CINEMA, LETTERATURA, RAPPRESENTAZIONE, STORIE, TECNOLOGIA

Cuore di Tenebra di Orson Welles: un film che non abbiamo potuto vedere

Nel capitolo ambientato a Roma del libro-intervista con Peter Bogdanovich, Orson Welles racconta del suo antico desiderio di trasformare in film Cuore di tenebra (1902) di Joseph Conrad, testo con il quale aveva già ottenuto un grande successo radiofonico. Era il 1939 e tutto fallì, come spesso accadeva a Welles, in mancanza di un budget adeguato. L’amarezza per un progetto mancato è aggravata dal fatto che esisteva già una sceneggiatura completa.

A Welles non andava di interpretare il temibile Kurtz (sarebbe stata una scelta troppo scontata), ma piuttosto il capitano Marlow. Attraverso i suoi occhi, grazie a una ripresa in soggettiva, avremmo vissuto l’intera vicenda. Poiché la maggior parte della narrazione vede il protagonista al comando della sua imbarcazione, Welles avrebbe potuto riprendere il suo volto riflesso nel vetro della cabina di pilotaggio, lasciandovi scorrere sotto il fitto paesaggio della foresta.

Se alla RKO l’idea di Welles fosse andata a genio, la soggettiva avrebbe debuttato al cinema con otto anni di anticipo su The lady in the lake, film del 1947 di Robert Montgomery. Quest’ultimo ha il principale merito di essere stato il primo a dimostrare che la soggettiva cinematografica rischia di fallire, quando protratta per un intero film (L’arca russa di Alexandr Sokurov è forse un’eccezione che conferma la regola). Nata per restituire l’autenticità e l’immediatezza dell’esperienza visiva, la soggettiva cinematografica finisce paradossalmente per risultare un espediente del tutto artificioso: vediamo sì con gli occhi del protagonista, ma non possiamo girare la testa dove vogliamo. Ma come sarebbero andate le cose, se fosse stato Orson Welles il primo a portarla al cinema?

[ illustrazione: Orson Welles in Citizen Kane, 1941 ]

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CREATIVITÀ, EPISTEMOLOGIA, INTERNET, LETTERATURA, SCRITTURA, TECNOLOGIA, TEMPO

Il “realismo istantaneo” del web

Il romanzo, così come l’abbiamo conosciuto, rischia di sparire. A metterne a repentaglio l’esistenza sarebbe, tanto per cambiare, il web, origine di praticamente ogni male contemporaneo. Siamo di fronte a una concreta minaccia, o si tratta dell’ennesimo bluff giornalistico? Tanto per cominciare, il tema non è esattamente una novità: la crisi del romanzo viene discussa da così tanto tempo – circa cento anni, nota lo scrittore inglese Will Self – da essere diventata un topos culturale. È se è pur vero che il tratto caratteristico dell’epoca contemporanea è l’allergia alla complessità, in tutte le sue manifestazioni estetiche, quanta parte di questo stato di cose è da imputare al famigerato web? È lo stesso Self, in un articolo per «The Guardian», ad analizzare la questione.

Come dedicare tempo di qualità alla lettura? Staccarsi da internet, spegnere la tv, zittire la radio, sfuggire al continuo chiacchiericcio che ci circonda. Disconnettersi è oneroso, ma fattibile. Ma cosa può succedere se, una volta immersi nella lettura, scopriamo che il testo con cui ci stiamo confrontando è frutto di un lavoro che non è riuscito a sfuggire alle distrazioni da noi faticosamente annullate? Quel che differenzia lo scrittore di oggi da chi l’ha preceduto, in epoca pre-internet, è la presenza di un surrogato immaginativo sempre a portata di mano. Sei in difficoltà nel trasformare in parole la sensazione di un’immagine, di un suono, di un gusto? Niente paura: basta cercare sul web, infinito deposito di “realismo istantaneo”, una soluzione pronto uso. Ecco la radicalità del punto di vista di Self: il web minaccia il romanzo non tanto perché distrae i lettori, ma perché impigrisce la fantasia degli scrittori.

[ illustrazione: Mario Schifano, 1970 ]

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CINEMA, LETTERATURA, SOCIETÀ, STORIE

L’omaggio a Stefan Zweig di Grand Budapest Hotel

Il personaggio centrale di Grand Budapest Hotel (regia di Wes Anderson, 2014) è il concierge Gustave H, uomo dalla professionalità indiscutibile, dotato di un inappuntabile senso dell’eleganza e, non da ultimo, di buon cuore. Se è vero che l’eccellente tour-de-force stilistico proposto da Anderson ruota soprattutto attorno a una rocambolesca e comica caccia al ladro, il film non è privo di risvolti tragici, fondamentalmente legati alla figura di Gustave H e al suo destino.

