APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, FRUGALITÀ, MARKETING

C’è solo un modo giusto per montare un mobile Ikea?

La notizia della probabile chiusura del sito Ikea Hackers sta facendo il giro del mondo. Di cosa si tratta, esattamente?

Ikea Hackers nasce otto anni fa dall’iniziativa di un cittadino del Kuala Lumpur che si fa chiamare Jules Yap (è uno pseudonimo) e si definisce fan “pazzo e naif” (sono parole sue) dei mobili Ikea. Nel giro di pochissimo tempo, il suo sito diventa un riferimento internazionale per chiunque intenda fare con i kit Ikea cose diverse da quelle per cui sono stati pensati. Un po’ come comprare una scatola Lego e decidere, invece di seguire le istruzioni per assemblare una caserma dei pompieri, di costruirci altro. Tutto perfettamente legittimo, nonché animato da uno spirito creativo decisamente “jugaad”. I problemi per Jules Yap arrivano, come spesso accade, insieme al grande successo. Quando Jules si rende conto che il sito – che arriva a contare oltre 3000 esempi di hacking di prodotti Ikea – sta diventando un lavoro a tempo pieno, adotta un sistema di advertising che possa garantirgli qualche introito. Ikea se ne accorge e invia a Yap un’ingiunzione di chiusura, invocata in nome di un uso improprio del trademark dell’azienda svedese.

Perché Ikea sbaglia? Per diversi motivi. Anzitutto perché bolla come dannosa una preziosa fonte di pubblicità gratuita. In secondo luogo – come nota in questo articolo lo scrittore Cory Doctorow – perché confonde copyright e trademark con una manovra di dubbia legalità, che somiglia più a un atto di bullismo che a una legittima difesa. Infine, perché non comprende che, per tornare alla logica dei Lego, costringere chi acquista un kit a costruire solo quello che dicono le istruzioni è una indebita restrizione della creatività dei propri clienti, oltre che un passo falso in termini di marketing.

[ illustrazione: post del sito Ikea Hackers ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, CREATIVITÀ, EPISTEMOLOGIA, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Scrivere a mano serve ancora a qualcosa?

Un recente articolo del «New York Times» raccoglie e commenta le più aggiornate opinioni della neuroscienza riguardo lo scrivere a mano. Se il decadimento dello studio della calligrafia nelle scuole è un dato di fatto – che trova un ironico contraltare nella nuova “alfabetizzazione manuale” imposta alle dita di ragazzi e adolescenti da smartphone e tablet – , quel che soprattutto conta chiedersi è se scrivere a mano e a computer siano attività equivalenti rispetto alle capacità di ragionamento e apprendimento.

Partiamo dai più piccoli: quando un bambino scrive usando una penna, produce parole più velocemente che con una tastiera. Non solo, afferma la neuroscienza: è anche in grado di recepire più idee. Passando alle aule universitarie, chi prende appunti su carta è uno studente più produttivo rispetto a chi lo fa con un computer. Si badi: nonostante quanto l’intuito potrebbe suggerire, la posizione di svantaggio del computer non ha molto a che fare con le distrazioni offerte da una connessione a internet. Ciò di cui il battere sui tasti pare privo è la relazione con un processo di riflessione e manipolazione concettuale che solo lo scrivere a mano è in grado di innescare.

Pensare con carta e penna attiva aree del cervello legate all’apprendimento che restano “spente” quando lavoriamo con un computer; aiuta a memorizzare, a organizzarsi, a sviluppare senso del controllo. La materializzazione del pensiero resa possibile dallo scrivere a mano rappresenta dunque una risorsa fondamentale e a oggi insuperata per lo sviluppo cognitivo e per la capacità di apprendere.

[ illustrazione: foglio dal manoscritto di Elsa Morante per L’isola di Arturo, edito nel 1957 ]

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APPRENDIMENTO, COMUNICAZIONE, SCIENZA, TECNOLOGIA

La “sconfitta” di Turing non è una vittoria per l’intelligenza artificiale

Il 7 giugno 2014, a distanza di 60 anni dalla morte del matematico britannico Alan Turing (1912-1954), il mondo dell’intelligenza artificiale ha celebrato un’attesa vittoria, quella sul celebre test che lo stesso Turing mise a punto nel 1950 e che fino a oggi non era mai stato superato.

