APPRENDIMENTO, LETTERATURA, MANAGEMENT

Sulla rivalutazione funzionalista della letteratura

Alcuni recenti studi hanno messo in luce un nuovo, pragmatico interesse per la letteratura. Leggere romanzi costituirebbe un aiuto allo sviluppo di skill relazionali e competenze manageriali soft. Perché dunque non inserire nella lista delle letture, fra gli ultimi best seller del marketing, un bel “classico”?

Questa riscoperta merita di essere esaminata con calma e senza farsi prendere da facili entusiasmi, soprattutto in tempi di crisi editoriali e di continui cali della lettura (non scordiamo che un italiano su due non legge neppure un libro all’anno e che per “lettore forte” si intende chi arriva appena a dodici, uno al mese). È quello che fa il ««New Yorker», notando come il punto chiave della rivalutazione funzionalista della letteratura sia riconducibile a una categoria fondamentale dell’etica lavorativa di stampo americano: i risultati. È infatti solo nel momento in cui la letteratura viene riconosciuta in grado di portare a un risultato misurabile – cioè allo sviluppo delle sopra dette skill relazionali – che essa viene ammessa nell’empireo del pragmatismo organizzativo.

Nessuna rivincita dell’umanesimo, quindi. Al contrario, un monito a vigilare perché l’asettico mondo delle “competenze” e delle “skill” non riduca l’esperienza della lettura a mera acquisizione di risultati misurabili. La letteratura è un ricchissimo strumento per la vita e dunque anche per il lavoro, a patto di non trattarla come un corso di aggiornamento su Excel.

[ illustrazione: foto di André Kertész dal volume On Reading, 1971 ]

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ARCHITETTURA, COMPLESSITÀ, DECISIONE, EPISTEMOLOGIA, MANAGEMENT

Satisfacing: quando il “buono abbastanza” è sufficiente per le nostre decisioni

Tra gli anni ’40 e ’50 l’economista e filosofo della scienza Herbert Simon (1916-2001) ha messo a punto il concetto di “satisfacing”. Neologismo basato sulla combinazione dei verbi inglesi “satisfy” (soddisfare) e “suffice” (essere adeguato), il termine sta a indicare un’idea di “buono abbastanza” che Simon ha applicato alle logiche di decision making.

Opponendosi alla classica teoria economica della massimizzazione dell’utilità individuale in un contesto di scelta, Simon ha sostenuto che le nostre limitate capacità cognitive non ci permettono né di raccogliere tutte le informazioni di cui avremmo bisogno per decidere, né di processare adeguatamente quelle di cui riusciamo a entrare in possesso. Ecco perché finiamo per accontentarci del “buono abbastanza”. La razionalità limitata di cui facciamo uso è evidentemente influenzata dalla complessità del contesto nel quale prendiamo decisioni. Non è dunque casuale che una delle applicazioni più fortunate della teoria di Simon sia stata l’ambiente lavorativo.

Un’interessante interpretazione del “satisfacing” è rinvenibile nelle pagine dell’eterodosso testo di architettura How Buildings Learn: What Happens After They’re Built (1994) di Stewart Brand. Il “buono abbastanza” viene qui riletto in una positiva ottica di adattamento che somiglia più alle funzionali approssimazioni dell’evoluzione biologica che alla spesso piatta prospettiva di alcune scelte organizzative “good enough”. Il “satisfacing” può dunque anche essere inteso, secondo le parole di Brand, come una dinamica che programmaticamente “riduce” i problemi invece di pretendere di risolverli. Punto di vista assai utile anche in ambito organizzativo.

