IRONIA, LAVORO, MANAGEMENT

Ecco perché il test di Myers-Briggs non serve a nulla

Nel 1921 lo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung (1875-1971) pubblica il suo lavoro Tipi psicologici. Qui formalizza alcune teorie sugli atteggiamenti umani, frutto della propria percezione e dichiaratamente prive di riferimenti empirici. Jung classifica i suoi “tipi” partendo dall’opposizione tra attitudine estroversa/introversa, relaziona quest’ultima a quattro “funzioni psichiche” (sentimento, pensiero, sensazione e intuizione) e giunge all’identificazione di otto profili psicologici, per esempio “sentimentale estroverso” o “sentimentale introverso”. Negli anni ’40, due signore americane prive di formazione psicologica si confrontano in modo inaspettato con i tipi junghiani. Si tratta di Katherine Cook Briggs e di sua figlia Isabel Briggs Myers. Lavorando nel nascente mondo della gestione delle relazioni umane, le due giungono all’idea di sviluppare il lavoro di Jung in modo da trasformarlo in un test attitudinale. Cambiano leggermente la terminologia e arrivano a confezionare ben 16 diversi profili. Nasce così, nel 1942, il “Type Indicator”, più comunemente noto come test Myers-Briggs o MBTI. Il test ottiene un immediato successo e la sua popolarità cresce ulteriormente nel 1975, quando l’azienda CPP ne acquista i diritti e lo rende quello che è oggi, cioè il test psicologico più usato nelle organizzazioni di impresa, somministrato a circa due milioni di persone all’anno nel mondo. C’è solo un problema: il test non ha alcun fondamento scientifico e non serve quindi a nulla, o quasi.

Per dimostrare l’infondatezza del test sarebbero forse sufficienti due elementi: la dichiarata mancanza di basi empiriche dei tipi junghiani e l’estraneità a temi psicologici del duo Myers-Briggs. Ma un recente articolo della rivista «Vox» va oltre, mostrando tutti i punti di debolezza inerenti al test. Anzitutto, il MBTI si basa su risposte binarie del tipo “sì” o “no”. Per esempio, cosa rispondereste – ammesso che non lo abbiate già fatto – a una domanda del tipo: “tendi a simpatizzare con altre persone?”. L’impossibilità di una risposta netta e deconstualizzata, a questa e alle altre domande del test, inficia immediatamente qualsiasi pretesa “scientifica” e mette in luce un tipico difetto del test, cioè quello di tendere a posizionare le persone fra due categorie, riducendo i risultati a un più o meno soddisfacente “mi riconosco / non mi riconosco”. In seconda battuta, il test fornisce risultati privi di ripetibilità. Esperimenti sul campo mostrano che il 50% degli utilizzatori ottiene un diverso risultato alla seconda compilazione, anche a distanza di poche settimane. Come può essere considerato affidabile un simile test? A rincarare la dose ci si mette la comunità psicologica internazionale, che considera unanimemente il MBTI uno pseudo-test privo di alcuna valenza e non si sognerebbe mai di utilizzarlo.

A cosa serve, dunque, il test di Myers-Briggs e perché continua a essere utilizzato in maniera massiccia? Difficile, dati gli elementi riportati, affrontare la prima domanda. L’articolo di«Vox» trova un’unica possibile risposta: intrattenimento. Se si trasforma la domanda in un “a chi serve?”, rispondere diventa più facile: CPP, l’azienda che gestisce e commercializza il test, guadagna tra i 15$ e i 40$ per ciascuna copia venduta e $1700 per ogni certificazione da “esaminatore”. Tutto ciò conduce a un guadagno annuale di circa 20 milioni di dollari. Quanto al perché il test continui a essere universalmente utilizzato, forse i dipartimenti HR dovrebbero iniziare a chiedersi, soprattutto in tempi di recessione economica, come investire meglio i propri budget.