Il test di Turing si basa su questa dinamica: un esaminatore dialoga in forma scritta (negli anni ’50 via telescrivente, oggi via chat) con un essere umano e con una macchina. Se quest’ultima riesce a rendersi indistinguibile rispetto alla controparte umana e quindi a ingannare l’esaminatore, il test può dirsi superato. Turing prevedeva che suo il test sarebbe stato “vinto” nell’arco di cinquant’anni; evidentemente, ce ne sono voluti ben sessantaquattro.

Nell’impresa è riuscito il personaggio di Eugene Goostman, “ragazzino virtuale” di 13 anni. I suoi programmatori – di nazionalità russa e ucraina – hanno dedicato gli ultimi dodici anni a questo progetto di “chatterbox”, partecipando a molte competizioni legate al Test di Turing. Ora che l’obiettivo è stato raggiunto, la comunità scientifica internazionale si interroga sul suo significato per la ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale.

Per la verità, la maggior parte degli articoli pubblicati in questi giorni mette in discussione il risultato ottenuto dai creatori di Eugene Goostman. Diverse argomentazioni tecniche dimostrerebbero la non idoneità dell’esperimento rispetto alle regole stabilite da Turing. Per una buona sintesi di questi pareri critici, è consigliata la lettura di questo articolo di Paolo Attivissimo.

Le osservazioni più cruciali sulla vicenda sono in ogni caso quelle presentate sul «New Yorker» dallo studioso cognitivo Gary Marcus. Il problema di Eugene Goostman è che si basa, esattamente come tutti i chatterbox che l’hanno preceduto (su tutti il celebre ELIZA, psicoterapista virtuale messo a punto nel 1966), sul riconoscimento di pattern e non certo su una reale abilità di dialogo e risposta. Marcus ricorda che, dal 1950 a oggi, sono state sviluppate molte macchine in grado di svolgere egregiamente un compito verticale e specialistico, come per esempio il super computer IBM Deep Blue che nel 1996 sconfisse lo scacchista russo Garry Kasparov, allora campione del mondo in carica. Ma nessuna macchina è mai stata in grado di dar prova dell’intelligenza “orizzontale” tipica degli uomini. Per tornare a un argomento qui trattato ieri, nessuna macchina – conclude Marcus – può nemmeno lontanamente avvicinarsi alle capacità di apprendimento e intelligenza di un bambino. In questo senso, ammesso che il test di Turing possa considerarsi realmente superato, la ricerca sull’intelligenza artificiale non fa certo passi avanti grazie a Eugene Goostman. Per rendersene conto, basta fare una chiacchierata con lui qui.

[ illustrazione: ritratto fotografico di Alan Turing ]

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APPRENDIMENTO, BIGDATA, LAVORO, SCIENZA, TECNOLOGIA

Perché i computer non saranno mai all’altezza degli uomini? Perché non sanno essere infantili

Durante gli anni ’80, gli studi sull’intelligenza artificiale hanno iniziato a scontrarsi contro un’evidenza: se simulare con un computer un livello “adulto” di intelligenza è relativamente semplice, risulta praticamente impossibile trasferirgli le abilità di un bambino di un anno.

Il “paradosso di Moravec” (dal nome dell’esperto di robotica austriaco Hans Moravec) descrive la difficoltà – attualmente irrisolta – di condurre un elaboratore elettronico a impadronirsi di capacità umane primordiali. Come ha notato lo studioso americano – e co-fondatore del MIT – Marvin Minsky, le facoltà umane su cui è più difficile applicare processi di “reverse engineering” finalizzati alla loro simulazione sono proprio quelle più basiche e, per molti versi, inconsce.

C’è un aspetto controintuitivo che rende preziosa questa scoperta: mentre ci immagineremmo arduo simulare abilità che per noi comportano un apprendimento faticoso (relativo per esempio a cognizioni ingegneristiche, matematiche e in generale a tutto ciò che etichettiamo come “scienza”), queste risultano in realtà molto più facili da trasferire a un computer rispetto a facoltà “innate” legate alla percezione, all’attenzione, alle capacità motorie e sociali.

Le abilità più recenti sulla linea temporale dell’evoluzione umana comportano per noi maggiori difficoltà di apprendimento proprio perché relativamente nuove e non interiorizzate; quelle più remote, benché molto più complesse, ci appaiono semplici perché agite in maniera trasparente e spontanea. I computer, privi del nostro background biologico e ben lontani da qualsiasi forma si spontaneità, incontrano grandi difficoltà nel simulare le seconde mentre ottengono buoni risultati nelle prime.