[ illustrazione: Cornered by Mike Baldwin ]

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LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE, SCIENZA, TEORIE

Cervello e lavoro: ecco le ultime novità dalle neuroscienze

Un articolo del Wall Street Journal anticipa la probabile nuova “moda” in tema di studi sul cervello. Il suo assunto di base intende scardinare una delle teorie di maggiore successo in questo campo, quella delle differenze tra pensiero logico e intuitivo attribuite a emisfero sinistro e destro del cervello. Si tratta di una tesi popolare e longeva, nata da esperimenti condotti negli anni ’50 e ’60 dal neuropsicologo americano Roger Sperry (1913-1994). Quel che oggi sostengono gli esperti di neuroscienze è che considerare i due emisferi separatamente sarebbe in realtà artificioso, dato che il cervello lavora in maniera integrata. Ma c’è di più: molto più utile che leggere il cervello in termini di destra/sinistra parrebbe sia distinguere tra la sua parte superiore e quella inferiore.

Secondo gli studiosi Stephen Kosslyn e Wayne Miller, autori del testo Top Brain, Bottom Brain: Surprising Insights into How You Think (2013), il cervello “superiore” parte dalla raccolta di informazioni di contesto per pianificare, generare aspettative e mettere in atto verifiche di quanto accade. La parte “inferiore” lavora invece su una logica ancorata a precedenti esperienze e memorie, usate come chiave interpretativa di quanto recepito dall’esterno. Il lavoro delle due parti di cervello è costantemente simultaneo, tuttavia esse possono essere chiamate in causa dal loro proprietario con diversi gradi di coinvolgimento, che generano quattro casistiche e dunque altrettanti profili di condotta: “mover”, “perceiver”, “stimulator”, “adaptor”.

Il profilo “mover” attiva paritariamente cervello superiore e inferiore. Il risultato è una forte abilità sia nel pianificare che nel gestire le conseguenze di quanto progettato. In termini lavorativi, questo profilo viene presentato come quello dei grandi leader. Il “perceiver” è invece un ottimo membro di team: usa la parte inferiore del cervello più di quella superiore, dando prova di grande empatia. Passando alla persona “stimulator”, questa chiama in causa maggiormente la parte superiore del cervello, producendo grandi piani che tuttavia non tengono sufficientemente conto delle loro conseguenze. Il profilo “adaptor”, infine, non richiede stimoli opzionali a nessuna delle due parti di cervello, conformandosi come quello di chi segue soprattutto le spinte del momento. Questo corrisponde – almeno secondo gli autori del testo – a un ruolo lavorativo “backbone”, vale a dire prevalentemente esecutivo.

Solo il tempo potrà dire se gli studi di Kosslyn e Miller otterranno un successo paragonabile a quello della teoria degli emisferi destro e sinistro. Nel frattempo, utile essere aggiornati rispetto a l’ultima neuro-moda.

[ illustrazione: particolare dal fumetto Brian the Brain ]

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FOTOGRAFIA, INDUSTRIA, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Kodak e Fuji, due casi studio di fronte al cambiamento

Fra i casi business più interessanti degli ultimi anni spicca un confronto, quello fra due “big” dell’industria fotografica: Kodak e Fujifilm.

Nel 1881 l’imprenditore americano George Eastman (1854-1932) fonda a Rochester (stato di New York) la sua azienda produttrice di pellicole fotografiche e nel 1888 lancia il primo apparecchio Kodak (neologismo senza significato che suona bene in tutte le lingue), che viene venduto carico di pellicola e accompagnato dal celebre slogan “you press the button, we do the rest”. Facciamo un salto di qualche anno e spostiamoci dall’altra parte del mondo: nel 1932 nasce a Tokyo Fujifilm Photo Film Co. , inserendosi da subito nel mercato delle pellicole fotografiche per uso domestico e iniziando a produrre fotocamere dal 1948.

Kodak e Fujifilm possono essere considerate aziende competitor a livello paritario (ognuna con le proprie pellicole caratterizzanti e “best seller”) per lo meno fino al 1975. Questa data è estremamente importante per la storia della fotografia perché segna la messa a punto da parte di Kodak, nella persona dell’ingegnere Steven Sasson, della prima macchina fotografica digitale della storia. L’enorme potenziale competitivo offerto dall’invenzione non venne tuttavia capitalizzato a dovere da Kodak, che aspettò il 1991 per mettere sul mercato la gamma DCS di dorsi digitali dedicati ai fotografi professionisti, facendosi battere sul tempo da Sony con la sua Mavica del 1981.

