APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, FRUGALITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Un diverso punto di vista sulla frugalità

Paolo Legrenzi, Docente di Psicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, esplora nel suo Frugalità (2014) un concetto che in tempi di crisi gode di particolare popolarità. Ma cosa significa essere frugali? Assumendo il punto di vista dello psicologo, la frugalità è un atteggiamento generale di fronte alla vita, una scelta di stile e buon gusto che poco o nulla ha che fare – come ha sostenuto Bruno Munari in Da cosa nasce cosa (1981) – con il lusso. La frugalità, nota Legrenzi, non è uno strumento orientato a uno scopo; deve essere coltivata come un fine in se stessa. Non si tratta, come nel caso della povertà, di una costrizione, ma del risultato di una libera scelta. Essere frugali significa rifiutare l’abbondanza e il superfluo, concentrandosi sull’essenziale.

Un simile approccio alla frugalità si distanzia fortemente da quello assunto dalla maggior parte dei libri di business orientati a questo tema. Come citato in apertura, se oggi si parla tanto di frugalità è principalmente a causa del generale contesto di crisi e della diffusa percezione di scarsità. Soprattutto per quanto riguarda le aziende, vissute per lungo tempo in un ambiente di abbondanza di risorse, ricorrere alla frugalità è oggi più un obbligo che una scelta. Proprio come lo è l’imparare a improvvisare per chi si è cullato per anni nella credenza che i piani possano essere immutabili e impermeabili ai cambiamenti di contesto.

La maggiore utilità del libro di Legrenzi è dunque questa: offrire un convinto paradigma di vita orientato alla frugalità a chi inizia solo ora a confrontarsi con questa parola. Benché l’autore sembri guardare i nuovi adepti dall’alto al basso (la frugalità è un sapere tacito che si impara da piccoli in famiglia, non una nozione che si apprende a scuola – sostiene Legrenzi), nelle ultime pagine di Frugalità (2014) stila un decalogo il cui senso può essere sintetizzato in una parola: autocontrollo.

[ illustrazione: Giuseppe Vermiglio, S. Paolo Eremita, circa 1649 ]

Standard
CONCETTI, LAVORO, PAROLE

Contro la spontaneità

Sinonimo di condotta “naturale” e non “costruita”, la spontaneità è uno dei concetti chiave della società contemporanea. La spontaneità mette d’accordo tutti in nome di una autorealizzazione più autentica. Difficile, dunque, trovare qualcuno disposto a dichiarare di non ritenerla un valore e una meta da raggiungere. Se la spontaneità riscuote tanto successo è probabilmente perché – nota Steven Poole in un articolo per «The New Republic» – moltissime persone la percepiscono frustrata nella propria vita quotidiana, soprattutto nella sfera lavorativa. Non è del resto sorprendente che la ricerca di spontaneità occupi gran parte delle attività del “tempo libero”, concetto la cui fortuna di basa su simili presupposti.

Ma a cosa si aspira, quando si parla di spontaneità? Non propriamente alla libertà, idea troppo ampia, esorbitante, generatrice di disorientamento e horror vacui. Piuttosto, a un surrogato di scelta, un anelito di distintività all’interno della consapevolezza di essere massa. Poole cita la particolare forma di “spontaneità mediata” oggi offerta da molte app per smartphone, per esempio quelle orientate a incontrare sconosciuti. La dinamica tecnologica dell’incontro, alimentata da opzioni precostituite e da un rassicurante senso di controllo, restituisce all’utente una soddisfacente sensazione di spontaneità.

Poole coglie nel segno accostando la spontaneità alla mindfulness, altro concetto oggi in gran voga (in particolare nel mondo del business). La mindfulness promette una concentrazione sull’attimo, una sorta di immersione zen in quel che si sta facendo. Perdersi nel momento libera dalla sensazione di stress, ma non ne elimina le cause. Somiglia dunque a un’anestizzazione della coscienza critica, un’alienazione volontaria pericolosamente vicina alla passività e alla deresponsabilizzazione. Secondo Poole, forse è proprio per questo che piace tanto ai datori di lavoro.

Tanto spontaneità quanto mindfulness offrono rassicurazioni che si oppongono alle fatiche della preoccupazione, dello sforzo, del tempo dovuto. Alimentano l’ideologia del “tutto e subito” che l’accessibilità istantanea del mondo tecnologico – in realtà totalmente mediata – continuamente contribuisce ad alimentare. Per non restarne vittime, utile riconsiderare una celebre citazione del musicista e compositore Charles Mingus, nella sua semplicità perfetta per neutralizzare qualsiasi appello di illusoria spontaneità:

«Non si può improvvisare sul nulla».

[ illustrazione: fotogramma da Groundhog Day di Harold Ramis, 1993 ]

Standard
CINEMA, INDUSTRIA, IRONIA, LAVORO, LIBRI, POLITICA, SOCIETÀ, STORIA

Gasparazzo, il fumetto della lotta operaia italiana

Gasparazzo è un personaggio nato nel 1971 dalla matita del compianto fumettista Roberto Zamarin (1940-1972 ) e comparso sulle pagine di «Lotta Continua» e in un libretto dal semplice titolo Gasparazzo (1972).

