CINEMA, INDUSTRIA, IRONIA, LAVORO, LIBRI, POLITICA, SOCIETÀ, STORIA

Gasparazzo, il fumetto della lotta operaia italiana

Gasparazzo è un personaggio nato nel 1971 dalla matita del compianto fumettista Roberto Zamarin (1940-1972 ) e comparso sulle pagine di «Lotta Continua» e in un libretto dal semplice titolo Gasparazzo (1972).

Gasparazzo – il cui nome rimanda a quello di Calogero Ciraldo Gasparazzo, carbonaio che partecipò alla rivolta di Bronte del 1860 – è un immaginario lavoratore meridionale che emigra a Torino come addetto alle linee di montaggio della Fiat. L’operaio Gasparazzo è vittima del tempo che vive e, insieme, del suo inevitabile radicamento nella cultura italiana. La sua lotta è contro la macchina, lo sfruttamento, le dinamiche di potere e di mafia, la nuova cultura aziendale importata dagli USA. E tuttavia il suo personaggio non è privo di aspetti qualunquisti, violenti e maschilisti espressione dello stesso sistema contro cui lotta. Gasparazzo, secondo le parole del suo creatore Zamarin:

«La politica la scopre giorno per giorno buttando la sua ribellione istintiva dentro al meccanismo disciplinato della grande fabbrica moderna. Per il resto vive come tanti altri come lui, segue lo sport, guarda la televisione, pensa alle donne».

Per comprendere il ruolo di Gasparazzo nella cultura italiana bisogna pensare, più che al romanzo industriale degli anni ’50 e ’60, a riferimenti contemporanei a Zamarin, per esempio i film La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Mimì metallurgico ferito nell’onore di Lina Wertmüller, entrambi risalenti al biennio 1971-1972. Lette oggi, le strisce del fumetto aiutano a ricordare un preciso momento della storia italiana – quando ancora esisteva una classe proletaria in senso proprio – e a interpretare la successiva evoluzione dell’ethos impiegatizio nazionale.

[ illustrazione: una tavola tratta da Gasparazzo di Roberto Zamarin, 1972 ]

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ARTE, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ, STORIA

White collar, la graphic novel italiana del 1938 che racconta la grande depressione

Genovese, emigrato negli Stati Uniti a soli diciotto anni, Giacomo Patri (1898–1978) può essere considerato fra i precursori dell’attuale graphic novel. Più correttamente, l’arte di Patri – attivo come illustratore e docente a Los Angeles – rientra nella categoria delle “wordless novel”, racconti in forma di sole immagini realizzati con tecniche di incisione e stampa a rilievo. Storicamente, il primo esempio di questo genere narrativo – fortemente debitore nei confronti dell’arte espressionista – è la novella del 1918 25 images de la passion d’un homme, realizzata dal belga Frans Masereel (1889-1972) a partire da incisioni su legno e incentrata sulle peripezie della classe operaia nella società industriale.

A simili tematiche si lega il capolavoro di Giacomo Patri, l’opera in linografia (incisioni su linoleum) White Collar (1938), frutto di tre anni di lavoro e di una paziente opera di stampa e rilegatura operata dall’autore stesso con la moglie. Con toni parzialmente autobiografici, la novella di Patri racconta le gesta di un illustratore pubblicitario che vive il suo sogno di ascesa sociale, senza troppo curarsi dei movimenti di protesta dell’attivismo operaio. Ma la cattiva sorte è in agguato, sotto forma della crisi finanziaria del 1929, che causa al protagonista la perdita del lavoro e l’accumulazione di una serie di debiti. La spirale di sfortune nella quale il protagonista e la sua famiglia precipitano sembra non avere fine, con la difficoltà nel sostentare l’ultimo nato, un lavoro indipendente fallito, un impiego da travet conclusosi con un licenziamento, la conseguente perdita della casa. Ormai in mezzo alla strada, il protagonista si libera finalmente dal suo “colletto bianco”, simbolo delle false speranze di scalata sociale e della stessa crisi del ’29, e si unisce al movimento operaio.

La splendida opera di Patri, che fu utilizzata dal movimento operaio americano per mettere il luce il comune pericolo corso in tempi di crisi sia dai colletti bianchi che da quelli blu, è oggi facilmente reperibile nel volume Graphic Witness (2007), che raccoglie quattro fra le migliori wordless novel delle origini (compresa 25 images de la passion d’un homme di Masereel).