[ illustrazione: schema che illustra i profili del test di Myers-Briggs ]

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ANTROPOLOGIA, ARCHITETTURA, CAMBIAMENTO, CITTÀ, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

Un libro, anzi due, per capire il lavoro d’ufficio

Nikil Saval, editor della rivista americana «n+1», esordisce con un testo che nasce da una lunga ricerca sugli ambienti del lavoro impiegatizio. Si tratta di Cubed (2014), ricognizione multidisciplinare – design, management, riferimenti a letteratura e cinema – che aiuta a comprendere perché il lavoro d’ufficio, con i suoi spazi e la sua capacità di generare culture e comportamenti, è in grado di incidere così tanto sulla società nel suo insieme.

Saval apre il suo lavoro rendendo omaggio a un riferimento classico, quel White Collar (1951) di Charles Wright Mills (1916-1962) che è considerato uno dei capostipiti della sociologia organizzativa. A ben vedere – come nota la collaboratrice del «New Yorker» Jill Lepore in una recensione che merita una lettura a sé – l’approccio di Saval è, più che sociologico, storico. Quanto il libro dispone agli occhi del lettore è un ideale diorama che potrebbe intitolarsi “l’ufficio attraverso il tempo”.

Con una prevedibile focalizzazione sulla storia del lavoro in America, Saval prende le mosse dalle “counting house” di metà ‘800, ambienti che oggi sorprendono per la loro dimensione angusta e per la grande prossimità tra datori di lavoro e impiegati. Prossimità destinata a sparire in nome dell’astrazione delle gerarchie organizzative, facilitata dall’estensione verticale dei grattacieli che dagli anni ’50 hanno iniziato a cambiare la fisionomia delle grandi città americane. Pensando a New York, vengono subito in mente la “black box” del Seagram Building o l’AT&T Building progettato dall’architetto “postmodernista” Philip Johnson.

Nel frattempo, l’interno degli spazi di lavoro incontra un’evoluzione inaspettata. Alla fine degli anni ’50, gli studi di ergonomia condotti dall’inventore americano Robert Propst (1921-2000) generano il prodotto di maggior successo di Herman Miller, il cosiddetto “Action Office”, spazio modulare pensato per l’ottimizzazione delle attività individuali. La semplificazione e banalizzazione dell’Action Office ha in seguito dato vita, concretizzando l’incubo isolazionista prefigurato da alcune sequenze di Playtime di Jacques Tati (1967), a quanto è oggi universalmente noto come cubicolo.

Il salto temporale successivo coincide con le prospettive sulla smaterializzazione e delocalizzazione del lavoro offerte dalle nuove tecnologie, rispetto alle quali il piglio storiografico è evidentemente meno praticabile di quello che procede per ipotesi. In sintesi, “l’ufficio attraverso il tempo” presentato da Saval offre una istruttiva e coinvolgente genealogia di spazi abitati quotidianamente ma spesso vissuti senza sufficiente consapevolezza.

Un altro testo incentrato sullo studio del lavoro impiegatizio, fonte di particolare orgoglio perché a firma di uno studioso italiano, è Uffici (2011) di Imma Forino. In questo caso l’indagine è più spiccatamente orientata al design degli uffici e dei loro arredi – l’autrice è docente di architettura degli interni al Politecnico di Milano – , senza comunque mancare di offrire spunti manageriali e socio-antropologici. In particolare, il testo ha il merito – oltre che di assumere una prospettiva non esclusivamente americanocentrica – di costruire una linea temporale che viaggia a ritroso fino a epoche non toccate dal lavoro di Saval. Forino parte dallo scriptorium dei monaci medievali e affronta, prima di giungere al Novecento, un percorso che arriva fino alla nascita della burocrazia (letteralmente: potere dello scrittoio) sette-ottocentesca. Di particolare interesse per il lettore italiano sono poi le parti di libro dedicate ai “torracchioni” nazionali (come li chiama il Luciano Bianciardi di La vita agra) e ai raggiungimenti tecnologici dell’Olivetti.