Non è un segreto che Wes Anderson si sia fortemente ispirato per questo film all’opera dello scrittore austriaco di origine ebraiche Stefan Zweig (1881-1942), alcuni tratti del quale si ritrovano proprio nel personaggio di Gustave H. In particolare, la rivista «New York Review of Books» trova un parallelismo fra il “network” di concierge di cui Gustave H si serve per evadere con successo di prigione e il circolo di intellettuali con cui Zweig era in relazione. In entrambi i casi, purtroppo, questo aiuto non è sufficiente a fronteggiare le brutalità della guerra e a evitare una tragica fine a entrambi i personaggi.

Il Saggio The Impossible Exile: Stefan Zweig at the End of the World (2014) di George Prochick ricostruisce le circostanze che dall’Austria hanno condotto Zweig prima in Inghilterra, poi a New York e infine a Petrópolis in Brasile, dove morirà suicida nel 1942. Fu proprio la condizione dell’esilio, nonché di fiera ma impotente opposizione alla guerra, a caratterizzare gran parte dell’esistenza di Zweig, le cui ultime parole scritte furono le seguenti:

«Non c’era niente da fare, da sentire, da vedere, il nulla era ovunque… un vuoto completamente senza dimensione e senza tempo».

[ illustrazione: fotogramma da Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, 2014 ]

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CITTÀ, LAVORO, LETTERATURA

L’inquinamento delle relazioni, secondo Italo Calvino

In La nuvola di smog, racconto del 1956 di Italo Calvino (1923 – 1985), prende forma una aspra lettura dei rapporti interpersonali nella società dei consumi. Superficialità e opacità delle relazioni, meccanicamente definite da rapporti di classe e status, sono metaforicamente rappresentate dall’oscura entità evocata dal titolo del racconto: lo smog.

La nuvola che sovrasta l’ambiente metropolitano genera una patina di polvere e sporco che copre oggetti e situazioni della vita quotidiana e lavorativa. L’oppressione è vissuta con passività e inedia, senza slanci di autenticità. La dialettica fra sporco e pulito, minaccia di contaminazione e purezza, non corrisponde per Calvino a una rivendicazione “ecologica” ma piuttosto a una denuncia di meccanismi sociali – oliati dalle precise logiche del mondo del lavoro – che sembrano creare nuovi problemi semplicemente per poter ideologicamente “vendere”, in maniera del tutto autoreferenziale, nuove soluzioni. E se l’anonimo protagonista del racconto confessa di non trovarsi poi tanto male nello smog, non è affatto contraddittorio che egli lavori per un ente votato alla “purificazione dell’atmosfera urbana dei centri industriali”, da lui descritto con queste parole:

«Una creatura dello smog, nata dal bisogno di dare a chi lavorava per lo smog la speranza d’una vita che non fosse solo di smog, ma nello stesso tempo per celebrarne la potenza».

[ illustrazione: Berndnaut Smilde, Nimbus II, 2012 ]

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BIGDATA, IRONIA, LETTERATURA, LIBRI, TECNOLOGIA

La lettura digitale e le vicine/lontane sorti di Italo Svevo e Steve Jobs

Difficile immaginare personaggi meno compatibili di Italo Svevo (1861-1928) e Steve Jobs (1955-2011). A differenziarli sono il tempo e il luogo in cui hanno vissuto, la professione, il ruolo sociale. Ad avvicinarli sono oggi, inaspettatamente, i dati di lettura raccolti in Italia da Amazon: sui dispositivi Kindle i due libri maggiormente “sottolineati” sono La coscienza di Zeno (1923) e Steve Jobs di Walter Isaacson (2011).

Le citazioni più estratte da Svevo sono queste:

«È un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente».
«Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz’obiezioni, il destino».
«È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta — raramente — non si può fare a meno».

Quelle tratte dal libro di Isaacson le seguenti:

«Gli insegnai che, se si agisce come se si fosse in grado di fare qualcosa, quel qualcosa si realizza. Gli dissi: fa’ finta di avere il controllo assoluto della situazione e la gente penserà che tu ce l’abbia davvero».
«Ripeteva che non bisogna mai fondare un’azienda con l’obiettivo di diventare ricchi. L’obiettivo dev’essere produrre qualcosa in cui si crede e creare un’industria che duri nel tempo».
«Siccome non sapevo che non si poteva fare, mi sentivo in grado di farlo».

