013) Jaron Lanier affronta il tema dell’impatto della tecnologia sulle classi medie da un punto di vista non scontato. Per l’autore americano la questione non è chiedersi se l’automazione stia rubando o meno posti di lavoro, ma piuttosto rendersi conto che la diffusa pretesa di accedere gratuitamente (in maniera più o meno legale) a servizi e contenuti si sta trasformando in un circolo vizioso che danneggia un numero crescente attività lavorative. In altri termini: siccome pretendiamo di avere tutto gratis, accettiamo di buon grado di mettere a disposizione altrettanto gratuitamente quanto disseminiamo nella rete, senza realizzare che questo significa privare di valore il nostro contributo intellettuale. Questa è per sommi capi la tesi di Lanier, il quale paventa una disgregazione sociale di ampie proporzioni: anche ammesso che si possa sopravvivere continuando a deprezzare il lavoro della classe media “creativa” (giornalisti, musicisti, fotografi), sarà difficile farlo se un simile deprezzamento colpirà anche attività considerate primarie dal punto di vista industriale e sociale.

L’utopico antidoto proposto da Lanier è quello di un sistema di micro-pagamenti esteso a ogni nostra attività on-line, dalla ricerca su Google alla recensione di un libro su Amazon. In questo modo, un inedito meccanismo economico a due vie premierebbe di continuo tanto produttori quanto consumatori, permettendo un più adeguato ammortizzamento delle dinamiche dell’economia “informale” diffusa da internet. Quel che la pur affascinante ipotesi di Lanier tralascia di chiedersi è quanti servizi attualmente gratuiti potranno davvero funzionare e sopravvivere all’interno di un simile sistema. E soprattutto: siamo davvero sicuri che la mera produzione e diffusione sul web di dati e informazioni – ché le conoscenze sono ben altro – meriti di essere retribuita? Dare una risposta affermativa significherebbe, oltre che assumere una posizione piuttosto semplicistica e demagogica, accettare implicitamente che la soluzione al deprezzamento del lavoro culturale possa coincidere con un suo livellamento verso il basso. Il che suona come l’argomentazione più preoccupante contenuta nell’intero discorso di Lanier.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Invisible Boy di Herman Hoffman (1957)]

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ARTE, CITTÀ, CULTURA, SOCIETÀ

La costruzione di un mito: Saint-Germain-des-Prés

Nessuna visita a Parigi può essere prova di una tappa a Saint-Germain-des-Prés, quartiere-simbolo della vita intellettuale francese del secondo dopoguerra. Culla del movimento esistenzialista e avamposto europeo del jazz, al quartiere – e soprattutto a locali come i caffè De Flore e Deux Magots – sono inscindibilmente legati nomi e gesta di personaggi come Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Boris Vian, Juliette Gréco.

Un libro appena pubblicato dallo storico e giornalista canadese Eric Dussault, intitolato L’invention de Saint-Germain-des-Prés (2014), mette in discussione l’immagine del quartiere giunta fino a noi. Ad averla generata sarebbero stati gli stessi esistenzialisti, con il sostegno della stampa e per la gioia dei commercianti della zona. Secondo Dussault, la Saint-Germain-des-Prés che è passata alla storia – e di cui si continua a celebrare la memoria – rappresenta una visione letteraria ed edulcorata di un quartiere in realtà caratterizzato da povertà e conflitti sociali.

Chi ha raccontato la Saint-Germain-des-Prés degli anni ’40-’60 – in particolare la stessa de Beauvoir in L’età forte (1960), si sarebbe dunque fatto cantore di un mondo autoreferenziale e chiuso su se stesso, bisognoso di costruirsi un proprio mito celebrativo. Mito cui va in ogni caso riconosciuto il merito di saper conservare a oggi – nonostante il libro di Dussault – tutta la sua forza.

[ illustrazione: il Café de Flore negli anni ’40 ]

 

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, CULTURA, ECONOMIA, MOBILITÀ, TECNOLOGIA

Perché ai giovani non interessano più le automobili?

Il possesso di un’automobile ha rappresentato per più generazioni – su tutte quella dei baby boomers – una promessa di emancipazione e libertà. Per i giovani di tutto il mondo, lo status symbol dell’auto ha avuto per lungo tempo pochi rivali rispetto ad altri beni di consumo. Oggi le cose sembrano cambiare: il numero di auto intestate a giovani sotto i 35 anni è calato dal 2007 a oggi del 30%. Dato ancora più rilevante: meno della metà degli individui in età da patente si iscrive alla scuola guida entro i 18 anni, dimostrando di non avere troppa fretta di mettersi al volante. Come spiegare questo mutamento?

