CINEMA, LAVORO, LETTERATURA, SCRITTURA

Lo stile e la ricerca secondo Hemingway e Tarkovskij

«Secondo me, però, quello che talvolta si definisce “stile” spesso non sono altro che le esitazioni di chi si è cimentato con un qualcosa che non era mai stato fatto prima. I nuovi classici non assomigliano mai ai classici dei periodi precedenti. E all’inizio, l’unica cosa che la gente nota, non essendo in grado di accorgersi di nient’altro, sono quelle esitazioni. Così quando si comincia a pensare che le esitazioni siano un nuovo stile, una marea di persone si mette a imitarlo. È davvero una brutta faccenda».

Queste parole di Ernest Hemingway (1899-1961), raccolte nel piccolo libro-intervista con il giornalista americano George Plimpton Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare (1954), affrontano il tema della ricerca di uno stile in scrittura. A detta di Hemingway, le idiosincrasie dello stile altro non sono che gli inciampi cui l’esplorazione del nuovo va incontro. Le tracce di queste esitazioni si cristallizzano sulla superficie della scrittura e vengono riconosciute come stile.

Rispetto a questo ragionamento, relativo alla scrittura ma applicabile anche ad altri contesti, utile è la correlazione con la metafora che dà titolo al libro citato, usata da Hemingway per rendere conto della relazione fra lavoro preparatorio e opera compiuta. Il “principio dell’iceberg” afferma che il lavoro di indagine, ricerca e approfondimento deve restare nascosto in profondità, sotto l’acqua, offrendo ai destinatari dell’opera solo l’essenziale, quel che deve vedersi in superficie. Che è poi il luogo in cui si depositano le esitazioni dello stile.

Vicine alle considerazioni di Hemingway sono quelle espresse da Andrej Tarkovskij (1932-1986) in Scolpire il tempo (1988):

«Nulla ha meno senso della parola “ricerca” applicata all’opera d’arte».

Secondo il grande regista, la ricerca – cioè la parte sommersa dell’iceberg – non deve essere confusa con ciò che emerge, cioè l’opera in sé. Chi mette in primo piano la ricerca – e qui il bersaglio critico di Tarkovskij è proprio tutta l’arte che si definisce “di ricerca” – denuncia un’incapacità nel dar forma a un’opera compiuta e lascia emergere, non senza una certa dose di vanità, quanto dovrebbe restare sommerso.

[ illustrazione: Ernest Hemingway, foto di Earl Theisen, 1952 ]

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ARTE, CONCETTI, RAPPRESENTAZIONE, SCRITTURA, SEGNI

L’invenzione del cuore come simbolo d’amore

Il Roman de la Poire, attribuito a un certo Messer Thibaut, è un poema allegorico francese del XIII secolo compilato sulla falsariga del coevo e più celebre Roman de la Rose. Benché il primo dei due testi non sia mai riuscito a conquistare un successo pari a quello del secondo, merita di essere ricordato per lo meno per un motivo.

In una delle miniature che ne decorano l’inizio dei paragrafi, per la precisione in corrispondenza di una “S”, compare una allegoria del “dolce sguardo” in cui un uomo, inginocchiato ai piedi dell’amata, offre il proprio cuore in segno di amore. L’elemento conico, stilizzato (e “capovolto” rispetto a come oggi ce lo immagineremmo), rappresenta il primo disegno iconico e allegorico del cuore umano inteso come simbolo e pegno d’amore.

Nel corso del XIV secolo il simbolo del cuore si ripresenta in più occasioni nell’arte italiana, per esempio nell’allegoria della Carità inserita da Giotto fra gli affreschi della Cappella degli Scrovegni di Padova (1305). Un “affinamento” della rappresentazione simbolica del cuore, che porterà a disegnarlo accentuandone punta e incavo e soprattutto capovolgendolo rispetto alle prime raffigurazioni, avrà luogo nel corso dello stesso secolo XIV, fino ad arrivare a una istituzionalizzazione nel secolo XV con il suo inserimento nei mazzi di carte per rappresentare il seme dei cuori.

[ Jeff Koons, Hanging Heart (Red/Gold), 1994-2006 ]

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APPRENDIMENTO, CINEMA, COMUNICAZIONE, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Le innovazioni della macchina da scrivere

In tema di tecnologie comunicative, la storia delle innovazioni legate alla macchina da scrivere è fra le più interessanti. Originariamente sviluppatasi in Europa tra il 1830 e il 1870 circa, la macchina da scrivere diede vita a una miriade di sperimentazioni che continuarono a fiorire, anche oltreoceano, fino agli anni ’70 del XX secolo (sostanzialmente, fino all’avvento dei personal computer).

Una delle più curiose “piste” innovative dello sviluppo della macchina da scrivere fu quella legata alla presenza di elementi sferici nel design. Paradigmatica in questo senso fu la “Writing Ball” prodotta dal danese Rasmus Malling-Hansen a partire dal 1870. Sferica nel suo complesso, questa macchina da scrivere fu il primo modello distribuito commercialmente, nonché strumento d’elezione per gli ultimi anni di attività di Friedrich Nietzsche.

A novant’anni di distanza – e in questo caso in America – un elemento di design sferico tornò a comparire nella cosiddetta “golf-ball” del modello IBM Selectric. Commercializzata dal 1961, questa macchina da scrivere presentava, al posto delle classiche “stanghette” individuali per le lettere, un elemento rotatorio in grado di imprimere su carta i caratteri. L’invenzione di questo dispositivo è stata recentemente “romanzata” dal film Tutti pazzi per Rose (2012) di Régis Roinsard, in cui ad avere l’idea è un francese che poi cede a mani americane, notoriamente più scaltre in termini di business, lo sviluppo del progetto.