Secondo lo studioso cognitivo Steve Pinker, tutto questo ha un risvolto che dovrebbe tranquillizzare quanti sentono il proprio posto di lavoro minacciato da computer sempre più potenti. Se alcune professioni risultano effettivamente a rischio, altre non lo saranno mai, o quasi, proprio per via del paradosso di Moravec: i posti di lavoro di analisti finanziari e ingegneri petrolchimici saranno forse assunti da macchine nel giro di pochi anni; quelli di giardinieri, receptionist e cuochi non lo saranno verosimilmente ancora per moltissimo tempo.

[ illustrazione: fotogramma dal film Artificial Intelligence di Steven Spielberg, 2001 ]

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APPRENDIMENTO, ARTE, CREATIVITÀ, SCRITTURA

Per una scrittura non creativa

Kenneth Goldsmith, poeta e studioso americano, è autore di Uncreative Writing (2011), saggio che analizza la frammentazione della scrittura nell’era digitale. Per comprendere come il web ha cambiato il nostro modo di scrivere, Goldsmith suggerisce un parallelo: così come la nascita della fotografia ha mutato per sempre il ruolo della pittura, l’avvento di internet ha influito profondamente, forse in maniera irreversibile, sullo statuto della scrittura.

Il nuovo ruolo del lettore come “curatore”; le pratiche di manipolazione e re-visione del testo all’interno di molteplici canali; la sovversione delle norme di copyright e la disgregazione dell’autorialità: tutto questo rende urgente una riconsiderazione delle pratiche di scrittura. Alle ormai abusate pratiche di “scrittura creativa”, Goldsmith oppone una dichiarata non-creatività del testo che prende le mosse da un’attenta riflessione sul ruolo della tecnologia e si ispira ai protagonisti delle avanguardie artistiche più importanti del Novecento, dal situazionismo fino ad Andy Warhol, profeta anticreativo in tutta la sua opera.

Uno dei passaggi centrali del lavoro di Goldsmith chiama in causa un autore-faro del pensiero novecentesco sui rapporti tra cultura e tecnologia, Walter Benjamin. In Strada a senso unico (1928) lo studioso tedesco costruisce una metafora che esplica con chiarezza l’utilità della trascrizione di un testo, una delle pratiche cardine della scrittura non creativa. Trascrivere è un lavoro non solo sulla scrittura ma dentro di essa, che permette di comprendere su se stessi qualcosa che resta inaccessibile alla sola pratica della lettura:

«La forza di una strada è diversa a seconda che uno la percorra a piedi o la sorvoli in aeroplano. Così anche la forza di un testo è diversa a seconda che uno lo legga o lo trascriva. Chi vola vede soltanto come la strada si snoda nel paesaggio, ai suoi occhi essa procede secondo le medesime leggi del terreno circostante. Solo chi percorre la strada ne avverte il dominio, e come da quella stessa contrada che per il pilota d’aeroplano è semplicemente una distanza di terreno essa, con ognuna delle sue svolte, faccia balzar fuori sfondi, belvedere, radure e vedute allo stesso modo che il comando dell’ufficiale fa uscire i soldati dai ranghi. Così, solo il testo ricopiato comanda all’anima di chi gli si dedica, mentre il semplice lettore non conoscerà mai le nuove vedute del suo spirito quali il testo, questa strada tracciata nella sempre più fitta boscaglia interiore, riesce ad aprire: perché il lettore obbedisce al moto del suo io nel libero spazio aereo delle fantasticherie, e invece il copista lo assoggetta a un comando».

[ illustrazione: Gustave Caillebotte, Portrait de E.-J. Fontaine, Libraire – 1885 ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, FILOSOFIA, LAVORO, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Arnold Gehlen e i danni dell’iper-specializzazione lavorativa

Il filosofo e antropologo tedesco Arnold Gehlen (1904-1976) è noto per le sue riflessioni sulla natura umana, incentrate sul superamento del dualismo cartesiano mente-corpo. Al centro del suo pensiero – di cui è sintesi l’opera L’uomo (1940-1950) – è una filosofia dell’azione che legge la storia umana come una somma di atti produttivi. L’uomo è caratterizzato da uno stato di non-definizione che lo contraddistingue dall’animale e che lo limita dal punto di vista delle possibilità fisiche. Questa condizione è tuttavia il punto di partenza per un progetto di “esonero” dalla mancanza, cioè una liberazione dagli obblighi e dai difetti naturali condotta attraverso un’emancipazione agita grazie a cultura e tecnica. L’uomo è dunque un essere non specializzato che vive grazie alla sua continua appropriazione del mondo.