Un articolo della rivista «Fast Company» indaga le ragioni di un rivolgimento sociale che pare destinato a diventare sempre più significativo, aggravando la più generale stagnazione del mercato dell’automobile. Il primo fronte di analizzare è quello economico: che la diminuzione di giovani al volante sia da correlarsi ai tempi di crisi? Sembrerebbe non essere così: secondo le stime di «Fast Company», il possesso e l’utilizzo di uno smartphone (compresi i canoni mensili di traffico telefonico e dati) produce costi paragonabili a quelli di un leasing mensile per un’auto di livello medio-economico come una Honda Civic.

In tema di smartphone, è da anni ormai palese che il nuovo status symbol dei giovani di tutto il mondo è proprio il telefono cellulare, accompagnato da altri gadget tecnologici fra cui computer, tablet, videogiochi. La pista da seguire per comprendere il disinteresse verso l’auto sarebbe dunque questa: laddove lo smartphone viene visto come un possesso personale irrinunciabile e del tutto privato, i giovani si mostrano più che ben disposti a condividere un mezzo di trasporto con gli amici, il che congiura positivamente a favore di una mobilità più consapevole. D’altro canto, le logiche dello spostamento e dell’incontro sono in mutazione. L’incontro on-line è non solo un surrogato, ma sempre più spesso un sostituto di quello in presenza e la distanza dell’on-line è lo spazio in cui prendono forma l’identità individuale e le opportunità di confronto intersoggettivo. I bisogni di emancipazione e libertà della generazione Y sembrano dunque farsi molto più individualizzati e virtuali di quelli delle generazioni precedenti. Il che sembra sufficiente a spiegare perché le auto stanno cedendo il posto agli smartphone.

[ illustrazione: fotogramma dal film Dazed and Confused di Richard Linklater, 1993 ]

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CULTURA, POLITICA, SOCIETÀ, STORIA

Svizzera: fra difesa e neutralità nelle memorie di Max Frisch

«La nostra volontà di difesa si fondava sulla speranza che la semplice esibizione della nostra volontà di difesa dissuadesse il nemico».

In Svizzera il servizio militare è obbligatorio. A fine 2013, quando un referendum popolare antimilitarista ne ha chiesto l’abolizione, la risposta del 73% della popolazione è stata “no”. Per essere compresa, questa scelta va relazionata – in maniera non dissimile da quella di un successivo e più noto referendum, quello del 9 febbraio 2014 –  alla celebre neutralità della nazione: è dal 1674, anno della prima dichiarazione di neutralità dei Cantoni, che la Svizzera si mostra non più “guerriera” ma pronta a difendersi.

Max Frisch (1911-1991) fu arruolato nell’esercito svizzero a più riprese, con la mansione di cannoniere. In particolare, prestò servizio tra il 1939 e il 1940, momento in cui la Svizzera era minacciata di invasione da parte delle truppe tedesche, secondo i piani della mai attuata “operazione Tannenbaum”. La preparazione dell’esercito svizzero fu organizzata con rigore e disciplina, anche se accompagnata dallo spirito espresso dalle parole citate in apertura, tratte da Libretto di servizio (1974), memoriale dedicato da Frisch alla sua esperienza di soldato.

Partendo dall’autobiografia e assumendo progressivamente il ruolo di critico attento e intransigente, Frisch descrive quello che in quarta di copertina dell’edizione italiana del libro (Einaudi, 1977) viene definito come un “limbo ambiguo”, vale a dire la mescolanza di preoccupazione, opportunismo politico e obbedienza che caratterizzava la società svizzera di quegli anni, realizzandone un ritratto a tutto tondo non privo di amara ironia:

«Decisivo è il senso del quotidiano. Il vero svizzero non si lascia andare alle utopie, per cui si considera un realista. La storia svizzera, così come viene insegnata, gli ha sempre dato ragione».

[ illustrazione: cartolina svizzera, anni ’30 ]

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ARTE, CULTURA, JAZZ, RAPPRESENTAZIONE, STORIE

Un viaggio nel jazz delle origini: King Zulu di Jean-Michel Basquiat

Qualche anno fa, visitando la mostra “Il Secolo del Jazz” presso il MART di Rovereto, mi sono trovato di fronte alla grande tela di King Zulu, dipinto del 1986 di Jean-Michel Basquiat (1960-1988). Sfogliando il catalogo della mostra, si trova l’opera così descritta: «Questa tela esibisce su un bel fondo blu un trombettista e qualche altro strumentista». Queste parole, che descrivono per sommi capi quel che l’opera rappresenta, possono essere sufficienti per molti, soprattutto per chi non sia stato colpito in presenza dalla sua forza. Di certo non sono sembrate sufficienti allo storico del jazz Francesco Martinelli, autore di un profondo lavoro di indagine capace di restituire il senso simbolico di ogni riferimento iconografico contenuto nell’opera e, soprattutto, il rispetto e l’amore di Basquiat per il jazz.