Se l’accostamento tra i due personaggi è già di per sé curioso, giustapporre le citazioni tratte dai libri dà vita a un bizzarro mash-up in cui profonde riflessioni sul destino dell’uomo si mescolando a spunti motivazionali di stampo aziendale. E viene da chiedersi: Svevo sta in cima alla classifica solo perché è scaricabile gratuitamente o perché in fondo gli italiani, pur leggendo poco, leggono bene? E con Isaacson come la mettiamo? E ancora: saranno in molti ad avere entrambi i libri sul Kindle? Al di là del piacere di gusto “pop” del trovare accostati mondi così lontani, interpretare i dati di Amazon è praticamente impossibile. Il futuro degli studi sulla “letteratura digitale” è destinato a essere caratterizzato molto più da curiose casualità che dalla possibilità di indagini critiche.

[ illustrazione: Henri Matisse, Natura morta con libri e candela, 1890 ]

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ARTE, LETTERATURA, POLITICA, SOCIETÀ

La letteratura come insurrezione: Max Frisch e il Quadrato Nero di Malevič

Nella seconda di due lezioni sulla letteratura tenute nel novembre 1981 presso il City College di New York, Max Frisch racconta di un ambasciatore straniero in visita al museo dell’Ermitage. L’ambasciatore si mostra curioso di poter vedere un’opera nascosta negli archivi del museo, negata al pubblico perché considerata socialmente pericolosa. L’opera in questione è il Quadrato Nero di Kazimir Malevič, tela del 1915 che costituisce l’esempio forse più noto dell’arte suprematista, descritta dal pittore in questi termini:

«Questo disegno avrà una importanza enorme per la pittura. Rappresenta un quadrato nero, l’embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente».

La richiesta dell’ambasciatore viene esaudita e la sua reazione è uno sbigottito “tutto qui?”. Che bisogno c’è di tenere nascosta un’opera che, a ben vedere, il popolo non degnerebbe di uno sguardo? La risposta che l’ambasciatore riceve è la seguente: è vero, il popolo non riuscirebbe a capire il senso del quadrato nero, ma tramite esso vedrebbe che oltre alla società e allo Stato esiste altro. In questo “esiste altro” c’è il senso della letteratura per Frisch, la missione di un’arte che possa contrapporsi al potere.

Quello di Frisch è un discorso politico interamente incentrato sul ruolo della parola e della scrittura: il potere impone una lingua che informa e determina la percezione di sé e il racconto. È la lingua che impariamo a scuola, fatta di luoghi comuni, frasi fatte e stereotipi tarati sugli interessi della classe dominante. Il mestiere di chi scrive è quello di liberare sé e i propri lettori da questa egemonia, andando in cerca di una lingua più autentica, che possa avvicinarsi all’esperienza. Questo è il valore della letteratura come “quadrato nero”:

«Accade che la sua lingua mi liberi […]. Può darsi che inizialmente mi riduca al silenzio, giacché scopro grazie alla letteratura che quelle con le quali convivo sono tutte frasi fatte. E questo significa che non vivo me stesso. [La letteratura] mi sfida. Per dirla in breve: mi fa insorgere. Se questo non succede, leggere è superfluo».

[ illustrazione: Kazimir Malevič, Quadrato Nero, 1915 ]

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BIGDATA, LETTERATURA, LIBRI, MARKETING, TECNOLOGIA

I big data non svelano il libro perfetto, solo il lettore imperfetto

Far uso di un dispositivo e-book significa, in modo più o meno consapevole, acconsentire al fatto che il gestore del servizio possa raccogliere – senza fatica e a titolo gratuito – un certo numero di dati relativi all’esperienza di lettura. Parliamo di preferenze di scelta, tempi di fruizione, brani evidenziati perché interessanti: avere a disposizione dati di questa natura rappresenta per autori e case editrici un’inedita opportunità per produrre testi che rispondano esattamente alle preferenze dei lettori. La via per il libro perfetto sembra dunque tracciata, e se è innegabile che pensare di percorrerla evoca una disposizione etica che si avvicina a quella di chi propaganda neonati perfetti coltivati in vitro, va da sé che sono già in molti a paventarne le peggiori conseguenze.