[ illustrazione: tavola da White Collar di Giacomo Patri, 1938 ]

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CREATIVITÀ, FILOSOFIA, INTERNET, LAVORO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Calibano e la tecnica: una critica di Lewis Mumford al paradigma scientifico

«Per spiegare la natura dell’uomo nella sua totalità, dobbiamo includere nella sua storia un elemento temporale che, dopo Aristotele, non ha avuto alcuna parte nei calcoli scientifici: la sfera del potenziale e del possibile, la sfera della reale creatività».

Da queste parole di Lewis Mumford (1895-1990), tratte da una lezione tenuta a New York nel 1954 e raccolte in forma scritta in Per una civiltà umana (2002), emerge una profonda critica nei confronti del paradigma scientifico che ha determinato il destino della nostra civiltà. Per sostenere le sue tesi, Mumford ricorre a un prestito metaforico da La Tempesta di William Shakespeare: i personaggi di Prospero e Calibano sono assimilati al pensiero di Sigmund Freud e alle diverse facoltà dell’uomo. Se Prospero rappresenta il superego, incarnazione delle facoltà superiori, l’animalesco Calibano è simulacro dell’id, cioè dell’io primitivo e inconscio. Mumford legge nella crisi del presente – il suo, del 1954, ma facilmente anche il nostro – il dominio di Calibano su Prospero, ovvero la perdita per l’uomo di una autodeterminazione spirituale causata del prevalere di istinti orientati al qui e ora e al mero possesso della materia.

Nella trattazione di Mumford, centrale per il prevalere di Calibano è la sua alleanza con la tecnica e l’approccio scientifico. Quando l’azione dell’uomo sulla natura – che è costitutiva della sua autopoiesi – assume un approccio “scientifico” che punta all’oggettivazione, alla misurazione e alla razionalizzazione di ogni pratica, genera un uomo-automa che procede nel perfezionamento della sua ricerca svincolandosi da scopi e dunque deresponsabilizzandosi rispetto all’umanità. Sono figli di questo atteggiamento, nota Mumford avvicinandosi qui fortemente al pensiero di Gunther Anders (ma anche di Arnold Gehlen), le barbarie della guerra e in particolare la progettazione di armi di distruzione di massa. Benché Mumford non le citi, riconducibili a questo approccio paiono anche barbarie meno disastrose ma sottilmente pervasive, quelle generate dall’approccio scientifico al lavoro. Il lavoratore-macchina può ben dirsi figlio di Calibano e della de-umanizzazione del lavoro.

L’alleanza tra Calibano e la tecnica rappresenta la sconfitta della cultura e la realizzazione di quello che Mumford definisce  – citando Henry Miller – un “incubo ad aria condizionata”, cioè la riduzione della vita a meccanismo dentro meccanismi, senza nessuna spinta teleologica. L’antidoto all’apparentemente irreversibile marcia di Calibano è identificato da Mumford nell’impegno, a livello individuale e politico, a produrre qualcosa che trascenda l’orizzonte di una singola persona e guardi a un progetto dal lungo orizzonte futuro. Per cogliere tutta l’attualità delle parole di Mumford, pur a distanza di 60 anni da quando sono state pronunciate, è utile leggere questo suo proposito personale, che suona come una critica in nuce a quanto internet avrebbe realizzato molti anni dopo:

«La mia norma consiste nell’evitare, nei limiti del possibile, la partecipazione a tutte le organizzazioni in cui sia impossibile la conoscenza e la relazione personale, in cui il rapporto di io-tu sia stato distrutto e al suo posto sia stato introdotto un sistema di controllo remoto».

[ illustrazione: Caliban, Miranda, Prospero, C.W. Sharp, 1875 ]

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CIBO, DECISIONE, FOTOGRAFIA, IRONIA, SOCIETÀ

Instagram, selfie, food (ovvero: quanto tempo passiamo al ristorante?)

