ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, IRONIA, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ

Chi ha paura della barba manageriale?

È probabile siano in molti ad aver notato sul volto di Sergey Brin, co-fondatore di Google, lo spuntare di una barba; quasi certo è che Stephen Mihn, collaboratore del «New York Times», sia il solo ad aver pensato di tratteggiare un’analisi manageriale ispirata a questa emergenza pilifera.

Assecondando il punto di vista di Mihn, la storia degli intrecci fra capitale e irsutismo facciale può essere riassunta da un’opposizione binaria: quando a primeggiare è l’idiosincratica affermazione imprenditoriale del singolo, le barbe germogliano; nei periodi in cui il mercato impone la lingua spersonalizzata e inglobante delle corporation, sono invece schiuma e rasoio a dettar legge.

Per gran parte dell’età moderna, i rappresentanti di spicco del mondo economico – tanto in Europa quanto negli USA – hanno dato prova di avere a cuore un volto ben rasato. Attorno alla prima metà dell’800, questo trend è stato ulteriormente rafforzato dalle scelte estetiche dell’élite intellettuale socialista: le barbe di Marx ed Engels si sono rapidamente imposte come simbolo della lotta al capitalismo, spingendo chi stava dall’altra parte della barricata, terrorizzato, ad ancor più frequenti visite al barbiere di fiducia.

I moti nazionali del 1848 in Europa, così come la guerra civile in terra americana, segnarono un’inversione di rotta, associando i peli facciali all’affermazione di un patriottico e borghese senso di mascolinità. In seguito a questo rivolgimento sociale, la barba diventa tratto essenziale della classe capitalista. Titanici uomini d’impresa come Andrew Carnegie o Henry Clay Frick – peraltro passato alla storia come “peggior amministratore delegato di sempre” – fecero della loro barba larger than life un amuleto di individualismo e dominio sul mercato.

Le cose cambiarono di nuovo a fine ‘800: la ribellione della forza lavoro mondiale generò leader operai contraddistinti da lunghe, spettinate barbe. Il vello facciale tornò a spaventare il capitalismo, che non poté fare a meno di riprendere a rasarsi con cura (in suo aiuto giunse, nel 1901, il primo rasoio di sicurezza Gillette). Negli corso del Novecento barba e baffi sparirono, lasciando campo al dominio del liscio, inespressivo volto del dirigente delle grandi multinazionali.

Negli anni 2000, la barba appare priva di particolari connotazioni ideologiche e non spaventa più nessuno. Ecco perché sembra così adatta – al netto della moda hipster, secondo molti ormai in calo – per il volto del capitalismo geek rappresentato da Sergey Brin.

[ illustrazione: Robert Taylor, Dictionary of Beards,  2010 ]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, COLLABORAZIONE, COMUNICAZIONE, LAVORO, MOBILITÀ, PERCEZIONE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Cosa perdiamo quando guadagniamo tempo grazie alla tecnologia?

Con Diario d’antepace (1950) lo scrittore svizzero Max Frisch ha composto un’eterogenea raccolta di note di viaggio, abbozzi letterari, pensieri sulla natura umana. Molte osservazioni contenute nel libro riguardano il ruolo assunto dalla tecnica nel mutare la nostra percezione delle distanze spaziali e temporali. Pensando all’oggi, è senz’altro facile allinearsi al coro di quanti sostengono che i più moderni mezzi di comunicazione connettono “annullando le distanze”. È d’altro canto innegabile che tutti noi facciamo quotidiana esperienza della fredda e impersonale relazione instaurata, tanto in ambito lavorativo quanto personale, da strumenti come le e-mail. Più di sessant’anni fa, Frisch riconosceva con profonda lungimiranza questo fenomeno, notando come:

«Non sappiamo più prendere sul serio delle persone quando non le abbiamo più a portata dei nostri occhi».