Dagli anni ’90 a oggi, è nel segno del digitale che si è giocato il destino delle principali aziende fotografiche. Nel caso di Kodak, gli esiti sono noti: l’azienda ha dichiarato bancarotta nel corso del 2012 ed è oggi in una difficoltosa fase di rinnovamento. Il suo fallimento è stato causato dall’incapacità di inserirsi a dovere – nonostante l’invenzione del 1975 – nel mercato digitale, di cui non ha mai realmente saputo cogliere le potenzialità. Al caso Kodak si applica molto bene la parabola della “rana bollita”, resa celebre dal guru del pensiero sistemico Peter Senge nel suo La quinta disciplina (1990). L’incapacità dell’azienda di leggere i segnali deboli di un contesto business in lento ma inesorabile cambiamento, unita alla sicurezza conferitale dai successi per lunghissimo tempo ottenuti dal suo core business, ne ha segnato l’inevitabile declino.

Altrettanto interessante – in questo caso in chiave positiva – l’approccio al cambiamento agito da Fujifilm. Anzitutto, l’azienda ha saputo cavalcare l’onda del digitale grazie a una strategia distintiva che l’ha condotta a essere oggi più che competitiva nel settore delle compatte prosumer, giocando sul rapporto tra soluzioni tecnologiche innovative ed estetica retrò. Ancora più significativa è stata la scelta di Fujifilm di convertire asset e tecnologie legate alla produzione delle pellicole – attività ormai ridotta pressoché a zero – a un mercato del tutto inaspettato e lontano dal core business dell’azienda: quello della cosmetica. È così nata, a partire dal 2007, la produzione di Astalift, brand di prodotti di bellezza facente capo alla holding Fujifilm e distribuito in tutto il mondo. Questa brillante svolta aziendale, basata su una expertise in tema di collagene e antiossidanti maturata in oltre 70 anni di attività, dimostra la destrezza con cui l’azienda ha saputo evitare di finire “bollita” innovando grazie a una lungimirante riconversione delle proprie risorse.

[ illustrazione: pellicola Kodak, foto di paperplanepilot ]

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CONCETTI, MANAGEMENT

Il riccio e la volpe, una favola più che mai attuale

Fra i frammenti del poeta greco Archiloco (VII secolo a.c.) figura un verso che suona così:

«La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande».

Questa “favola in miniatura” ha il fine di contrapporre la superficialità all’approfondimento, la frivolezza alla costanza di attitudini e interessi. Il suo successo attraversa l’epoca antica e medievale, fino a giungere in età moderna a essere citata, fra gli altri, anche da Erasmo da Rotterdam nella sua raccolta di motti Adagia.

Balzando al XX secolo, nel 1953 Il filosofo e storico inglese Isaiah Berlin (1909-1997) recupera l’antica favola di Archiloco nel suo testo The Hedgehog and the Fox. An Essay on Tolstoy’s View of History (pubblicato in Il riccio e la volpe e altri saggi). Ne fa uso per “catalogare” alcuni fra i più grandi pensatori della storia, inserendoli per similutidine attitudinale entro le due specie animali in questione. Fra i ricci – il cui approccio tende a ricondursi a un’idea preponderante – spiccano Platone, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche; fra le volpi – dagli interessi variegati e talvolta contraddittori – Aristotele, Erasmo, Molière, Goethe, Balzac. Il principale oggetto del saggio di Berlin, cioè Tolstoy, in verità sfugge a una netta inclusione in uno dei due profili.