Si è già parlato qui di rapporti tra cibo e fotografia, o – per dirla in termini coerenti con il fenomeno – di chi si fa selfie di food. Se è vero che ormai esistono esercizi di ristorazione che vietano di scattare fotografie a quanto viene servito in tavola, grazie al blog di Alex Soojungkim Pang (autore di The Distraction Addiction) scopro che un ristorante newyorkese è riuscito ad attuare – con modalità di per sé curiose, come si vedrà – un piccolo studio statistico sul deterioramento della relazione esercente-cliente causato dal diffondersi della moda della “fotografia gastronomica”.

Il suddetto ristorante, dotato come molti negozi di un servizio di sicurezza con telecamere a circuito chiuso, ha raffrontato un nastro risalente all’inizio della propria attività – aperta nel 2004 – con una registrazione attuale, al fine di analizzare il comportamento della propria clientela. Il motivo da cui è scaturita questa curiosa indagine? La constatazione di una crescita dei tempi di permanenza dei clienti presso il ristorante, pur a fronte di un aumento di personale e di uno snellimento del menu. Dal confronto tra i due campioni raccolti a distanza di dieci anni emergono evidenze per le quali non sono particolarmente necessari commenti. In gioco vi è non solo la relazione esercente-cliente; qui si tratta anche di dinamiche decisionali, del nostro rapporto con la tecnologia e, più in generale, il modo in cui impieghiamo il nostro tempo.

Nel 2004 i clienti del ristorante passavano in media 8 minuti a osservare il menu. Il cibo veniva loro servito dopo circa 6 minuti. Dopo il pasto, in genere i clienti pagavano e lasciavano il locale 5 minuti dopo aver ricevuto il conto. Il tempo medio passato al ristorante dall’inizio alla fine del pasto era di cerca 65 minuti.

Nel 2014 i clienti impiegano in media circa 21 minuti per ordinare. Menu alla mano, restano attaccati al loro telefono facendo fotografie o altro finché il cameriere (spesso invocato perché il wireless non funziona a dovere) non passa da loro una seconda volta. Finalmente, aprono il menu e ordinano. Una volta fatto, ricevono il loro pasto dopo circa 6 minuti. A quel punto, il 57% dei clienti scatta una fotografia del cibo. In caso di due o più persone, le fotografie aumentano, richiedendo circa 3 minuti per scatto (e gli eventuali selfie non abbisognano di meno tempo). Questo comporta, nel 20% dei casi, che il cibo si raffreddi e venga mandato in cucina per essere riscaldato. Durante il pasto, il 60% dei clienti chiede l’intervento del cameriere per una foto di gruppo (spesso ripetuta, fino a un risultato soddisfacente). A pasto finito, i clienti impiegano in media 20 minuti per chiedere il conto e infine altri 20 per pagare e andarsene. Tempo complessivo da inizio a fine pasto: in media, 115 minuti.

[ illustrazione: Daniel Spoerri, Tableau piège n° 57, 1972 ]

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CONCETTI, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

L’identikit dell’innovatore frugale

Lo studioso inglese di social entrepreneurship (e già consulente del governo di Tony Blair) Charles Leadbeater costruisce nel suo testo The Frugal Innovator (2014) una personale lettura del fenomeno dell’innovazione frugale. In seguito a fasi economiche focalizzate sul bisogno (dal 1945), sul desiderio (dal 1960) e sulla frenesia dell’offerta (dal 1990) – e soprattutto nel necessario attraversamento delle conseguenze della crisi economica del 2008 – Leadbeater riconosce nella frugalità la via di uscita dal tunnel della grande recessione. L’approccio frugale all’innovazione risponde al nuovo atteggiamento della classe media occidentale e al crescente ruolo di protagonista delle popolazioni delle nazioni emergenti. Su questa linea di pensiero, i principali riferimenti di Leadbeater sono il testo The Fortune at the Bottom of the Pyramid (2005) dello studioso C. K. Prahalad (1941-2010) e Jugaad Innovation (2013) di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja, di recente traduzione in italiano.

Ma quali sono le caratteristiche dell’innovatore frugale? Secondo Leadbeater, quattro: un approccio lean, inteso sia nel classico, toyotistico senso di efficienza processuale che come ecologica dinamica di ri-ciclo e sfruttamento degli scarti; l’orientamento alla semplicità come risposta alle esigenze concrete di un mercato orientato alla soluzione di problemi per un numero il più possibile vasto di persone; la ricerca di coesione sociale, finalizzata a costruire comunità e a condividere conoscenze; lo scrupolo di agire in maniera pulita e sostenibile rispetto all’ambiente. Questi principi vengono distillati in The Frugal Innovator grazie all’analisi di diversi casi studio, che pur attingendo abbondantemente al patrimonio di innovazioni offerto dalla jugaad indiana non mancano di individuare casi di frugalità anche in territorio Europeo.