Anzitutto, il “king zulu” del titolo altri non è che Louis Armstrong, il quale tornando nel 1949 alla nativa New Orleans venne celebrato come “re zulu” della festa di Mardi Gras. Un’immagine d’epoca associa a questo evento la stessa maschera qui rappresentata. Ecco allora che il quadro si rivela un omaggio ad Armstrong, ricco di riferimenti rispecchiabili nell’autobiografia scritta dal musicista nel 1954. E così si prosegue con la scritta, poco visibile sotto a “king zulu”, “do not stand in front of orchestra”, segnale per il pubblico che campeggia in alcune foto dell’orchestra “natante” sul Mississipi del pianista Fate Marable, uno dei primi musicisti a cogliere il valore di Armstrong. La figura di trombettista in primo piano è probabilmente tratteggiata pensando a una foto di Bunk Johnson, altro musicista di New Orleans, mentre la piccola immagine di sassofonista in alto sulla destra rimanda forse al celeberrimo Lester Young o più probabilmente al meno noto Norman Mason, che suonava con Armstrong nell’orchestra di Marable. Il trombonista sulla sinistra è con tutta probabilità Bill Mathews, mentre la misteriosa figura in bianco sulla destra si rifà alla silhouette di una foto del trombettista Henry “Kid” Rena, entrambi nuovamente riconducibili alla scena di New Orleans. Per concludere, la “G” che si trova sotto alla scritta “king zulu” riproduce il lettering del logo dell’etichetta discografica Gennett. La “G” è accompagnata da un numero di matricola precisamente riconducibile a un disco, cioè l’incisione di Sensation del 1924 a opera dei Wolverines, band di musicisti bianchi in cui spiccava il grande trombettista Bix Beiderbecke. Il racconto del jazz delle origini condotto da Basquiat si chiude quindi con la celebrazione della relazione fra Armstrong e Beiderbecke, fra le radici afroamericane di questa musica e uno dei primi musicisti bianchi ad abbracciarla.

Questo non è che uno sbrigativo sunto dell’attenta indagine di Martinelli, che offre molto più che un gioco di “riconoscimenti” e vale per lo meno la pena di seguire in questa presentazione. Quanto all’opera di Basquiat, si possono qui riprendere le parole dell’ottimo blog Jazz from Italy (fonte di diverse illustrazioni qui riportate):

«King Zulu usa i codici e le parole, come fossero pennellate, per accedere nel mondo del non detto, permettendoci di seguirlo, per avvicinarsi all’universo ignorato dalla cultura dominante, al cosmo cancellato dalle storie precedenti, al creato dell’emotivo reale, eppur invisibile ai più».

[ illustrazione: King Zulu di Jean-Michel Basquiat, 1986 ]

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ARCHITETTURA, CAMBIAMENTO, CITTÀ, CULTURA, STORIE

Le due vite del Chelsea Hotel

Quella del Chelsea Hotel di New York è una curiosa storia di sviluppo e mutazione urbana. Progettato dall’architetto francese Philip Hubert (1830-1911), Il Chelsea Association Building venne inaugurato nel 1855. L’edificio nacque, secondo l’ispirazione dei falansteri dell’utopista Charles Fourier (1772-1837), come condominio i cui appartamenti, in parte venduti e in parte affittati, si indirizzavano a diversi gruppi sociali. Al di là di più categorie di appartamenti pensate in relazione alle diverse possibilità economiche dei loro abitanti, il progetto di Hubert non mancò di prevedere ambienti progettati per artisti e scrittori, nonché un giardino sul tetto e zone per la lettura e la meditazione. Questo modello ideale purtroppo non resse a lungo alle condizioni economiche di recessione e alla diffidenza cittadina nei confronti di quanto rappresentava. Il condominio dunque chiuse e rinacque nel 1905 come hotel.

La seconda vita dell’edificio fu caratterizzata dalla sua trasformazione in residenza di elezione per intellettuali, artisti, musicisti. Il testo di Sherill Tippins Inside the Dream Palace (2013) narra con attenzione le vicende che hanno caratterizzato la vita dell’hotel, legate soprattutto negli anni ’60-70 ai nomi di personaggi come Bob Dylan, Patti Smith, Robert Mapplethorpe, Andy Warhol, William Burroughs, Sid Vicious, Janis Joplin. Storie spesso tragiche ma in ogni caso legate a filo doppio con le vette contro-culturali della New York della seconda metà del ‘900.

Oggi, in seguito a vari avvicendamenti nella gestione, l’edificio è di proprietà di un albergatore di Las Vegas ed è attualmente coperto da impalcature che ne rappresentano la ristrutturazione e la premessa per una sua nuova vita, difficilmente all’altezza delle precedenti.

[ illustrazione: un incontro all’ingresso del Chelsea Hotel – foto di Peter Angelo, 1973 ]

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