Difficile pensare a una “doppietta di lettura” più adatta a comprendere il mondo degli spazi di lavoro di quella formata da Cubed e Uffici, testi che sorprendono per consonanza e reciproca capacità di integrazione.

[ illustrazione: fotogramma da Playtime di Jacques Tati, 1967 ]

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BIGDATA, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

Ancora sul taylorismo 2.0: ecco il physiolytics e gli strumenti del “cottimo digitale”

Il sostantivo “cottimo”, termine dalla dubbia origine etimologica, suona oggi passatista e distante dalla realtà dei lavoratori del nuovo millennio. Peccato che, nota in un recente articolo Evgeny Morozov, proprio questi ultimi saranno le probabili vittime di una sua nuova e tecnologica versione.

Se Google e Apple si stanno affacciando sul mercato delle dimore automatizzate (evoluzione di quanto fino a ieri si etichettava come domotica), il fronte aziendale non sta a guardare e conia un termine – comparso per la prima volta a fine 2013 sulle pagine di «Harvard Business Review» – che suona decisamente sinistro: physiolytics. Crasi del suffisso physio- e della parola anaylitcs, la parola rappresenta il processo di integrazione tra dispositivi indossabili e analisi dei dati da essi raccolti, a tutto beneficio delle pratiche di gestione delle risorse umane e della performance.

Per godere di qualche anticipazione sui prodotti che prima o poi invaderanno uffici e officine basta fare un giro su Kickstarter e i siti web di alcune startup. Per esempio, XOEye Technologies produce occhiali “smart” simili ai celebri Google Glass, salvo il fatto che non sono pensati per essere indossati da geek californiani ma da operai. Rilevano il comportamento e i movimenti dei lavoratori, con particolare attenzione per quanto riguarda postura e sicurezza. Come nota Morozov, questi apparecchi possono essere estremamente ben recepiti dalle aziende: meglio investire in strumenti di controllo che permettano la prevenzione di infortuni che dover pagare – a fronte dell’assenza di un lavoratore – per assicurazioni e spese mediche.

Altri esempi? Robin, produce sensori orientati agli “smart offices” che monitorano gli spostamenti da un ufficio all’altro, tenendo sempre sotto controllo dove ci si trova e quel che si fa. Melon sta per immettere nel mercato una fascia che monitora l’attività celebrale in cerca di picchi cognitivi, ottimizzando di conseguenza il lavoro. L’orologio Spark promette di impedire che le persone prendano sonno nei momenti più importanti del loro lavoro, mentre il braccialetto Pavlok (il nome vi ricorda qualcosa?) ci punisce con una scossa quando manchiamo di completare un’attività programmata.

Il lato maggiormente critico della questione riguarda, poiché si tratta di dispositivi che vengono indossati, la progressiva estensione delle logiche di quantificazione proprie del lavoro ad aspetti della vita che in precedenza ne erano al riparo. Detto in altri termini, l’espressione “portarsi il lavoro a casa” è probabilmente destinata ad assumere un significato tutto nuovo.

[ illustrazione: fotogramma dal film Escape from New York di John Carpenter, 1981 ]

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CONCETTI, IRONIA, LAVORO, MANAGEMENT, MARKETING, PAROLE, SOCIETÀ, TEORIE

Alle origini dell’aziendalese

Nelle imprese italiane si parla una lingua semplicistica, meccanica e frammentaria – un vernacolo riduzionista, verrebbe da dire – , che tratta in maniera sprezzante l’idioma nazionale malmenandolo con sferzate di inglese mal masticato. Il linguaggio del management (in Italia rigorosamente pronunciato “manàggment”) denuncia in maniera impietosa una generale – e ahinoi diffusa ben oltre il mondo delle aziende – sudditanza nei confronti della cultura made in USA, alla quale certo si deve l’origine del management stesso ma cui si poteva forse evitare di pagare un così oneroso tributo linguistico. Indagare la nascita di questo parlare – il più delle volte uno straparlare – conduce a ripercorrere le tappe dello sviluppo del linguaggio aziendale americano. Un ricco e divertente articolo appena pubblicato da «The Atlantic» a firma di Emma Green si cimenta esattamente con questa impresa, ricostruendo le origini dell’office talk.