In tema di tecnica e annullamento delle distanze, uno dei passaggi più acuti del testo di Frisch è dedicato alle indesiderate conseguenze dell’innovazione legata ai mezzi di traporto e, nello specifico, al treno. In tempi in cui un viaggio Roma-Milano necessita ormai meno di tre ore, è  il caso di chiedersi se guadagnando tempo perdiamo forse qualcosa:

«Esattamente cent’anni or sono, la prima ferrovia attraversava il nostro paese: trenta chilometri all’ora. È chiaro che non ci si poteva fermare lì. Il segno che abbiamo superato il nostro ritmo è nel disappunto che proviamo ogni volta che una macchina ci sorpassa; è vero che noi stessi corriamo a tale velocità che la mia percezione della realtà non ce la fa più a tenerle dietro; ma nella speranza di raggiungere un’esperienza perduta, acceleriamo ancora. È la promessa diabolica che ci attira sempre più verso il vuoto. Neanche un aereo a reazione raggiungerà il nostro cuore. Esiste, sembra, una misura umana che non possiamo modificare, ma solo perdere. Che l’abbiamo perduta, è fuor di dubbio; il problema è ora questo: possiamo riacquistarla e come?».

[ illustrazione: particolare da Il treno di Fortunato Depero, 1926 ]

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CAMBIAMENTO, CONCETTI, ECONOMIA, INTERNET, MARKETING, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Sharing is caring? L’illusoria economia della web-condivisione

Fra i critici dell’ideologia dell’accesso propagandata dal web, un posto di particolare spicco è occupato dal giovane studioso bielorusso Evgeny Morozov. Nel suo contributo comparso il 05.10.14 sul supplemento domenicale de «Il Corriere della Sera» (e originariamente pubblicato su «The Guardian»), Morozov si concentra sul fenomeno dello “sharing” – rigorosamente a pagamento – di beni o servizi tramite app per smartphone. Il caso più chiacchierato – per via delle proteste dei tassisti – è senz’altro quello dei di Uber, ma anche il car sharing in generale o, per considerare un diverso ambito, il bed & breakfast di Airbnb costituiscono a loro volta chiari esempi del progressivo affermarsi di un nuovo meccanismo economico.

Un futuro in cui porre un QR code su un qualsiasi oggetto costituirà la premessa per il suo noleggio pare essere estremamente vicino. Saremo tutti micro-imprenditori di una ricca e democratica economia della condivisione. Chi avrà qualcosa potrà immediatamente trasformarlo in opportunità di affitto e guadagno; viceversa chi non lo avrà potrà comunque usufruirne senza restare vittima delle trappole della società borghese, rinunciando allo status del possesso e imparando a vivere in maniera più sostenibile. Contribuiremo tutti a risolvere il problema degli eccessi di consumo, sopravvivendo felicemente con meno risorse. Ecco, questa è la prospettiva di “decrescita felice via web” che probabilmente ci attende, almeno stando a quanto prefigurato dai sostenutori della sharing economy, la cui voce principale è oggi quella del sito-portabandiera Peers.org.

Che cosa ne pensa Evgeny Morozov? In poche parole, tutto il male possibile:

«Il problema maggiore delle visioni ottimistiche diffuse da organizzazioni come Peers.org è che esse si limitano a razionalizzare le patologie dell’attuale sistema economico e le presentano come scelte consapevoli da parte del pubblico. È bello poter scegliere tra affittare e possedere, ma è una scelta che molti non arrivano a fare».

L’economia dello sharing può forse aiutare un buon numero di persone a trovare più sopportabili le conseguenze dell’attuale crisi finanziaria, ma non fa nulla per incidere sulle sue cause. A ben vedere, come notato dallo stesso Morozov qualche tempo fa in un pezzo per il «Financial Times», la sharing economy altro non è che “liberismo sotto steroidi”. Attraverso l’illusoria promessa di un sistema di scambio economico più democratico e solidale – e con la seducente opportunità di noleggiare lusso e comfort a buon mercato – lo sharing anestetizza i “normospendenti” nascondendo ai loro occhi il crescente aumento di disparità economiche. Rispetto alle dinamiche di trasparenza e opacità degli scambi economici, internet sta assumendo un ruolo che Morozov non esita a definire politico. È esattamente su questo fronte che una crescita di consapevolezza collettiva si fa di giorno in giorno sempre più necessaria.