[ illustrazione: immagine tratta dal sito settimanadelbaratto.it ]

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CONCETTI, CULTURA, INNOVAZIONE, PAROLE, SOCIETÀ

Le origini anti-industriali del biologico

L’aggettivo “biologico”, entrato da una ventina d’anni a questa parte nel linguaggio del marketing alimentare, indica – in realtà in maniera impropria, in quanto ogni processo agricolo è ovviamente biologico – una modalità di coltivazione che evita di impiegare energia proveniente da processi industriali, preferendo reimpiegare la materia sotto forma organica. Più corretto sarebbe dunque parlare di “organico”, così come fanno l’inglese e altre lingue.

Come nota Michael Pollan nel suo best-seller Il dilemma dell’onnivoro (2006), il primo utilizzo di “organico” risale a un contesto lontano da quello alimentare. Nel’Ottocento l’aggettivo era utilizzato dagli studiosi inglesi che criticavano la frammentazione sociale portata dalla rivoluzione industriale, raffrontandola a una precedente società “organica” (o più semplicemente naturale) nella quale vigevano forti legami affettivi e cooperativi.

L’utilizzo del termine in ambito alimentare risale agli anni ’40, con la fondazione della rivista americana «Organic Gardening and Farming». La testata rimase a lungo poco nota finché non le venne dedicato, nel 1969, un articolo dal «Whole Earth Catalog», la bibbia della controcultura ideata da Stewart Brand. La tiratura della rivista passò in soli due anni da quattrocentomila a settecentomila copie, ponendo le basi del futuro successo di un aggettivo che oggi campeggia, in maniera più o meno veritiera, su tutti i più appetibili prodotti di ogni supermercato del mondo.

[ illustrazione: particolare da una copertina di «Organic Gardening» del 2013 ]

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GIOCO, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ, UFFICI

Office Boy: prima di Monopoly, il gioco come strumento per l’educazione al lavoro

Parker Brothers è un’azienda americana produttrice di giochi da tavolo e giocattoli. La sua storia inizia nel 1883 a Salem (Massachusetts), quando il sedicenne George Parker mette a punto la sua prima creazione: “Banking” è un gioco che simula una scalata al successo mediata da prestiti bancari e scommesse di investimento. Nata come George S. Parker Company per iniziativa del solo George, con l’ingresso in società dei suoi due fratelli nel 1888 l’azienda diventa Parker Brothers. Il più grande successo giunge nel 1935 con “Monopoly”, al quale seguiranno nel decennio successivo altri giochi destinati alla celebrità come “Cluedo” e “Risiko!” Dalla fine degli anni ’60, l’azienda inizia a produrre meno innovazioni – nonostante un interessante avventura nel mondo dei videogame che produrrà titoli come “Q-Bert” – e a staccarsi dalla gestione familiare. Come ultimo esisto di una serie di acquisizioni, il marchio è attualmente proprietà del gruppo Hasbro.

Uno dei più peculiari giochi prodotti da Parker Brothers nei suoi primi anni di attività è, nel 1889, “Office Boy”. L’ispirazione economica già alla base di “Banking” viene in questo caso letta alla luce del più importante fenomeno sociale del momento: l’ascesa del lavoro d’ufficio. Coerente con lo spirito del “sogno americano” alimentato dai romanzi di Horatio Alger (1832-1899), “Office Boy” mette i giocatori nei panni di un ragazzo di bottega pronto a iniziare la sua avventura nel mondo del lavoro. Attraverso un semplice “gioco dell’oca”, l’office boy inizia la sua carriera dalle posizioni aziendali più basse (per esempio portatore o magazziniere) e, diventando poi venditore e dirigente, può aspirare a giungere a capo dell’intera organizzazione. Il cammino è costellato da elementi che consentono l’avanzamento del giocatore o lo costringono all’arresto, brillantemente rappresentati da atteggiamenti lavorativi di segno opposto: disattento/attento, disonesto/onesto, incapace/ambizioso. Attraverso un apparentemente semplice gioco da tavolo, il ragazzo medio americano inizia a fare esperienza dei valori lavorativi che il mondo degli uffici sta iniziando a diffondere nella società. Di lì a poco l’office boy, accompagnato dal suo ideale di scalata sociale e anelito al successo, diventerà il simbolo di più generazioni di colletti bianchi.