Si parte da Frederick Taylor (1856-1915), ovviamente, grazie al quale termini come “accuracy”, “precision”, incentives”, “maximed production” (per ovvi motivi d’ora innanzi riporterò le parole nella loro lingua originaria) iniziano a diffondersi nel linguaggio aziendale di inizio Novecento. In seguito, tanto accademici quanto consulenti contribuiscono, con ondate legate ai decenni successivi e a corrispondenti correnti di pensiero, ad arricchire il vocabolario del business.

Negli anni ’50 e ’60, durante i quali si sviluppano le teorie degli studiosi della Carnegie Mellon e del MIT, a lasciare il segno è soprattutto la “hierarchy of needs” di Abraham Maslow (1908-1970), cui si deve anche la pronunciata e duratura attenzione per la “self-actualization”.

Negli anni ’80 le parole chiave aziendali si dividono in due filoni. Il primo è rappresentato dal pensiero organizzativo ispirato a Peter Drucker (1909-2005) – padre del “management by objectives” – e al suo lavoro di consulenza per aziende come General Electric. Si parla di espressioni come “task cycle”, “operational efficiency”, “80-20” (richiamo a Vilfredo Pareto). Il secondo filone nasce dalla finanza aggressiva di Wall Street – idealmente identificabile con il Gordon Gekko interpretato da Michel Douglas nell’omonimo film di Oliver Stone – e fa sue parole a oggi ancora usatissime quali “leverage” o “added-value”.

Negli anni novanta il mondo del marketing non manca di dire la sua, diffondendo l’uso di espressioni quali “hard-sell”, “mind share” e il diffusissimo “ideation”. A metà del decennio fa la sua comparsa, associata all’idea di innovazione, una parola destinata a essere estremamente influente negli anni a venire. Si tratta della “disruption”, e il suo apostolo è il docente di Harvard Clayton Christensen. Negli stessi anni, la cultura di Silicon Valley diffonde nuove espressioni quali “top-down” e “bottom-up”, senza mancare di rivitalizzarne di antiche, come “entrepreneur” e “venture capitalist”.

Gli anni 2000 segnano la comparsa del movimento dei life-hackers (si veda il sito omonimo), che mette in circolo termini legati alla crescita personale come “journey”, “passion”, “energy”, “purpose”, insieme a una grande attenzione per il “work-life balance”.

La storia del linguaggio aziendale è destinata a non si fermarsi qui. Ripercorrerla fa sorridere – soprattutto pensando al suo passaggio dalla cultura americana a quella di altre nazioni, fra cui l’Italia – ma al tempo stesso spaventa per la sua capacità di influenzare in maniera sorprendentemente diretta pensiero e pratiche lavorative. Come si nota in chiusura dell’articolo del «The Atlantic»:

«Tutti trovano questo linguaggio un po’ ridicolo, ma i manager lo amano, le aziende dipendono da esso e in media i lavoratori finiscono per assorbirlo».

[ illustrazione: striscia di Dilbert del 1994 – © Scott Adams ]

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APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, FRUGALITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Un diverso punto di vista sulla frugalità

Paolo Legrenzi, Docente di Psicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, esplora nel suo Frugalità (2014) un concetto che in tempi di crisi gode di particolare popolarità. Ma cosa significa essere frugali? Assumendo il punto di vista dello psicologo, la frugalità è un atteggiamento generale di fronte alla vita, una scelta di stile e buon gusto che poco o nulla ha che fare – come ha sostenuto Bruno Munari in Da cosa nasce cosa (1981) – con il lusso. La frugalità, nota Legrenzi, non è uno strumento orientato a uno scopo; deve essere coltivata come un fine in se stessa. Non si tratta, come nel caso della povertà, di una costrizione, ma del risultato di una libera scelta. Essere frugali significa rifiutare l’abbondanza e il superfluo, concentrandosi sull’essenziale.