[ illustrazione: Weegee, Children on Fire Escape, 1938 ]

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CONCETTI, CREATIVITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PAROLE, SOCIETÀ, STORIE, TEORIE

Di quella volta che l’esercito americano inventò la creatività

Un titolo somiglia a un amo: vive per catturare l’attenzione e per riuscirci non disdegna ricorrere all’inganno. In questo caso la menzogna è parziale, poiché parlare di una invenzione della creatività è fuorviante solo in termini assoluti. Trattandosi anzitutto di un’etichetta, il senso della parola creatività dipende dalle condizioni di contesto in cui di volta in volta viene usata. Un articolo del «New Yorker» dal titolo Creativity Creep si cimenta in una ricognizione di queste progressive reinvenzioni.

La nostra creatività, quella di cui parla la tanta letteratura oggi a essa dedicata, è riconducibile a un agire centrato sull’individuo. Di questi tempi nessuno si sognerebbe, come invece accaduto in epoche remote, di attribuire il merito di una buona idea all’ispirazione divina o qualsivoglia altro fattore esterno alla volontà umana. L’interiorizzazione della creatività inizia a prendere forma a partire dal Romanticismo, in particolare con l’idea di immaginazione. Samuel Coleridge (1772-1834) ne distingueva due tipi: da un lato un’immaginazione mondana, deputata a stilare piani e risolvere problemi; dall’altro un’immaginazione più nobile, motore di un’ispirata esperienza del mondo. L’influenza di questi due orientamenti – una creatività pratica e una contemplativa – ha continuato a essere paritaria fino al momento in cui qualcuno ha suggerito che privilegiare una delle due direzioni potesse essere decisamente utile.

Nel settembre 1950, nel contesto di un congresso dell’American Psychological Association, venne pronunciato un discorso destinato a esercitare enorme influenza in tema di creatività. Un oscuro psicologo di nome J. P. Guilford rese pubblico il resoconto delle ricerche da lui condotte durante la seconda Guerra Mondiale dietro mandato dell’esercito americano. Incaricato di escogitare un metodo efficace per selezionare nuove reclute per l’aviazione, Guilford fece ricorso alla categoria di creatività, costruendo una serie di test orientati alla produzione di idee e al cosiddetto pensiero divergente. Chiunque sia stato coinvolto in giochi che pongono domande del tipo “quanti usi alternativi sai trovare per questa penna / graffetta?” sa di cosa si parla. Il successo dei test di Guilford è da attribuirsi a due fattori: enfasi sulla misurabilità e orientamento a un prodotto. Se il contesto di Coleridge era permeato di Romanticismo, quello di Guilford risente, oltre che dell’ideologia militare, di almeno quattro decenni di organizzazione scientifica del lavoro. Nessuna sorpresa nel constatare come negli anni seguenti il principale campo di azione di questa nuova e pragmatica accezione di creatività sia diventato il mondo delle aziende.

Cosa sostiene, dunque, l’odierna vulgata della creatività? Che coltivare l’immaginazione nobile di Coleridge non è sufficiente. Bisogna essere in grado di concretizzare le proprie idee. Di produrre un output, per dirlo in termini aziendali. L’interiorizzazione di questa linea di pensiero – nota l’articolo del «New Yorker» – rende impossibile parlare di creatività senza prefigurare un prodotto. Da buoni membri della società dei consumi, non ci limitiamo a proiettare i nostri desideri su oggetti presentati come frutto di creatività, ma vogliamo andare oltre: viviamo l’anelito stesso alla creatività alla stregua di un meta-consumo, cioè come un modo per risalire lungo la catena che dal produttore giunge a noi consumatori. La tensione verso la realizzazione di questo bisogno non potrebbe essere più lontana dalla disinteressata esperienza del mondo di cui parlava Coleridge.

[ illustrazione: lo “zio Sam”, opera di James Montgomery Flagg – 1917 ]

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ANTROPOLOGIA, ARCHITETTURA, CAMBIAMENTO, CITTÀ, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

Un libro, anzi due, per capire il lavoro d’ufficio

Nikil Saval, editor della rivista americana «n+1», esordisce con un testo che nasce da una lunga ricerca sugli ambienti del lavoro impiegatizio. Si tratta di Cubed (2014), ricognizione multidisciplinare – design, management, riferimenti a letteratura e cinema – che aiuta a comprendere perché il lavoro d’ufficio, con i suoi spazi e la sua capacità di generare culture e comportamenti, è in grado di incidere così tanto sulla società nel suo insieme.