Centrale, all’interno del discorso di Gehlen, è la considerazione della tecnica. In particolare nell’opera L’uomo nell’era della tecnica (1957), lo studioso tedesco mette in luce le conseguenze, spesso indesiderate, dell’affermazione del paradigma tecnico corrispondente alla forma di produzione industriale e capitalistica. Molte delle sue riflessioni riguardano il mondo del lavoro e la diffusione di una forma mentis che, per paradosso rispetto all’originaria non-specializzazione su cui è basato l’intero approccio di Gehlen, rende l’uomo un esperto che si allontana sempre più dalla vita quotidiana in cerca del “rendimento totale” propagandato dalle più avanzate evoluzioni tecnico-industriali.

Dalle parole di Gehlen emerge una lettura delle difficoltà di comprensione del proprio ruolo vissute dall’uomo aziendale, con pesanti conseguenze per il senso di appropriazione e responsabilità del proprio fare:

«Se uno ha l’impressione di essere soltanto una rotella facilmente sostituibile e un po’ consumata del gran meccanismo; se è convinto, e del resto con ragione, che questo funzionerebbe anche senza di lui, e se non vede mai le conseguenze del suo agire, ovvero non le vede che cifrate in linguaggio numerico e geometrico o addirittura unicamente sotto forma del conteggio della sua paga, il suo senso di responsabilità dovrà diminuire nella stessa proporzione con cui aumenta la sua sensazione di abbandono».

[ illustrazione: Giacomo Balla, particolare da Numeri innamorati, 1920 ]

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APPRENDIMENTO, CULTURA, DEMOCRAZIA, DIVULGAZIONE, LAVORO, POLITICA, SCUOLA, SOCIETÀ

Piero Calamandrei: la scuola e le radici della democrazia

Piero Calamandrei (1889-1956) è stato scrittore e giurista di chiara fama, tra i fondatori del Partito d’Azione e da sempre antifascista e parte attiva della Resistenza. Il volume del 2008 Per la scuola raccoglie tre testi (due discorsi pubblici e un articolo) risalenti al periodo 1946-1950 e dedicati al tema dell’istruzione pubblica.

Per Calamandrei l’istituzione scolastica, pubblica e laica, è l’organo centrale della democrazia, l’unico in grado di garantire la costruzione di una classe dirigente basata sul merito e sulla mobilità sociale. Rileggere gli scritti di Calamandrei e confontarne le tesi con la politica scolastica italiana degli ultimi 50 anni significa comprendere retrospettivamente le ragioni di un fallimento nazionale che è civile, sociale ed economico. Leggere e fare leggere le sue pagine dovrebbe essere una prerogativa di chiunque si occupi di apprendimento ed educazione, a ogni livello. Un buon punto di partenza per recuperare il pensiero di Calamandrei è questo splendida metafora:

«Quando io penso a questo concetto della classe dirigente aperta in continuo rinnovamento, che deriva dall’affluire dal basso di questi elementi migliori, cui la scuola deve dare la possibilità di affiorare, mi viene in mente (se c’è qui qualche collega botanico mi corregga se dico degli errori) una certa pianticella che vive negli stagni e che ha le sue radici immerse al fondo, che si chiama la vallisneria e che nella stagione invernale non si vede perché è giù nella melma. Ma quando viene la primavera, quando attraverso le acque queste radici che sono in fondo si accorgono che è tornata la primavera, da ognuna di queste pianticelle comincia a svolgersi uno stelo a spirale, che pian piano si snoda, si allunga finché arriva alla superficie dello stagno: e insieme con essa altre cento pianticelle e anche esse in cerca del sole. E quando arriva su, ognuna, appena sente l’aria, fiorisce, ed in pochi giorni la superficie dello stagno, che era cupa e buia, appare coperta da tutta una fioritura, come un prato. Anche nella società avviene, dovrà avvenire qualche cosa di simile. Da tutta la bassura della sorte umana originaria, dall’incultura originaria dovrà ciascuno poter lanciare su, snodare il suo piccolo stelo per arrivare a prendere la sua parte di sole. A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali».