Un simile approccio alla frugalità si distanzia fortemente da quello assunto dalla maggior parte dei libri di business orientati a questo tema. Come citato in apertura, se oggi si parla tanto di frugalità è principalmente a causa del generale contesto di crisi e della diffusa percezione di scarsità. Soprattutto per quanto riguarda le aziende, vissute per lungo tempo in un ambiente di abbondanza di risorse, ricorrere alla frugalità è oggi più un obbligo che una scelta. Proprio come lo è l’imparare a improvvisare per chi si è cullato per anni nella credenza che i piani possano essere immutabili e impermeabili ai cambiamenti di contesto.

La maggiore utilità del libro di Legrenzi è dunque questa: offrire un convinto paradigma di vita orientato alla frugalità a chi inizia solo ora a confrontarsi con questa parola. Benché l’autore sembri guardare i nuovi adepti dall’alto al basso (la frugalità è un sapere tacito che si impara da piccoli in famiglia, non una nozione che si apprende a scuola – sostiene Legrenzi), nelle ultime pagine di Frugalità (2014) stila un decalogo il cui senso può essere sintetizzato in una parola: autocontrollo.

[ illustrazione: Giuseppe Vermiglio, S. Paolo Eremita, circa 1649 ]

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CONCETTI, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

L’identikit dell’innovatore frugale

Lo studioso inglese di social entrepreneurship (e già consulente del governo di Tony Blair) Charles Leadbeater costruisce nel suo testo The Frugal Innovator (2014) una personale lettura del fenomeno dell’innovazione frugale. In seguito a fasi economiche focalizzate sul bisogno (dal 1945), sul desiderio (dal 1960) e sulla frenesia dell’offerta (dal 1990) – e soprattutto nel necessario attraversamento delle conseguenze della crisi economica del 2008 – Leadbeater riconosce nella frugalità la via di uscita dal tunnel della grande recessione. L’approccio frugale all’innovazione risponde al nuovo atteggiamento della classe media occidentale e al crescente ruolo di protagonista delle popolazioni delle nazioni emergenti. Su questa linea di pensiero, i principali riferimenti di Leadbeater sono il testo The Fortune at the Bottom of the Pyramid (2005) dello studioso C. K. Prahalad (1941-2010) e Jugaad Innovation (2013) di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja, di recente traduzione in italiano.

Ma quali sono le caratteristiche dell’innovatore frugale? Secondo Leadbeater, quattro: un approccio lean, inteso sia nel classico, toyotistico senso di efficienza processuale che come ecologica dinamica di ri-ciclo e sfruttamento degli scarti; l’orientamento alla semplicità come risposta alle esigenze concrete di un mercato orientato alla soluzione di problemi per un numero il più possibile vasto di persone; la ricerca di coesione sociale, finalizzata a costruire comunità e a condividere conoscenze; lo scrupolo di agire in maniera pulita e sostenibile rispetto all’ambiente. Questi principi vengono distillati in The Frugal Innovator grazie all’analisi di diversi casi studio, che pur attingendo abbondantemente al patrimonio di innovazioni offerto dalla jugaad indiana non mancano di individuare casi di frugalità anche in territorio Europeo.

