CULTURA, POLITICA, SOCIETÀ, STORIA

Svizzera: fra difesa e neutralità nelle memorie di Max Frisch

«La nostra volontà di difesa si fondava sulla speranza che la semplice esibizione della nostra volontà di difesa dissuadesse il nemico».

In Svizzera il servizio militare è obbligatorio. A fine 2013, quando un referendum popolare antimilitarista ne ha chiesto l’abolizione, la risposta del 73% della popolazione è stata “no”. Per essere compresa, questa scelta va relazionata – in maniera non dissimile da quella di un successivo e più noto referendum, quello del 9 febbraio 2014 –  alla celebre neutralità della nazione: è dal 1674, anno della prima dichiarazione di neutralità dei Cantoni, che la Svizzera si mostra non più “guerriera” ma pronta a difendersi.

Max Frisch (1911-1991) fu arruolato nell’esercito svizzero a più riprese, con la mansione di cannoniere. In particolare, prestò servizio tra il 1939 e il 1940, momento in cui la Svizzera era minacciata di invasione da parte delle truppe tedesche, secondo i piani della mai attuata “operazione Tannenbaum”. La preparazione dell’esercito svizzero fu organizzata con rigore e disciplina, anche se accompagnata dallo spirito espresso dalle parole citate in apertura, tratte da Libretto di servizio (1974), memoriale dedicato da Frisch alla sua esperienza di soldato.

Partendo dall’autobiografia e assumendo progressivamente il ruolo di critico attento e intransigente, Frisch descrive quello che in quarta di copertina dell’edizione italiana del libro (Einaudi, 1977) viene definito come un “limbo ambiguo”, vale a dire la mescolanza di preoccupazione, opportunismo politico e obbedienza che caratterizzava la società svizzera di quegli anni, realizzandone un ritratto a tutto tondo non privo di amara ironia:

«Decisivo è il senso del quotidiano. Il vero svizzero non si lascia andare alle utopie, per cui si considera un realista. La storia svizzera, così come viene insegnata, gli ha sempre dato ragione».

[ illustrazione: cartolina svizzera, anni ’30 ]

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APPRENDIMENTO, DIVULGAZIONE, EPISTEMOLOGIA, MEDIA, POLITICA, SOCIETÀ

Pedagogia dell’intrattenimento e ruolo politico della televisione

Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (1985) di Neil Postman (1931-2003) rappresenta il testo capostipite del discorso sociologico rivolto al medium televisivo. Sulla scorta di Marshall McLuhan, Postman prende molto sul serio la tv come strumento di comunicazione e più in generale come incarnazione di un nuovo tipo di epistemologia, giungendo a criticarla radicalmente con affermazioni di questo tipo:

«La frase “una televisione seria” è una contraddizione in termini; la televisione parla con una sola voce persistente: la voce dell’intrattenimento».

A distanza di poco meno di trent’anni, in Televisione (2013) Carlo Freccero riprende le fila del discorso di Postman adattandolo allo specifico italiano e alla propria esperienza di autore e dirigente televisivo. È dunque dall’interno del sistema tv che Freccero costruisce la sua analisi del ruolo che questo medium ha rivestito, si può ben dire, rispetto all’educazione di un intero Paese.

Cruciale, nell’evoluzione del ruolo della televisione e della sua capacità di plasmare la coscienza collettiva, è stato il tacito passaggio di consegne avvenuto tra la tv pubblica e quella commerciale. Se da un lato la tv di servizio portò a termine l’unificazione linguistica del Paese, il suo fallimento si espresse nell’incapacità di svincolarsi da un modello educativo che lo stesso medium televisivo (e poi internet) era destinato a rendere obsoleto:

«La televisione di servizio pubblico assomiglia a quel modello di scuola pre-’68 in cui tutto il potere si concentrava nelle mani dell’insegnante e non nel sapere come patrimonio condivisibile e condiviso».

Al contrario, la tv privata di Berlusconi fu capace di innestare un cambiamento morale (che solo oggi siamo in grado di comprendere appieno) legandolo a un atteggiamento compiacente orientato non all’educazione del pubblico ma alla sua fidelizzazione. Il pubblico diventa sovrano e ovviamente, tornando a Postman, l’intrattenimento è il suo fine ultimo. Su questo tema, Freccero è bravissimo a mostrare come il salto da una tv populista a una politica populista sia stato naturale, probabilmente inevitabile.

[ illustrazione: un momento del programma Telemike, 1987 ]

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ARTE, COMPLESSITÀ, CULTURA, DIVULGAZIONE, MUSICA, POLITICA, SOCIETÀ

CIA e propaganda, da Pollock ai Nirvana

Un breve saggio del musicista e autore Adam Krause cerca di analizzare il ruolo rivestito da arte e musica all’interno della propaganda culturale sotterranea agita dalla CIA a partire dall’epoca della Guerra Fredda.

Rispetto all’arte visiva, quanto emerge dall’indagine – che si rifà a varie fonti raccolte nel corso degli anni e quindi non può considerarsi esattamente inedita – è la spiccata “preferenza” manifestata dalla CIA per l’espressionismo astratto, con una particolare connessione con il MOMA di New York e, ancor più nello specifico, con l’opera di Jackson Pollock. Per quali motivi l’action painting di Pollock è risultato così affine all’orientamento della CIA? Krause si esprime così:

«A lone cowboy figure like Pollock, born in Wyoming and transplanted to New York, heroically flinging paint with reckless abandon. The visual embodiment of “freedom.” Pure form. No content. Just an ideologically empty vessel waiting to be filled. And filled it was, as the CIA politicized this otherwise apolitical art, and by the power of the American dollar, helped make New York City the center of the art world».