La favola gode di buona salute anche nel nuovo millennio. Nel 2001 lo studioso americano di management Jim Collins la riprende a suo modo nel best-seller manageriale Good to Great. Qui volpe e riccio rappresentano due opposti modelli di percezione e “visione” legati alla sfera lavorativa. Secondo Collins, la volpe vive l’esperienza del mondo nella sua complessità, ma non riesce a integrare il suo agire in una visione unitaria. Al contrario, il riccio semplifica il mondo grazie a un’idea unificatrice in grado di guidarlo ai suoi traguardi. Lo spirito del riccio è rappresentato da Collins tramite un nodo borromeo che relaziona passione, competenze professionali e moventi economici.

Una recente comparsa della favola di Archiloco è da rintracciarsi in Contro gli specialisti. La rivincita dell’umanesimo (2013) di Giuliano da Empoli. In questo testo il paradigma della volpe è assimilabile a quello di uno spirito generalista, capace di attraversare le frontiere della conoscenza per produrre idee nuove e inattese. Il riccio rappresenta invece l’ethos dello specialista, nel cui fallimento Da Empoli ritrova la principale causa della crisi economica e culturale di cui l’Occidente continua a essere vittima.

E voi, siete volpi o ricci?

[ illustrazione: tessuto di Emily Bowen ]

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APPRENDIMENTO, MANAGEMENT, PAROLE

Think outside the box

Da dove nasce l’espressione, tanto cara al mondo aziendale, “think outside the box”, da noi tradotta come “pensare fuori dagli schemi”?

In Change: la formazione e la soluzione dei problemi (1973) Paul Watzlawick utilizza il gioco dei “nove punti” (che consiste nell’attraversare tutti i punti con quattro linee rette senza staccare la matita dal foglio) per mostrare che mettere in atto un effettivo – e non superficiale – cambiamento significa uscire dagli schemi e cambiare le regole del gioco. “Think outside the box”, appunto.

Per la verità, seppur popolarizzato da psicologi e “guru” del management durante gli anni ’70, il gioco dei nove punti è ben più antico. La sua prima apparizione risale al 1914, sulle pagine della Sam Loyd’s Cyclopedia of 5000 Puzzles Tricks and Conundrums (with Answers), opera postuma del grande enigmista americano Sam Lloyd (1841-1911).

In questa sua prima edizione il gioco ha una declinazione molto meno astratta, nella quale cui i nove punti diventano uova su un tavolo. Ironicamente, Lloyd immagina che a proporre il gioco agli abitanti dell’immaginaria “Puzzleland” sia Cristoforo Colombo in persona (per associazione, date le uova, con il celebre aneddoto dell’uovo di Colombo).

[ illustrazione: la tavola della Cyclopedia of 5000 Puzzles che contiene – a destra – il “Christopher Columbus famous eggs trick” ]

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JAZZ, MANAGEMENT, MUSICA

La metafora del jazz per le organizzazioni di impresa

La Terza Ondata (1980) è uno dei libri più profetici del futurologo Alvin Toffler. Con i suoi neologismi (tecnosfera, sociosfera, infosfera) e le previsioni di mutamento economico e sociale, risulta una lettura utile per capire molti “perché” dell’attuale società occidentale.

In uno dei passaggi incentrati sulle innovazioni introdotte dalla “seconda ondata”, identificabile in termini generali con la rivoluzione industriale e posizionata temporalmente da Toffler fra il 1750 e il 1955, l’autore si sofferma sull’influenza ideologica e strutturale che l’organizzazione industriale ha esercitato sull’ambito della musica.

Con riferimento allo  studioso di storia della musica Curt Sachs, che ricorda come nel XVIII secolo il passaggio da una cultura musicale prettamente aristocratica a una democratizzata comportò la necessità di disporre di sale per concerti sempre più grandi, che richiedevano un più alto volume del suono, Toffler osserva quanto segue:

«L’orchestra rifletté alcuni aspetti della fabbrica persino nella sua struttura interna. Inizialmente l’orchestra sinfonica non aveva un direttore oppure la direzione veniva curata a turno dagli orchestrali. Successivamente gli orchestrali, proprio come i lavoratori di una fabbrica o di un ufficio, furono divisi in reparti (settori strumentali), ognuno dei quali contribuiva alla produzione complessiva (la musica) ed era coordinato dall’alto da un capo (il direttore) e persino, più tardi, da un capo intermedio (il primo violino o il capo del settore strumentale)».