[ illustrazione: immagine tratta dal sito settimanadelbaratto.it ]

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APPRENDIMENTO, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

Edward Filene, dallo shop management alla traduzione simultanea

Benché trovi un antecedente nel semplice atto del bisbigliare nelle orecchie, la traduzione simultanea come processo mediato dalla tecnologia ha un preciso anno di origine, il 1925. Nel contesto della Società delle Nazioni, nata nel 1919, le due lingue parlate nel quartier generale di Ginevra erano inglese e francese, motivo per cui un processo di traduzione era continuamente necessario. Per qualche anno si utilizzò l’inefficace pratica della traduzione consecutiva, finché Edward Filene (1860-1937) non propose di accorpare in un unico atto l’ascoltare, il tradurre e il parlare.

Edward Filene è uno dei personaggi più interessanti vissuti tra il secolo XVIII e il XIX. Nativo del Massachussetts, ereditò l’attività familiare di commercio di abbigliamento e sviluppò insieme al fratello la catena Filene’s. Ispirato dagli aspetti più illuminati dello scientific management tayloristico, mise a punto moltissime innovazioni nei processi di gestione di magazzino e di vendita. Fra queste, il meccanismo del cosiddetto “automatic bargain”, secondo il quale i prodotti venivano automaticamente scontati e spostati dal piano terra al piano sotterraneo del magazzino, per poi essere infine – se di nuovo invenduti – donati in beneficenza. Filene introdusse inoltre sistemi per il match dei colori dei tessuti e complete e trasparenti policy nei confronti dei clienti, compreso l’ormai classico “soddisfatti o rimborsati”. Fu estremamente corretto e solidale con la classe lavorativa, sostenendo lo sviluppo di cooperative di credito in tutto il Paese e agendo a livello più generale come filantropo, quasi rendendo fattivo l’involontario gioco di parole suggerito dalla radice “fil-” del suo cognome.

Per quanto riguarda la Società delle Nazioni – di cui Filene fu immediato sostenitore – e la traduzione simultanea, furono probabilmente gli stessi principi di scientific management praticati da Filene nella sua azienda a suggerirgli l’innovazione. L’inefficienza della traduzione consecutiva raddoppiava infatti i tempi di traduzione, cosa inammissibile per una comunicazione efficace. L’intuizione di Filene venne sviluppata sul piano tencnologico grazie a un coeso gioco di squadra che coinvolse l’ingegnere meccanico inglese A. Gordon-Finlay e il fondatore dell’IBM Thomas Watson Sr. In seguito alla loro introduzione, le cabine di traduzione simultanea vennero utilizzate sporadicamente durante gli anni ’30 a Ginevra e in Unione Sovietica, per poi riemergere durante il processo di Norimberga.

[ illustrazione: cabina di traduzione simultanea presso il quartier generale dell’aviazione internazionale Montréal, 1949 ]

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COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, INTERNET, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

JAVA: storia di un’innovazione intraprenditoriale

Non c’è bisogno di essere esperti di informatica per aver visto comparire il nome e il logo “Java” sul monitor di un computer. Per la maggior parte di noi (cioè per i non addetti ai lavori), Java è un linguaggio informatico che permette l’esecuzione di applicazioni web: dagli editor di testo ai filmati, dalle chat ai videogiochi. La sua diffusione va in realtà ben oltre l’ambito web, occupando un ruolo importante nei data center e nelle tecnologie per telefoni cellulari. Se sapete cos’è Java, è tuttavia probabile che possiate non conoscerne la storia.

Nel 1990 il web come lo conosciamo oggi è un fenomeno non ancora pronto a esplodere a livello di massa. Il PC, inteso come personal computer “desktop”, è il prodotto di punta dell’industria informatica, sia in ufficio che nel mercato casalingo. In questo contesto si muove Sun Microsystems, un’azienda della Silicon Valley californiana fondata nel 1982 in relazione all’università di Stanford di Palo Alto. All’inizio del nuovo decennio Sun sta attraversando un periodo di crisi, dovuta alla sua concentrazione sul solo mercato delle workstation professionali e dei server. I suoi prodotti hanno la fama di essere troppo complicati per un mercato di massa; i suoi software non sono all’altezza di quanto Microsoft sta sviluppando.