[ illustrazione: tabellone di gioco di “Office Boy” di Parker Brothers, 1889 ]

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APPRENDIMENTO, COMUNICAZIONE, CONOSCENZA, ECONOMIA, FILOSOFIA

Fritz Machlup, pioniere dello studio economico sulla conoscenza

Il nome di Fritz Machlup (1902-1983), economista di origine austriaca e in seguito cittadino americano, è legato alla nascita degli studi economici sulla conoscenza. Per curiosa coincidenza, Machlup sviluppò le proprie riflessioni su questi temi quasi contemporaneamente a quelle formulate da un altro austriaco naturalizzato statunitense, Peter Drucker (1909-2005), universalmente noto come il “guru” della knowledge economy.

Machlup pubblicò nel 1962 l’opera dal titolo The Production and Distribution of Knowledge in the United States, in cui mise in atto un progetto rivoluzionario: la quantificazione – e monetizzazione – dell’economia della conoscenza statunitense. Per la cronaca, Machlup la stimò (in base a rilevazioni del 1858) in 136.4 milioni di dollari, pari al 29% del prodotto interno lordo nazionale. Al di là di questo dato numerico, risulta soprattutto interessante, per il uso grado di innovazione e influenza sugli studi seguenti, il lavoro definitorio svolto da Machlup sul concetto di conoscenza.

Anzitutto, Machlup si premurò di superare un concetto meramente scientifico o astratto di conoscenza. Con riferimento agli studi filosofici di Gilbert Ryle e Michael Polanyi, assunse una concezione di conoscenza pratica e legata al fare. In relazione invece all’economista e filosofo austriaco Friedrich von Hayek (1899-1992) – e in particolare al suo saggio The Use of Knowledge in Society (1945) – fece propria una concezione soggettiva della conoscenza, interpretata in senso critico come opposizione alle informazioni supposte “perfette” dal pensiero economico. Come risultato di questa summa di ispirazioni, Machlup mise a punto la propria nomenclatura di cinque tipi di conoscenza: pratica (o professionale); intellettuale; del passatempo (cioè legata al divertimento e alla curiosità); spirituale; involontaria (acquisita incidentalmente).

Machlup non mancò di riflettere sui meccanismi di produzione e distribuzione delle conoscenze, identificando ben sei tipi di produttori: il trasportatore (distribuisce esattamente quel che ha ricevuto); il trasformatore (cambia la forma del messaggio, ma non il suo contenuto); l’elaboratore (interviene sia su forma che contenuto con procedure di routine e combinatorie); l’interprete (cambia forma e contenuto usando l’immaginazione e la traduzione); l’analista (utilizza il proprio giudizio critico al punto da mutare radicalmente il messaggio originario); il creatore (aggiunge così tanto grazie alla propria invenzione da allontanarsi in massima misura da quanto ricevuto).

Grazie al pensiero e alle definizioni che contiene, The Production and Distribution of Knowledge in the United States rappresenta un testo cruciale per lo studio sulla produzione e disseminazione delle conoscenze in ogni ambito sociale.

[ illustrazione: il platonico “mito della caverna”, allegoria della conoscenza, in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam ]

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APPRENDIMENTO, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

Edward Filene, dallo shop management alla traduzione simultanea

Benché trovi un antecedente nel semplice atto del bisbigliare nelle orecchie, la traduzione simultanea come processo mediato dalla tecnologia ha un preciso anno di origine, il 1925. Nel contesto della Società delle Nazioni, nata nel 1919, le due lingue parlate nel quartier generale di Ginevra erano inglese e francese, motivo per cui un processo di traduzione era continuamente necessario. Per qualche anno si utilizzò l’inefficace pratica della traduzione consecutiva, finché Edward Filene (1860-1937) non propose di accorpare in un unico atto l’ascoltare, il tradurre e il parlare.