Le parole di Toffler sono una dimostrazione del perché la musica sinfonica può essere un’ottima metafora dell’organizzazione moderna del lavoro: semplicemente perché la strutturazione dell’orchestra ne è figlia. E dimostrano anche come questa metafora sia oggi – o, secondo Toffler, da quando siamo entrati nella “terza ondata” – del tutto inadatta a parlare delle imprese contemporanee, da lungo tempo definite come organizzazioni che apprendono. Del resto, studiosi come Peter Drucker (1909-2005) hanno parlato fin dagli anni ’60 della maggiore adeguatezza alle nuove organizzazioni della metafora del jazz. In un’intervista del 1994 Drucker afferma:

«The model of management that we have right now is the opera. The conductor of the opera has a very large number of different groups that he has to pull together. The soloists, the chorus, the ballet, the orchestra, all have to come together—but they have a common score. What we are increasingly talking about today are diversified groups that have to write the score while they perform. What you need now is a good jazz group».

[ illustrazione: Lucia Ghirardi ]

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ARTE, LAVORO, MANAGEMENT

Lavoro ed emozioni, attraverso l’arte

L’artista tedesco KP Brehmer (1938–1997) ha realizzato tra il 1978 e il 1980 un’opera dal titolo Soul and Feelings of a Worker, costituita da una serie di collage su carta millimetrata che identificano con diverse aree di colore l’umore dello stesso artista / lavoratore nel corso di un anno.

In tema di lavoratori e stati d’animo, il riferimento più classico è il cosiddetto “progetto Hawthorne”, condotto tra il 1927 e il 1933 dal sociologo Elton Mayo (1880-1949) presso lo stabilimento General Electric di Hawthorne, Chicago. L’esperimento venne attuato per studiare i cali di produttività dei lavoratori in relazione al peggioramento delle condizioni ambientali, con particolare riferimento alle variazioni di illuminazione. Sorprendentemente, la produttività dei lavoratori si mostrò in aumento durante tutto l’esperimento, senza alcuna relazione con ilrelativo miglioramento o peggioramento dell’illuminazione. Questo dimostrò che una possibile crescita di produttività ha più a che fare con la qualità delle relazioni umane – in questo caso l’attenzione prestata dagli osservatori durante l’esperimento – che con fattori di contesto spersonalizzati. L’esperimento alimentò gli studi di Mayo e la conseguente nascita della “scuola delle relazioni umane”.

Tornando all’opera artistica di Brehmer, questa non rimanda direttamente ad Hawthorne, bensì ai decisamente meno noti studi di Rexford B. Hersey (1895-1965), il quale fu tuttavia, per significativa coincidenza, assistente proprio di Elton Mayo.

Dopo aver stilato una originale scala emotiva (da “elated” a “worried”, la stessa che si trova nell’opera di Brehmer), Hersey la sottopose per un intero anno a un gruppo di lavoratori di un’officina di riparazioni meccaniche. Il risultato – pubblicato nell’opera del 1932 Workers’ emotions in shop and home – fu una mappatura dei clicli di umore individuale che aiutò Hersey a dimostrare che ogni individuo tende a essere caratterizzato da un personale ciclo mensile che regolarmente alterna, giorno dopo giorno, i medesimi stati d’umore.

Per darsi una spiegazione di questi cambiamenti mensili, Hersey fece riferimento a uno studioso ancora più oscuro per i nostri canoni di popolarità, un neurofisologo di nome John Fulton (1899–1960). Questi sosteneva che i bioritmi umani potessero essere influenzati da energia solare, pressione atmosferica, fasi lunari e campi magnetici.

[ illustrazione: KP Brehmer, Soul and Feelings of a Worker ]

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