Patrick Naughton è un programmatore venticinquenne che lavora in Sun da tre anni. Durante una serata conviviale con lo staff dell’azienda, Naughton si avvicina al suo boss – e AD di Sun – Scott McNealy e, fra una birra e l’altra, gli rivela la sua condizione di delusione e frustrazione rispetto al proprio lavoro. Naughton si dice stufo di lavorare a prodotti che sembrano vecchi rispetto alle innovazioni del mercato. Sente che il proprio lavoro non è valorizzato adeguatamente e, afferma, sta valutando di andare a lavorare per NeXT Computer Inc. McNealy prende la palla al balzo e risponde grosso modo così a Naughton: «Prima che tu te ne vada, metti per iscritto quel che pensi Sun oggi stia sbagliando. Non limitarti a indicarmi il problema, dammi una soluzione. Dimmi cosa faresti se qui comandassi tu».

La mattina dopo, Naughton invia a McNealy un report di 20 pagine, che viene subito girato all’intera prima linea manageriale. Il giorno seguente, la casella e-mail di Naughton è piena di messaggi di questo tenore: «È quello che pensavamo anche noi da tempo, ma nessuno aveva avuto il coraggio di ammettere i propri errori». Naughton viene immediatamente inserito in un gruppo di lavoro ad hoc insieme a diversi ingegneri di alto livello. Nel corso di un brainstorming notturno, il neonato gruppo delinea le linee guida per lo sviluppo di un nuovo prodotto. Competere con Microsoft è fuori discussione, si decide così di mettersi al lavoro per costruire un software che possa sostanzialmente “funzionare ovunque”, anche in contesti che ancora non vengono associati all’idea di computer.

Nel 1991 il team di sviluppo è attivo in maniera totalmente indipendente dalle attività considerate core business da Sun. Già in agosto, è pronta una bozza di software che prende il nome di Oak, in inglese quercia, cioè l’albero che si vede fuori dalla finestra della stanza in cui il gruppo di programmatori lavora. Nel 1995 si giunge a una versione stabile del software, sviluppata per diventare una “killer app” come compagna per i nascenti web browser (non a caso, uno dei primi accordi commerciali sarà con l’allora dominante Netscape). Poiché nel team di lavoro si consumavano grandi quantità di caffè Java, si decide di rinominare il software in un modo più funzionale anche rispetto alle esigenze di marketing. Nasce così Hot Java. Il resto è storia, una storia che comprende la diffusione di questo linguaggio software praticamente ovunque. La vicenda di Sun come entità indipendente ha una conclusione nel 2010, quando l’azienda viene acquisita da Oracle, che oggi detiene il marchio Java. Ma questa è un’altra storia.

[ illustrazione: testata del «San Jose Mercury News» del 23 marzo 1995 ]

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BIGDATA, CONCETTI, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Benvenuti nell’era del taylorismo 2.0

Fra le varie ipotesi di reviviscenza del taylorismo emerse dal dibattito manageriale degli ultimi anni, ve ne è una dotata di particolare concretezza. Se è vero che alla base dello scientific management è, da sempre, il progressivo perfezionamento nella gestione di dati, il fenomeno tecno/sociale noto come “big data” sembra offrire la possibilità di una nuova, aggiornata incarnazione dello spirito tayloristico.

La reincarnazione è resa possibile dalla quasi perfetta comunanza di intenti tra un elemento tecnologico – l’enorme, pervasivo potere delle attuali infrastrutture tecnologiche – e un tratto culturale, cioè l’ideologia cyber-ottimista diffusa nel mondo dal modello delle startup americane. È la congiunzione fra questi due fattori – nota un recente articolo della rivista «Pop Matters» – a dar vita al taylorismo 2.0.