[ illustrazione: Robert Doisneau, L’information scolaire, 1956 ]

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APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, COLLABORAZIONE, GIOCO, LAVORO, VIDEOGIOCHI

Il videogioco come strumento educativo

Esce finalmente anche in Italia, a dieci anni dalla sua originaria pubblicazione, Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale (2003), saggio seminale sui “game studies” dello studioso americano James Paul Gee (docente di studi letterari presso l’Arizona State University).

Il testo mette in gioco i concetti di apprendimento e alfabetizzazione, facendone metro di paragone per un confronto fra l’esperienza del videogioco e quella lezione in classe: siamo proprio sicuri che giocare con un videogame sia sempre una perdita di tempo? E di converso: gli strumenti tradizionali dell’insegnamento scolastico sono ancora efficaci? Queste le domande cui Gee tenta di rispondere col suo percorso videoludico, il cui approdo è rappresentato dall’enunciazione di 36 “principi di apprendimento”, ovvero competenze pratiche e teoriche che la frequentazione dei videogiochi può aiutare a sviluppare.

I videogame, intesi come mezzo di apprendimento attivo e critico, mettono l’utente in condizione di imparare dall’esperienza, di entrare in contatto collaborativamente con “gruppi di affinità” (persone che condividono un medesimo contesto di significati e risorse), di sviluppare abilità di problem solving, di comprendere i meccanismi sociali legati a un determinato contesto di pratiche. Anche se Gee non vi allude, è evidente come lo sviluppo di competenze di questo tipo risulti valido non soltanto in un contesto scolastico, ma anche per la formazione degli adulti. A questo proposito, particolare interesse suscitano le riflessioni legate a ciò che precede o segue il momento della “partita” col videogame: la conoscenza dei “mondi videoludici” che si trasferisce attraverso riviste, siti web, forum, non è individuale ma distribuita, messa in opera attraverso un pensiero pratico e sociale, che porta alla formazione di reti e dei già citati “gruppi di affinità”. La conoscenza è a disposizione di tutti, pronta per essere usata.

Il confronto instaurato da Gee tra l’apprendimento via videogame e gli strumenti tradizionali dell’educazione scolastica si risolve con un bilancio nettamente negativo a sfavore di questi ultimi, che continuano a risultare poco coinvolgenti, troppo astratti e slegati da concrete pratiche di lavoro e condivisione del sapere. D’altro canto, è pur vero che i videogame esplicitamente educativi al momento non sono molti, anche se le grandi potenzialità di questo medium (che del resto si trova ancora a uno stato nascente e poco raffinato) fanno ben sperare per future applicazioni nel campo dello studio, della formazione, del lavoro. L’innegabile pregio dei videogame risiede in ogni caso nel modo del tutto peculiare in cui riescono a favorire apprendimento e sviluppo dell’identità mediante la dimensione del gioco. A questo proposito, l’unica critica che pare lecito muovere al lavoro di Gee è quella di essere troppo spesso sbilanciato verso il fronte “video” e poco verso quello “game”: se i videogame funzionano in un determinato modo è soprattutto perché sono giochi, e quindi la gran parte delle osservazioni fatte risulta valida non soltanto per un gioco giocato davanti a uno schermo, ma anche per ogni attività ludica tout court.

[ illustrazione: immagine dal videogioco Outrun, 1986 ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CREATIVITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

La competenza più importante per il mondo del lavoro? L’intelligenza artigiana

La tesi di Futuro artigiano (2011), testo a firma di Stefano Micelli, Docente di Economia e gestione delle imprese presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è perentoria: per ridare forza all’economia italiana e, più in generale, per agire con efficacia nello scenario business odierno risulta vitale recuperare un’attitudine artigianale al lavoro. La novità del messaggio sta nel suo essere rivolto non tanto ai mestieri artigiani di un tempo, ma piuttosto a chiunque – piccole, medie e grandi imprese – abbia a cuore sopravvivere nel mercato del lavoro del nuovo millennio.

Presupposto della tesi di Micelli – premiato nel 2014 con il Premio Compasso D’oro – è una lettura critica delle promesse della “knowledge economy”, uno dei temi manageriali cui più pagine sono state dedicate tra gli anni ’90 e 2000. La prospettiva del tempo oggi mostra come l’auspicata emancipazione basata sul lavoro intellettuale abbia in realtà prodotto una classe di “travet della conoscenza”, cioè impiegati di concetto vittime dell’ennesima, sofisticata reincarnazione dei paradigmi fordisti dell’organizzazione del lavoro.