Un recente articolo del New Yorker cerca di portare la questione su binari interpretativi meno assolutistici. Anzitutto, poiché si è sempre inteso scrivere per qualcuno, cercare di intercettare i gusti del proprio pubblico non è certo cosa nuova. Le tecnologie digitali, dunque, possono solo rendere la raccolta dati più semplice. Ma quanto significativa? Rispondere a questa domanda non è facile. Per esempio: i dati di diversi store e-book indicano che solo l’1% dei lettori conclude la lettura del classico romanzo di Jane Austen Orgoglio e pregiudizio (1813). Peccato che non sappiano spiegare perché. Questo deficit conoscitivo – tipico dell’era big data – certo non favorisce la creazione in vitro del “libro perfetto” di cui sopra.

La raccolta di precisi e freddi dati di lettura, lungi dall’illuminare sul futuro della scrittura e della narrazione, rischia di servire solo a smascherare la verità celata dietro a tante letture millantate ma mai compiute. Il che ci fa sentire tutti un po’ in colpa. A questo proposito, a chi come il sottoscritto non è mai riuscito a finire – fra gli altri – Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace, consiglio di dare un’occhiata a un libro dal titolo più che azzeccato: Come parlare di un libro senza averlo mai letto (2009) di Pierre Bayard.

[ illustrazione: Woman reading, National Media Museum – Kodak Gallery Collection, circa 1890 ]

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CINEMA, LAVORO, LETTERATURA, SCRITTURA

Lo stile e la ricerca secondo Hemingway e Tarkovskij

«Secondo me, però, quello che talvolta si definisce “stile” spesso non sono altro che le esitazioni di chi si è cimentato con un qualcosa che non era mai stato fatto prima. I nuovi classici non assomigliano mai ai classici dei periodi precedenti. E all’inizio, l’unica cosa che la gente nota, non essendo in grado di accorgersi di nient’altro, sono quelle esitazioni. Così quando si comincia a pensare che le esitazioni siano un nuovo stile, una marea di persone si mette a imitarlo. È davvero una brutta faccenda».

Queste parole di Ernest Hemingway (1899-1961), raccolte nel piccolo libro-intervista con il giornalista americano George Plimpton Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare (1954), affrontano il tema della ricerca di uno stile in scrittura. A detta di Hemingway, le idiosincrasie dello stile altro non sono che gli inciampi cui l’esplorazione del nuovo va incontro. Le tracce di queste esitazioni si cristallizzano sulla superficie della scrittura e vengono riconosciute come stile.

Rispetto a questo ragionamento, relativo alla scrittura ma applicabile anche ad altri contesti, utile è la correlazione con la metafora che dà titolo al libro citato, usata da Hemingway per rendere conto della relazione fra lavoro preparatorio e opera compiuta. Il “principio dell’iceberg” afferma che il lavoro di indagine, ricerca e approfondimento deve restare nascosto in profondità, sotto l’acqua, offrendo ai destinatari dell’opera solo l’essenziale, quel che deve vedersi in superficie. Che è poi il luogo in cui si depositano le esitazioni dello stile.

Vicine alle considerazioni di Hemingway sono quelle espresse da Andrej Tarkovskij (1932-1986) in Scolpire il tempo (1988):

«Nulla ha meno senso della parola “ricerca” applicata all’opera d’arte».

Secondo il grande regista, la ricerca – cioè la parte sommersa dell’iceberg – non deve essere confusa con ciò che emerge, cioè l’opera in sé. Chi mette in primo piano la ricerca – e qui il bersaglio critico di Tarkovskij è proprio tutta l’arte che si definisce “di ricerca” – denuncia un’incapacità nel dar forma a un’opera compiuta e lascia emergere, non senza una certa dose di vanità, quanto dovrebbe restare sommerso.

[ illustrazione: Ernest Hemingway, foto di Earl Theisen, 1952 ]

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CAMBIAMENTO, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ

Disoccupazione e ruolo sociale delle aziende, dal 1959 a oggi

Quel che più colpisce leggendo oggi Donnarumma all’assalto, romanzo scritto da Ottiero Ottieri nel 1959, sono i grandi cambiamenti subiti nel corso del tempo dal fenomeno della disoccupazione, osservato nei suoi elementi scatenanti e nelle conseguenze sociali.