La rinascita di un’attitudine al continuo perfezionamento individuale, ben rappresentata sul web da «Life Hacker», dalla rubrica Work Smart di «Fast Company» e da molti articoli di Linkedin Pulse – testimonia della completa internalizzazione dei principi di controllo del taylorismo fatta propria da orde di “knowledge worker”. In altri termini, mettersi al servizio dell’efficientismo della macchina taylorista non è mai stato così cool.

Se questa indole rappresenta bene il colletto bianco medio, dalle organizzazioni d’impresa e dai dipartimenti HR sembra provenire una consonante risposta, riassunta dalle sperimentazioni in termini di raccolta e valutazione dati identificate dalla sigla “people analytics”. Misurare è tornato dunque decisamente di moda, con buona pace di vent’anni di letteratura manageriale spesi ad affiancare l’aggettivo “emotivo” al mondo del business.

[ illustrazione: fotogramma dal film Modern Times di Charles Chaplin, 1936 ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, COLLABORAZIONE, CREATIVITÀ, DECISIONE, DEMOCRAZIA, EPISTEMOLOGIA, LAVORO, MANAGEMENT, POLITICA, SOCIETÀ

Creatività: finalmente un ottimo libro (scritto nel 1924)

«Il problema della democrazia è quello di come rendere la nostra vita quotidiana creativa».
Mary Parker Follett

Su Wikipedia ancora nessuno ha pensato di aprire una pagina in italiano dedicata a Mary Parker Follett (1868-1933). Questo particolare la dice lunga sulla scarsa fama di cui gode in Italia questa pensatrice americana, il cui contributo è stato centrale per lo sviluppo del pensiero manageriale delle origini. Il confronto con la psicologia comportamentale e con quella della Gestalt permisero a Follett di elaborare un pensiero originale nel quale le logiche funzionalistiche e gerarchiche dell’organizzazione del lavoro sono rilette secondo una dinamica di valorizzazione dell’elemento umano che anticipa – e per molti versi supera – diversi elementi tematizzati dallo Human Resources Movement.

Il suo testo Esperienza creativa (1924) offre una lettura del tema della creatività di grande valore civile. Anzitutto, creatività non è cosa individuale ma relazionale. Il discorso di Follett sulla creatività è collettivo e sociale, ponendosi come presupposto per una vera democrazia. La creatività è integrazione di diversità e il tema della responsabilità e del confronto non sta nella risposta di un soggetto A a un soggetto B, ma nella relazione fra A, B e il contesto in cui entrambi si muovono. Tutti questi elementi sono dinamici, in continuo cambiamento. La loro relazione non avviene tramite un’entità astratta come la “mente”, ma in concreto, nel mondo, attraverso relazioni fisiche e motorie. La pratica della creatività è il processo di integrazione che scaturisce da questo incontro.

Follett dedica diverse pagine del suo saggio a un tema centrale per le organizzazioni contemporanee e più in generale per la società, quello del ruolo dell’esperto. La cieca fiducia che spesso viene conferita a chi è ritenuto in possesso di una conoscenza “esperta” rappresenta una delegittimazione della relazione di corresponsabilità e, di conseguenza, delle dinamiche alla base della creatività. Il presupposto erroneo di questo tipo di considerazione sta nel ritenere i fatti immutabili e le posizioni dell’esperto assolute. Ma, coerentemente con la dinamica di integrazione esposta da Follett, i fatti non potranno mai essere statici, né le interpretazioni oggettive. L’esperienza delegata non potrà mai prendere il posto di un’esperienza vissuta relazionalmente, dialetticamente. Ecco perché un’educazione al “buon uso” degli esperti, nei confronti dei quali il tema centrale è di nuovo quello del dialogo e dell’integrazione, è un presupposto fondamentale per una effettiva democrazia, tanto in ambito sociale quanto lavorativo.

[ illustrazione: Henry Matisse, La tristesse du roi, 1952 ]

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