Saval apre il suo lavoro rendendo omaggio a un riferimento classico, quel White Collar (1951) di Charles Wright Mills (1916-1962) che è considerato uno dei capostipiti della sociologia organizzativa. A ben vedere – come nota la collaboratrice del «New Yorker» Jill Lepore in una recensione che merita una lettura a sé – l’approccio di Saval è, più che sociologico, storico. Quanto il libro dispone agli occhi del lettore è un ideale diorama che potrebbe intitolarsi “l’ufficio attraverso il tempo”.

Con una prevedibile focalizzazione sulla storia del lavoro in America, Saval prende le mosse dalle “counting house” di metà ‘800, ambienti che oggi sorprendono per la loro dimensione angusta e per la grande prossimità tra datori di lavoro e impiegati. Prossimità destinata a sparire in nome dell’astrazione delle gerarchie organizzative, facilitata dall’estensione verticale dei grattacieli che dagli anni ’50 hanno iniziato a cambiare la fisionomia delle grandi città americane. Pensando a New York, vengono subito in mente la “black box” del Seagram Building o l’AT&T Building progettato dall’architetto “postmodernista” Philip Johnson.

Nel frattempo, l’interno degli spazi di lavoro incontra un’evoluzione inaspettata. Alla fine degli anni ’50, gli studi di ergonomia condotti dall’inventore americano Robert Propst (1921-2000) generano il prodotto di maggior successo di Herman Miller, il cosiddetto “Action Office”, spazio modulare pensato per l’ottimizzazione delle attività individuali. La semplificazione e banalizzazione dell’Action Office ha in seguito dato vita, concretizzando l’incubo isolazionista prefigurato da alcune sequenze di Playtime di Jacques Tati (1967), a quanto è oggi universalmente noto come cubicolo.

Il salto temporale successivo coincide con le prospettive sulla smaterializzazione e delocalizzazione del lavoro offerte dalle nuove tecnologie, rispetto alle quali il piglio storiografico è evidentemente meno praticabile di quello che procede per ipotesi. In sintesi, “l’ufficio attraverso il tempo” presentato da Saval offre una istruttiva e coinvolgente genealogia di spazi abitati quotidianamente ma spesso vissuti senza sufficiente consapevolezza.

Un altro testo incentrato sullo studio del lavoro impiegatizio, fonte di particolare orgoglio perché a firma di uno studioso italiano, è Uffici (2011) di Imma Forino. In questo caso l’indagine è più spiccatamente orientata al design degli uffici e dei loro arredi – l’autrice è docente di architettura degli interni al Politecnico di Milano – , senza comunque mancare di offrire spunti manageriali e socio-antropologici. In particolare, il testo ha il merito – oltre che di assumere una prospettiva non esclusivamente americanocentrica – di costruire una linea temporale che viaggia a ritroso fino a epoche non toccate dal lavoro di Saval. Forino parte dallo scriptorium dei monaci medievali e affronta, prima di giungere al Novecento, un percorso che arriva fino alla nascita della burocrazia (letteralmente: potere dello scrittoio) sette-ottocentesca. Di particolare interesse per il lettore italiano sono poi le parti di libro dedicate ai “torracchioni” nazionali (come li chiama il Luciano Bianciardi di La vita agra) e ai raggiungimenti tecnologici dell’Olivetti.

Difficile pensare a una “doppietta di lettura” più adatta a comprendere il mondo degli spazi di lavoro di quella formata da Cubed e Uffici, testi che sorprendono per consonanza e reciproca capacità di integrazione.

[ illustrazione: fotogramma da Playtime di Jacques Tati, 1967 ]

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BIGDATA, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

Ancora sul taylorismo 2.0: ecco il physiolytics e gli strumenti del “cottimo digitale”

Il sostantivo “cottimo”, termine dalla dubbia origine etimologica, suona oggi passatista e distante dalla realtà dei lavoratori del nuovo millennio. Peccato che, nota in un recente articolo Evgeny Morozov, proprio questi ultimi saranno le probabili vittime di una sua nuova e tecnologica versione.

