Tra gli anni ’40 e ’50 l’economista e filosofo della scienza Herbert Simon (1916-2001) ha messo a punto il concetto di “satisfacing”. Neologismo basato sulla combinazione dei verbi inglesi “satisfy” (soddisfare) e “suffice” (essere adeguato), il termine sta a indicare un’idea di “buono abbastanza” che Simon ha applicato alle logiche di decision making.

Opponendosi alla classica teoria economica della massimizzazione dell’utilità individuale in un contesto di scelta, Simon ha sostenuto che le nostre limitate capacità cognitive non ci permettono né di raccogliere tutte le informazioni di cui avremmo bisogno per decidere, né di processare adeguatamente quelle di cui riusciamo a entrare in possesso. Ecco perché finiamo per accontentarci del “buono abbastanza”. La razionalità limitata di cui facciamo uso è evidentemente influenzata dalla complessità del contesto nel quale prendiamo decisioni. Non è dunque casuale che una delle applicazioni più fortunate della teoria di Simon sia stata l’ambiente lavorativo.

Un’interessante interpretazione del “satisfacing” è rinvenibile nelle pagine dell’eterodosso testo di architettura How Buildings Learn: What Happens After They’re Built (1994) di Stewart Brand. Il “buono abbastanza” viene qui riletto in una positiva ottica di adattamento che somiglia più alle funzionali approssimazioni dell’evoluzione biologica che alla spesso piatta prospettiva di alcune scelte organizzative “good enough”. Il “satisfacing” può dunque anche essere inteso, secondo le parole di Brand, come una dinamica che programmaticamente “riduce” i problemi invece di pretendere di risolverli. Punto di vista assai utile anche in ambito organizzativo.

[ illustrazione: Cornered by Mike Baldwin ]