È a valle dell’esperienza di selezionatore del personale presso lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli che Ottieri scrisse questo libro, che risulta colmo della sofferenza dell’autore nell’interpretazione uno scomodo ruolo di cerniera fra impresa e cittadini. Nel romanzo i disoccupati – di cui il rancoroso e violento Donnarumma diventa principale simbolo – recriminano un lavoro che difficilmente potrà loro essere dato, soprattutto per via del cambiamento in corso nelle modalità di organizzazione aziendale, ormai improntate all’automazione e alla specializzazione del manovale. La rabbia proletaria, simbolicamente rivolta contro la schematicità dei test di valutazione “psicotecnici” (su cui ironizzerà anche Ermanno Olmi nel suo Il posto, film del 1961), si innesta sul senso di bisogno di un posto di lavoro che viene percepito,raffrontandosi con un’istituzione aziendale cui si attribuisce un ruolo civile e non solo economico, come dovuto.

Provando a confrontare questa visione della disoccupazione, collocata nell’Italia industriale del boom, con quella dominante oggi nel nostro Paese, emergono differenze molto significative per quel che riguarda l’atteggiamento degli stessi disoccupati. Questi ultimi, soprattutto quando particolarmente giovani, si caratterizzano per una sensazione di frustrazione e rassegnazione che non è in grado di esprimere nessuna forma di protesta nei confronti delle istituzioni organizzative. La sensazione di impotenza che la “crisi sistemica” ha inculcato nei giovani si unisce a un atteggiamento di immobilismo rafforzato dal ruolo di protezione spesso rivestito dalle famiglie. Se a ciò si aggiunge il sentimento di disillusione nei confronti dell’impegno politico (manifestato dall’emergere di nuovi movimenti guidati da “tribuni del popolo”), il quadro dei disoccupati d’oggi risulta completo e non potrebbe essere più distante da quello descritto da Ottieri oltre cinquanta anni fa.

[ illustrazione: fotogramma da La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, 1971 ]

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CAMBIAMENTO, CITTÀ, CULTURA, ECONOMIA, LAVORO, LETTERATURA, LIBRI, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TEMPO

Da Kansas City a Milano: Bianciardi, Parise e il cambiamento culturale

«Non siamo in America, dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato, e dove il paesaggio e la realtà giornaliera coincidono perfettamente con la cultura americana».

«Essendo il nostro paese molto vecchio permangono in molti suoi abitanti e nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso che rende uguale ogni apparenza, alcuni frammenti di “cultura umanistica”: cioè autoctona, locale […]. Essi sono scomparsi completamente nella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande, specialmente al Nord […], malata di una malattia americana: il pragmatismo».

Così scriveva Goffredo Parise (1929-1986) tra il luglio e l’agosto del 1974, in due articoli pubblicati su una rubrica di corrispondenza con i lettori da lui curata per il «Corriere della Sera» in quegli anni (di cui oggi viene presentata una piccola selezione in Dobbiamo disobbedire, 2013). Qui il tema è quello delle origini culturali e della loro cancellazione da parte del pensiero funzionalista diffuso dalla cultura lavorativa di stampo americano. Dalle parole di Parise emerge il riconoscimento di una cultura “umanistica”, retaggio di un passato agricolo, popolare paesano e cattolico, e insieme la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla sua scomparsa, causata da quella che, in altri articoli tratti dalla sua rubrica, egli chiama con ineluttabile semplicità la “forza delle cose”.

Il frammento tratto da Parise ne evoca un altro di Luciano Bianciardi (1922-1971), estratto da Il lavoro culturale (1957-1964):

«Kansas City, Kansas City è la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovi».

Kansas City è per Bianciardi la sua Grosseto, percepita dai più giovani – di cui lo scrittore si sente parte – come senza origini, nonostante ci fossero ancora molti accapigliati a cercarle, per esempio indagando la storia degli Etruschi. Per Bianciardi il dialogo è fra Grosseto/Kansas City e Milano, città che rappresenta “il lavoro culturale” e in cui si trova incarnata, tanto nella sostanza quanto nella forma del “linguaggio aziendale”, l’ideologia pragmatista di stampo americano di cui parlerà poi anche Parise. Non a caso, Bianciardi si trasferirà proprio a Milano in cerca di lavoro e riconsidererà con amarezza la sua Kansas City.

Questi due frammenti, scritti in anni diversi da autori coevi, fotografano lo sforzo dell’intellettuale nel dar conto di un momento che, per il nostro Paese, è stato di effettiva svolta e di forzato scontro culturale. Le parole di Bianciardi e Parise testimoniano un cambiamento il cui destino è forse solo oggi possibile vedere nel pieno sviluppo delle sue conseguenze.

[ illustrazione: articolo di «Epoca» del 29 aprile 1962 ]

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