Se Google e Apple si stanno affacciando sul mercato delle dimore automatizzate (evoluzione di quanto fino a ieri si etichettava come domotica), il fronte aziendale non sta a guardare e conia un termine – comparso per la prima volta a fine 2013 sulle pagine di «Harvard Business Review» – che suona decisamente sinistro: physiolytics. Crasi del suffisso physio- e della parola anaylitcs, la parola rappresenta il processo di integrazione tra dispositivi indossabili e analisi dei dati da essi raccolti, a tutto beneficio delle pratiche di gestione delle risorse umane e della performance.

Per godere di qualche anticipazione sui prodotti che prima o poi invaderanno uffici e officine basta fare un giro su Kickstarter e i siti web di alcune startup. Per esempio, XOEye Technologies produce occhiali “smart” simili ai celebri Google Glass, salvo il fatto che non sono pensati per essere indossati da geek californiani ma da operai. Rilevano il comportamento e i movimenti dei lavoratori, con particolare attenzione per quanto riguarda postura e sicurezza. Come nota Morozov, questi apparecchi possono essere estremamente ben recepiti dalle aziende: meglio investire in strumenti di controllo che permettano la prevenzione di infortuni che dover pagare – a fronte dell’assenza di un lavoratore – per assicurazioni e spese mediche.

Altri esempi? Robin, produce sensori orientati agli “smart offices” che monitorano gli spostamenti da un ufficio all’altro, tenendo sempre sotto controllo dove ci si trova e quel che si fa. Melon sta per immettere nel mercato una fascia che monitora l’attività celebrale in cerca di picchi cognitivi, ottimizzando di conseguenza il lavoro. L’orologio Spark promette di impedire che le persone prendano sonno nei momenti più importanti del loro lavoro, mentre il braccialetto Pavlok (il nome vi ricorda qualcosa?) ci punisce con una scossa quando manchiamo di completare un’attività programmata.

Il lato maggiormente critico della questione riguarda, poiché si tratta di dispositivi che vengono indossati, la progressiva estensione delle logiche di quantificazione proprie del lavoro ad aspetti della vita che in precedenza ne erano al riparo. Detto in altri termini, l’espressione “portarsi il lavoro a casa” è probabilmente destinata ad assumere un significato tutto nuovo.

[ illustrazione: fotogramma dal film Escape from New York di John Carpenter, 1981 ]

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CONCETTI, IRONIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, PAROLE, SOCIETÀ, TEORIE

Alle origini dell’aziendalese

Nelle imprese italiane si parla una lingua semplicistica, meccanica e frammentaria – un vernacolo riduzionista, verrebbe da dire – , che tratta in maniera sprezzante l’idioma nazionale malmenandolo con sferzate di inglese mal masticato. Il linguaggio del management (in Italia rigorosamente pronunciato “manàggment”) denuncia in maniera impietosa una generale – e ahinoi diffusa ben oltre il mondo delle aziende – sudditanza nei confronti della cultura made in USA, alla quale certo si deve l’origine del management stesso ma cui si poteva forse evitare di pagare un così oneroso tributo linguistico. Indagare la nascita di questo parlare – il più delle volte uno straparlare – conduce a ripercorrere le tappe dello sviluppo del linguaggio aziendale americano. Un ricco e divertente articolo appena pubblicato da «The Atlantic» a firma di Emma Green si cimenta esattamente con questa impresa, ricostruendo le origini dell’office talk.

Si parte da Frederick Taylor (1856-1915), ovviamente, grazie al quale termini come “accuracy”, “precision”, incentives”, “maximed production” (per ovvi motivi d’ora innanzi riporterò le parole nella loro lingua originaria) iniziano a diffondersi nel linguaggio aziendale di inizio Novecento. In seguito, tanto accademici quanto consulenti contribuiscono, con ondate legate ai decenni successivi e a corrispondenti correnti di pensiero, ad arricchire il vocabolario del business.

Negli anni ’50 e ’60, durante i quali si sviluppano le teorie degli studiosi della Carnegie Mellon e del MIT, a lasciare il segno è soprattutto la “hierarchy of needs” di Abraham Maslow (1908-1970), cui si deve anche la pronunciata e duratura attenzione per la “self-actualization”.