Krause cerca di costruire anche rispetto alla musica un’interpretazione – in questo caso non comprovata da documenti attendibili e quindi più originale – del ruolo di sostegno svolto dalla CIA nei confronti di alcuni generi o artisti. Krause si focalizza in particolare sulla musica degli anni ’90 e sul raffronto fra due generi per molti versi distanti quali hip-hop e grunge:

«And is it really such a “coincidence” that “grunge” was heavily marketed to white suburban youth, inspiring them to strum guitars and mumble about their personal sadness, just as Public Enemy and NWA were successfully telling these same young people about the systemic racism of the United States? Why wouldn’t the CIA prefer flannel shirts to Malcolm X hats as the main sartorial signifier at suburban malls? Why would the U.S. Government want Chuck D saying “Fight the Power,” when it could have Kurt Cobain’s “Oh well, whatever, never mind”?»

[ illustrazione: Jackson Pollock in his East Hampton studio, summer 1950 – foto di David Lefranc ]

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CINEMA, COMPLESSITÀ, ECONOMIA, LAVORO, POLITICA, TECNOLOGIA

La Guerra Fredda e il successo di Silicon Valley

C’è un fondamentale dettaglio sull’ascesa di Apple Computer che l’apologetico (e in definitiva mal fatto) film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern manca di mettere in luce: quello delle condizioni di contesto di cui Steve Jobs e Steve Wozniak poterono giovarsi. Ne parla, indirettamente, un articolo della rivista Slate.

Negli anni della Guerra Fredda il governo americano, terrorizzato dal fatto che qualsiasi nuova scoperta potesse essere usata in chiave di arma militare, investì una ingente quantità di denaro nella ricerca accademica e scientifica. Un esempio di questa politica fu la nascita nel decennio 1958-1968 di ARPANET, esperimento comunicativo pilota destinato a dar vita negli anni successivi a internet.

In relazione alla compresenza di basi militari, centri tecnologici e poli universitari di prestigio, le due aree americane che più beneficiarono di investimenti governativi fin dagli anni ’40 furono Silicon Valley e la “route 128” in Massachussets (area di pertinenza del MIT e dell’università di Harvard). La spinta alla ricerca e la stabilità economica generate in quegli anni hanno costruito un formidabile humus culturale ed economico che nei decenni successivi ha permesso la sopravvivenza e il successo di moltissime startup tecnologiche fra cui Hewlett-Packard, Fairchild, Xerox – e ovviamente Apple.

[ illustrazione: fotogramma dal film Jobs (2013) di Joshua Michael Stern ]

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COMUNICAZIONE, POLITICA, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

La critica di Evgeny Morozov al cyber-ottimismo

Nel suo testo L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet (2011) l’esperto di nuovi media Evgeny Morozov indaga i molteplici aspetti critici dell’apparente democratizzazione di strumenti e contenuti prodotta dalle nuove tecnologie. Opponendosi alle opinioni di quanti bolla come “cyber-utopisti”, Morozov rilegge criticamente alcuni momenti della recente storia politica mondiale – dal crollo del muro di Berlino alle proteste post elettorali in Iran del 2009 – mostrando come il tanto acclamato ruolo rivestito in questi eventi dalle tecnologie (da Radio Free Europe a Twitter) sia stato molto più marginale di quanto una certa propaganda occidentale abbia voluto farci credere.

Rispetto al ruolo di internet, strumento apparentemente in grado di offrire a chiunque libertà di parola e informazione, Morozov svela la facilità con cui i regimi autoritari, in maniera molto più tecnologicamente efficace di quanto si potrebbe pensare, riescono a controllare i flussi telematici delle rispettive nazioni. In particolare, i meccanismi di profilazione personale della cosiddetta internet 2.0 risultano perfetti a questo scopo.

Ma quel che forse più colpisce delle analisi di Morozov è quanto egli osserva sull’atteggiamento di chi utilizza internet, con particolare riferimento al bilanciamento tra divertimento e noia e ai suoi influssi sull’impegno sociale e politico:

«I nuovi media e internet sono eccellenti nell’eliminare la noia. Prima la noia era uno dei modi più efficaci per politicizzare un popolo a cui erano state negate valvole di sfogo per incanalare lo scontento, ma oggi non è più così. In un certo senso, internet ha reso molto simili le esperienze di intrattenimento di coloro che vivono in uno stato autoritario e di coloro che vivono in una democrazia. I cechi di oggi guardano gli stessi film hollywoodiani dei bielorussi di oggi, molti probabilmente li scaricano dagli stessi server gestiti illegalmente in Serbia o Ucraina. L’unica differenza è che i cechi hanno già avuto una rivoluzione democratica, il cui risultato, fortunatamente per loro, è diventato irreversibile quando la Repubblica Ceca è entrata nell’Unione Europea. I bielorussi non sono stati altrettanto fortunati; e la prospettiva di una rivoluzione democratica nell’era di YouTube appare molto sinistra».

[ illustrazione: fotogramma dal film Nineteen-Eighty-Four di Michael Radford, 1984)

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