Edward Filene è uno dei personaggi più interessanti vissuti tra il secolo XVIII e il XIX. Nativo del Massachussetts, ereditò l’attività familiare di commercio di abbigliamento e sviluppò insieme al fratello la catena Filene’s. Ispirato dagli aspetti più illuminati dello scientific management tayloristico, mise a punto moltissime innovazioni nei processi di gestione di magazzino e di vendita. Fra queste, il meccanismo del cosiddetto “automatic bargain”, secondo il quale i prodotti venivano automaticamente scontati e spostati dal piano terra al piano sotterraneo del magazzino, per poi essere infine – se di nuovo invenduti – donati in beneficenza. Filene introdusse inoltre sistemi per il match dei colori dei tessuti e complete e trasparenti policy nei confronti dei clienti, compreso l’ormai classico “soddisfatti o rimborsati”. Fu estremamente corretto e solidale con la classe lavorativa, sostenendo lo sviluppo di cooperative di credito in tutto il Paese e agendo a livello più generale come filantropo, quasi rendendo fattivo l’involontario gioco di parole suggerito dalla radice “fil-” del suo cognome.

Per quanto riguarda la Società delle Nazioni – di cui Filene fu immediato sostenitore – e la traduzione simultanea, furono probabilmente gli stessi principi di scientific management praticati da Filene nella sua azienda a suggerirgli l’innovazione. L’inefficienza della traduzione consecutiva raddoppiava infatti i tempi di traduzione, cosa inammissibile per una comunicazione efficace. L’intuizione di Filene venne sviluppata sul piano tencnologico grazie a un coeso gioco di squadra che coinvolse l’ingegnere meccanico inglese A. Gordon-Finlay e il fondatore dell’IBM Thomas Watson Sr. In seguito alla loro introduzione, le cabine di traduzione simultanea vennero utilizzate sporadicamente durante gli anni ’30 a Ginevra e in Unione Sovietica, per poi riemergere durante il processo di Norimberga.

[ illustrazione: cabina di traduzione simultanea presso il quartier generale dell’aviazione internazionale Montréal, 1949 ]

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STORIE

A proposito di Ian Fieggen, “professor lacci da scarpe”

«Mamma diceva sempre che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose: dove va, cosa fa, dove è stata».
Dal film Forrest Gump, 1994.

Se la massima della madre di Forrest Gump può essere mai stata presa davvero sul serio da qualcuno, in cima alla lista dei sospettati compare il nome dell’australiano Ian Fieggen, ex programmatore e per gli amici “professor lacci da scarpe”.

Allacciarsi le scarpe è un gesto tanto quotidiano quanto automatico, di norma oggetto di ben poca riflessione. Tuttavia, se è vero che “il diavolo è nei dettagli”, delle stringhe ben allacciate possono fare la differenza. O almeno questo è quanto deve aver pensato Fieggen: secondo la leggenda – ovviamente alimentata da lui stesso – è stato un laccio spezzato nel 1982 ad aver dato vita alla sua missione, cioè quella di mettersi in cerca del nodo per scarpe perfetto. Nel corso degli anni Ian ha individuato ben 41 modi per stringare le scarpe e 18 per fare il nodo, tutti accuratamente descritti nel suo sito web , lanciato nel 2000 e a oggi visitato da circa 9000 persone al giorno.

A ben vedere, a Ian – che è anche autore di un libro (ovviamente intitolato Laces) e di una app per iPhone – non pare interessare tanto il lato estetico dell’allacciarsi le stringhe, quanto quello funzionale. «I’m passionate about efficiency», dichiara nel suo sito, e riprova di questo spirito, da vero taylorista delle calzature, ha frazionato il processo dell’allacciarsi le scarpe in sei diversi step. Non contento di questo traguardo, Ian ha trovato il modo di rendere questi step tre volte più veloci, mettendo a punto un nodo rivoluzionario indicato come “Ian’s knot”, niente meno che il modo per allacciarsi le stringhe più veloce ed efficiente del mondo. A fronte di questo successo, Ian ha solo un cruccio: quello di non essere stato ammesso al Guinness dei primati. Pare infatti che la sua disciplina sia stata valutata un po’ troppo specialistica.

[ illustrazione: fotogramma dal film di Robert Zemeckis Forrest Gump, 1994 ]

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