Negli anni ’80 le parole chiave aziendali si dividono in due filoni. Il primo è rappresentato dal pensiero organizzativo ispirato a Peter Drucker (1909-2005) – padre del “management by objectives” – e al suo lavoro di consulenza per aziende come General Electric. Si parla di espressioni come “task cycle”, “operational efficiency”, “80-20” (richiamo a Vilfredo Pareto). Il secondo filone nasce dalla finanza aggressiva di Wall Street – idealmente identificabile con il Gordon Gekko interpretato da Michel Douglas nell’omonimo film di Oliver Stone – e fa sue parole a oggi ancora usatissime quali “leverage” o “added-value”.

Negli anni novanta il mondo del marketing non manca di dire la sua, diffondendo l’uso di espressioni quali “hard-sell”, “mind share” e il diffusissimo “ideation”. A metà del decennio fa la sua comparsa, associata all’idea di innovazione, una parola destinata a essere estremamente influente negli anni a venire. Si tratta della “disruption”, e il suo apostolo è il docente di Harvard Clayton Christensen. Negli stessi anni, la cultura di Silicon Valley diffonde nuove espressioni quali “top-down” e “bottom-up”, senza mancare di rivitalizzarne di antiche, come “entrepreneur” e “venture capitalist”.

Gli anni 2000 segnano la comparsa del movimento dei life-hackers (si veda il sito omonimo), che mette in circolo termini legati alla crescita personale come “journey”, “passion”, “energy”, “purpose”, insieme a una grande attenzione per il “work-life balance”.

La storia del linguaggio aziendale è destinata a non si fermarsi qui. Ripercorrerla fa sorridere – soprattutto pensando al suo passaggio dalla cultura americana a quella di altre nazioni, fra cui l’Italia – ma al tempo stesso spaventa per la sua capacità di influenzare in maniera sorprendentemente diretta pensiero e pratiche lavorative. Come si nota in chiusura dell’articolo del «The Atlantic»:

«Tutti trovano questo linguaggio un po’ ridicolo, ma i manager lo amano, le aziende dipendono da esso e in media i lavoratori finiscono per assorbirlo».

[ illustrazione: striscia di Dilbert del 1994 – © Scott Adams ]

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APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, FRUGALITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Un diverso punto di vista sulla frugalità

Paolo Legrenzi, Docente di Psicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, esplora nel suo Frugalità (2014) un concetto che in tempi di crisi gode di particolare popolarità. Ma cosa significa essere frugali? Assumendo il punto di vista dello psicologo, la frugalità è un atteggiamento generale di fronte alla vita, una scelta di stile e buon gusto che poco o nulla ha che fare – come ha sostenuto Bruno Munari in Da cosa nasce cosa (1981) – con il lusso. La frugalità, nota Legrenzi, non è uno strumento orientato a uno scopo; deve essere coltivata come un fine in se stessa. Non si tratta, come nel caso della povertà, di una costrizione, ma del risultato di una libera scelta. Essere frugali significa rifiutare l’abbondanza e il superfluo, concentrandosi sull’essenziale.

Un simile approccio alla frugalità si distanzia fortemente da quello assunto dalla maggior parte dei libri di business orientati a questo tema. Come citato in apertura, se oggi si parla tanto di frugalità è principalmente a causa del generale contesto di crisi e della diffusa percezione di scarsità. Soprattutto per quanto riguarda le aziende, vissute per lungo tempo in un ambiente di abbondanza di risorse, ricorrere alla frugalità è oggi più un obbligo che una scelta. Proprio come lo è l’imparare a improvvisare per chi si è cullato per anni nella credenza che i piani possano essere immutabili e impermeabili ai cambiamenti di contesto.

La maggiore utilità del libro di Legrenzi è dunque questa: offrire un convinto paradigma di vita orientato alla frugalità a chi inizia solo ora a confrontarsi con questa parola. Benché l’autore sembri guardare i nuovi adepti dall’alto al basso (la frugalità è un sapere tacito che si impara da piccoli in famiglia, non una nozione che si apprende a scuola – sostiene Legrenzi), nelle ultime pagine di Frugalità (2014) stila un decalogo il cui senso può essere sintetizzato in una parola: autocontrollo.

[ illustrazione: Giuseppe Vermiglio, S. Paolo Eremita, circa 1649 ]

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CINEMA, INDUSTRIA, IRONIA, LAVORO, LIBRI, POLITICA, SOCIETÀ, STORIA

Gasparazzo, il fumetto della lotta operaia italiana

Gasparazzo è un personaggio nato nel 1971 dalla matita del compianto fumettista Roberto Zamarin (1940-1972 ) e comparso sulle pagine di «Lotta Continua» e in un libretto dal semplice titolo Gasparazzo (1972).