Non stupisce, di fronte al fallimento della valorizzazione del lavoro intangibile, il prepotente recupero della dimensione del “fare” di cui siamo oggi testimoni. Dall’uomo artigiano di Richard Sennett ai contesti di innovazione di Steven Johnson; dai maker americani alla jugaad indiana: il concetto di lavoratore verso cui ci stiamo dirigendo incarna il bisogno di riprendere il controllo, sperimentare e innovare usando in maniera efficace le risorse di contesto. Mettendo in primo piano due valori fondamentali: il piacere e la passione per il lavoro.

Micelli elabora la preziosa definizione di intelligenza “A” (artigiana), opposta all’ormai abusata intelligenza “T”, quella dei test del QI. L’intelligenza artigiana non lavora meramente sulla razionalità, ma si basa sull’esperienza, sull’adattamento alla situazione e sull’apprendimento continuo e collettivo. Nel descrivere questo modello di intelligenza lavorativa Micelli chiama in causa quanto osservato da Claude Lévi-Strauss (1908-2009) in Il pensiero selvaggio (1962), citandone in particolare un passaggio che descrive il diverso set di competenze dell’ingegnere e del “bricoleur”:

«Il bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi procurati o concepiti espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via “finito” di arnesi e materiali».

[ illustrazione: Gustave Caillebotte, Les raboteurs de parquet, 1875 – Musèe d’Orsay, Parigi ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CITAZIONI, COMPLESSITÀ, CULTURA, LAVORO, SOCIETÀ

La cultura è come l’acqua

Uno dei brani più citati di David Foster Wallace (1962-2008) è quello da lui pronunciato nel maggio 2005 presso il Kenyon College (Ohio) in occasione della cerimonia di conferimento delle lauree (il testo del discorso è pubblicato in Questa è l’acqua). Wallace apre il suo intervento con l’ormai nota “storia dei pesci e dell’acqua”:

«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?»

In quest’occasione Wallace parla di fronte a una platea di laureandi e il suo scopo è di introdurre un articolato discorso sul senso della cultura umanistica. La parabola narra della difficoltà del comprendere e discutere le realtà più ovvie, pervasive e importanti. Il ruolo del pesce anziano è quello del saggio, cioè di chi ha un’esperienza e una conoscenza tali da permettergli di guardare alle cose con prospettiva e, per così dire, “da fuori”.

Da quando ho letto per la prima volta l’incipit del discorso di Wallace non ho potuto fare a meno di pensare come la metafora dell’acqua valga, al di là del suo uso specifico in questa circostanza, per raccontare in generale il rapporto dell’uomo con la cultura. La cultura non si vede e, come i pesci, ci nuotiamo e respiriamo dentro. È l’elemento più importante della nostra formazione e del suo risultato, cioè l’immagine di noi che continuamente si dà a vedere agli altri. Ciononostante, ne coltiviamo un livello di consapevolezza ridotto ai minimi termini. Data l’efficacia della storia, credo valga la pena di riflettere in particolare sul ruolo del pesce anziano: quando si parla in generale di una cultura – e per quanto riguarda il sottoscritto, l’esempio che più spesso mi capita di discutere è quello della cultura lavorativa – siamo davvero certi che la sola permanenza di lungo termine nell’acqua possa essere sufficiente per acquisire una posizione consapevole e distaccata, che permetta di percepire l’influenza della cultura sul nostro modo d’essere?

Credo che a fare la differenza sia l’opportunità di mettere almeno qualche volta la testa fuori dall’acqua. Questo significa aver frequentato altre culture e acquisito uno spirito critico che aiuti a non restare eccessivamente immersi nel proprio ambiente culturale dominante. Una simile competenza anfibia, difficile e dolorosa da coltivare perché mette in discussione la nostra provenienza, il nostro essere e tutto ciò che ci è più vicino, è quanto può permettere di nuotare con consapevolezza e trovarsi a proprio agio anche in differenti contesti. Nel caso dei pesci, perfino sulla terraferma.

[ illustrazione: Weeki Wachee Springs, Florida, fotografia di Toni Frissell, 1947 ]

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