[ illustrazione: fotogramma dal film Populaire (2012) di Régis Roinsard ]

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SCRITTURA, SEGNI

Alle origini dell’hashtag

Molti dei simboli tipografici resi popolari da computer e internet provengono da una lunghissima storia, che trae origine dall’intreccio di segno e immagine e si sviluppa nell’evoluzione dei significati. Il testo di Keith Houston Shady Characters: The Secret Life of Punctuation, Symbols, & Other Typographical Marks (2013) racconta le storie di molti di essi.

Un esempio è il simbolo #, in Italia tradizionalmente “cancelletto” (di telefonica memoria), internazionalmente “octothorpe” e, più confidenzialmente – soprattutto grazie a software come Twitter – “hash” o “hashtag”. Le origini del “cancelletto” risalgono al XIV secolo e all’introduzione in scrittura dell’abbreviazione “lb”, che stava in latino per “libra pondo” (cioè “del peso di una libbra”). All’epoca degli amanuensi molte abbreviazioni testuali venivano dotate di una linea orizzontale che attraversava i caratteri ed è in questo modo che, a lungo andare e di semplificazione in semplificazione, “lb” divenne semplicemente “#” e così venne in seguito riprodotto in stampa. Lo studio di Houston lascia a ogni modo pieni di curiosità: la riscoperta del simbolo “#” nel XX secolo in relazione ai tastierini numerici dei telefoni meriterebbe di essere indagata, così come la sua possibile parentela con il virtualmente identico segno del “diesis” usato nella notazione musicale.

[ illustrazione: un esempio di “manicula”, altro segno tipografico di origini antiche ]

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APPRENDIMENTO, DIVULGAZIONE, MUSICA, SCRITTURA

Scrivere di musica: la lezione di Lester Bangs

Lester Bangs (1948-1982) è stato il critico musicale più eterodosso che si possa immaginare. Se è vero che “scrivere di musica è come ballare di architettura”, di certo Bangs, con i suoi articoli difficilmente definibili come recensioni (anche perché spesso incentrati su dischi inesistenti…), ha inventato passi e coreografie mai più replicati. Vale la pena di recuperare il lavoro di scrittura di Bangs, anche perché Minimum Fax ha di recente dato alle stampe in italiano le raccolte Impubblicabile!, Guida ragionevole al frastuono più atroce, Deliri, desideri e distorsioni.

In un articolo pubblicato dal «New Yorker», la giornalista Maria Bustillos descrive quel che di più importante ha imparato da Bangs:

«He understood that what young people wanted was something still more than to break free of parental bonds. We wanted to know exactly what was being hidden from us. Bangs’s great gift to the kids who formed his most passionate following was the news that this information was available to us; it could be found in books».

Il lavoro di Bangs si dimostra in questo senso rivoluzionario: prendendo le mosse da una nicchia giornalistica spesso davvero asfittica e conformista, è riuscito non solo a trasformare la scrittura musicale in letteratura, ma anche a fornire ai suoi lettori una serie di rimandi interculturali in grado di costruire un sincero e veritiero romanzo di formazione. Il tutto, come si evince da queste sue parole, senza mai prendersi mai troppo sul serio:

«The first mistake of Art is to assume that it’s serious. I could even be an asshole here and say that “Nothing is true; everything is permitted,” which is true as a matter of fact, but people might get the wrong idea. What’s truest is that you cannot enslave a fool».

Parlare di Lester Bangs, infine, offre un’ottima occasione per riguardare Philip Seymour Hoffman (1967-2014) interpretarlo nel film Almost Famous (2000).

[ illustrazione: Lester Bangs ritratto da Roni Hoffman ]

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PAROLE, SCRITTURA, STORIE

Linguaggio e identità

Louis Wolfson, nato a New York nel 1931, è affetto da schizofrenia e fin dalla giovane età rifiuta la lingua materna e pratica un sistema di traduzione simultanea in più lingue che lui stesso ha messo a punto. Da ragazzo, Louis parla col padre in yiddish e in tedesco, mentre cerca di comunicare in russo con la madre. Proprio quest’ultima – il cui accostamento alla lingua “materna” non è casuale – è al centro del testo Le Schizo et les langues, scritto da Wolfson interamente in francese e pubblicato da Gallimard nel 1970.

Il caso di Wolfson ha suscitato l’interesse specialistico degli psicanalisti, ma anche un solido seguito da parte di molti intellettuali francesi, in particolare per la sua scelta di rifiutare la lingua inglese spostandosi verso il francese, “fuga” da molti interpretata come simbolo di resistenza a un’egemonia culturale.

Uno degli aspetti linguisticamente più interessanti della questione – messo a fuoco da un dossier pubblicato dalla rivista on-line Kasparhauser – riguarda l’opposizione alla logica del linguaggio come segno arbitrario. Per Wolfson ogni lingua è cosa a sé e proprio per questo gli è possibile rifiutare l’inglese abbracciando altri idiomi, motivando la scelta in base a specificità di una singola lingua non riducibili a quelle di altre.

Dopo aver soggiornato in Canada, Wolfson vive ora a Porto Rico. Nel corso degli anni ha scritto diversi testi in cui, oltre a continuare il racconto del rapporto con la madre (per esempio in Mia madre, musicista è morta…), spazia fra temi di ogni genere. Fra questi va annoverata anche una forte passione per le scommesse che pare l’abbia reso milionario.

[ illustrazione: elaborazione grafica di un ritratto fotografico di Louis Wolfson ]

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