Gasparazzo – il cui nome rimanda a quello di Calogero Ciraldo Gasparazzo, carbonaio che partecipò alla rivolta di Bronte del 1860 – è un immaginario lavoratore meridionale che emigra a Torino come addetto alle linee di montaggio della Fiat. L’operaio Gasparazzo è vittima del tempo che vive e, insieme, del suo inevitabile radicamento nella cultura italiana. La sua lotta è contro la macchina, lo sfruttamento, le dinamiche di potere e di mafia, la nuova cultura aziendale importata dagli USA. E tuttavia il suo personaggio non è privo di aspetti qualunquisti, violenti e maschilisti espressione dello stesso sistema contro cui lotta. Gasparazzo, secondo le parole del suo creatore Zamarin:

«La politica la scopre giorno per giorno buttando la sua ribellione istintiva dentro al meccanismo disciplinato della grande fabbrica moderna. Per il resto vive come tanti altri come lui, segue lo sport, guarda la televisione, pensa alle donne».

Per comprendere il ruolo di Gasparazzo nella cultura italiana bisogna pensare, più che al romanzo industriale degli anni ’50 e ’60, a riferimenti contemporanei a Zamarin, per esempio i film La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Mimì metallurgico ferito nell’onore di Lina Wertmüller, entrambi risalenti al biennio 1971-1972. Lette oggi, le strisce del fumetto aiutano a ricordare un preciso momento della storia italiana – quando ancora esisteva una classe proletaria in senso proprio – e a interpretare la successiva evoluzione dell’ethos impiegatizio nazionale.

[ illustrazione: una tavola tratta da Gasparazzo di Roberto Zamarin, 1972 ]

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ARTE, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ, STORIA

White collar, la graphic novel italiana del 1938 che racconta la grande depressione

Genovese, emigrato negli Stati Uniti a soli diciotto anni, Giacomo Patri (1898–1978) può essere considerato fra i precursori dell’attuale graphic novel. Più correttamente, l’arte di Patri – attivo come illustratore e docente a Los Angeles – rientra nella categoria delle “wordless novel”, racconti in forma di sole immagini realizzati con tecniche di incisione e stampa a rilievo. Storicamente, il primo esempio di questo genere narrativo – fortemente debitore nei confronti dell’arte espressionista – è la novella del 1918 25 images de la passion d’un homme, realizzata dal belga Frans Masereel (1889-1972) a partire da incisioni su legno e incentrata sulle peripezie della classe operaia nella società industriale.

A simili tematiche si lega il capolavoro di Giacomo Patri, l’opera in linografia (incisioni su linoleum) White Collar (1938), frutto di tre anni di lavoro e di una paziente opera di stampa e rilegatura operata dall’autore stesso con la moglie. Con toni parzialmente autobiografici, la novella di Patri racconta le gesta di un illustratore pubblicitario che vive il suo sogno di ascesa sociale, senza troppo curarsi dei movimenti di protesta dell’attivismo operaio. Ma la cattiva sorte è in agguato, sotto forma della crisi finanziaria del 1929, che causa al protagonista la perdita del lavoro e l’accumulazione di una serie di debiti. La spirale di sfortune nella quale il protagonista e la sua famiglia precipitano sembra non avere fine, con la difficoltà nel sostentare l’ultimo nato, un lavoro indipendente fallito, un impiego da travet conclusosi con un licenziamento, la conseguente perdita della casa. Ormai in mezzo alla strada, il protagonista si libera finalmente dal suo “colletto bianco”, simbolo delle false speranze di scalata sociale e della stessa crisi del ’29, e si unisce al movimento operaio.

La splendida opera di Patri, che fu utilizzata dal movimento operaio americano per mettere il luce il comune pericolo corso in tempi di crisi sia dai colletti bianchi che da quelli blu, è oggi facilmente reperibile nel volume Graphic Witness (2007), che raccoglie quattro fra le migliori wordless novel delle origini (compresa 25 images de la passion d’un homme di Masereel).

[ illustrazione: tavola da White Collar di Giacomo Patri, 1938 ]

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