Gasparazzo – il cui nome rimanda a quello di Calogero Ciraldo Gasparazzo, carbonaio che partecipò alla rivolta di Bronte del 1860 – è un immaginario lavoratore meridionale che emigra a Torino come addetto alle linee di montaggio della Fiat. L’operaio Gasparazzo è vittima del tempo che vive e, insieme, del suo inevitabile radicamento nella cultura italiana. La sua lotta è contro la macchina, lo sfruttamento, le dinamiche di potere e di mafia, la nuova cultura aziendale importata dagli USA. E tuttavia il suo personaggio non è privo di aspetti qualunquisti, violenti e maschilisti espressione dello stesso sistema contro cui lotta. Gasparazzo, secondo le parole del suo creatore Zamarin:

«La politica la scopre giorno per giorno buttando la sua ribellione istintiva dentro al meccanismo disciplinato della grande fabbrica moderna. Per il resto vive come tanti altri come lui, segue lo sport, guarda la televisione, pensa alle donne».

Per comprendere il ruolo di Gasparazzo nella cultura italiana bisogna pensare, più che al romanzo industriale degli anni ’50 e ’60, a riferimenti contemporanei a Zamarin, per esempio i film La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Mimì metallurgico ferito nell’onore di Lina Wertmüller, entrambi risalenti al biennio 1971-1972. Lette oggi, le strisce del fumetto aiutano a ricordare un preciso momento della storia italiana – quando ancora esisteva una classe proletaria in senso proprio – e a interpretare la successiva evoluzione dell’ethos impiegatizio nazionale.

[ illustrazione: una tavola tratta da Gasparazzo di Roberto Zamarin, 1972 ]

Standard
ARTE, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ, STORIA

White collar, la graphic novel italiana del 1938 che racconta la grande depressione

Genovese, emigrato negli Stati Uniti a soli diciotto anni, Giacomo Patri (1898–1978) può essere considerato fra i precursori dell’attuale graphic novel. Più correttamente, l’arte di Patri – attivo come illustratore e docente a Los Angeles – rientra nella categoria delle “wordless novel”, racconti in forma di sole immagini realizzati con tecniche di incisione e stampa a rilievo. Storicamente, il primo esempio di questo genere narrativo – fortemente debitore nei confronti dell’arte espressionista – è la novella del 1918 25 images de la passion d’un homme, realizzata dal belga Frans Masereel (1889-1972) a partire da incisioni su legno e incentrata sulle peripezie della classe operaia nella società industriale.

A simili tematiche si lega il capolavoro di Giacomo Patri, l’opera in linografia (incisioni su linoleum) White Collar (1938), frutto di tre anni di lavoro e di una paziente opera di stampa e rilegatura operata dall’autore stesso con la moglie. Con toni parzialmente autobiografici, la novella di Patri racconta le gesta di un illustratore pubblicitario che vive il suo sogno di ascesa sociale, senza troppo curarsi dei movimenti di protesta dell’attivismo operaio. Ma la cattiva sorte è in agguato, sotto forma della crisi finanziaria del 1929, che causa al protagonista la perdita del lavoro e l’accumulazione di una serie di debiti. La spirale di sfortune nella quale il protagonista e la sua famiglia precipitano sembra non avere fine, con la difficoltà nel sostentare l’ultimo nato, un lavoro indipendente fallito, un impiego da travet conclusosi con un licenziamento, la conseguente perdita della casa. Ormai in mezzo alla strada, il protagonista si libera finalmente dal suo “colletto bianco”, simbolo delle false speranze di scalata sociale e della stessa crisi del ’29, e si unisce al movimento operaio.

La splendida opera di Patri, che fu utilizzata dal movimento operaio americano per mettere il luce il comune pericolo corso in tempi di crisi sia dai colletti bianchi che da quelli blu, è oggi facilmente reperibile nel volume Graphic Witness (2007), che raccoglie quattro fra le migliori wordless novel delle origini (compresa 25 images de la passion d’un homme di Masereel).

[ illustrazione: tavola da White Collar di Giacomo Patri, 1938 ]

Standard
CREATIVITÀ, FILOSOFIA, INTERNET, LAVORO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

Calibano e la tecnica: una critica di Lewis Mumford al paradigma scientifico

«Per spiegare la natura dell’uomo nella sua totalità, dobbiamo includere nella sua storia un elemento temporale che, dopo Aristotele, non ha avuto alcuna parte nei calcoli scientifici: la sfera del potenziale e del possibile, la sfera della reale creatività».

Da queste parole di Lewis Mumford (1895-1990), tratte da una lezione tenuta a New York nel 1954 e raccolte in forma scritta in Per una civiltà umana (2002), emerge una profonda critica nei confronti del paradigma scientifico che ha determinato il destino della nostra civiltà. Per sostenere le sue tesi, Mumford ricorre a un prestito metaforico da La Tempesta di William Shakespeare: i personaggi di Prospero e Calibano sono assimilati al pensiero di Sigmund Freud e alle diverse facoltà dell’uomo. Se Prospero rappresenta il superego, incarnazione delle facoltà superiori, l’animalesco Calibano è simulacro dell’id, cioè dell’io primitivo e inconscio. Mumford legge nella crisi del presente – il suo, del 1954, ma facilmente anche il nostro – il dominio di Calibano su Prospero, ovvero la perdita per l’uomo di una autodeterminazione spirituale causata del prevalere di istinti orientati al qui e ora e al mero possesso della materia.

Nella trattazione di Mumford, centrale per il prevalere di Calibano è la sua alleanza con la tecnica e l’approccio scientifico. Quando l’azione dell’uomo sulla natura – che è costitutiva della sua autopoiesi – assume un approccio “scientifico” che punta all’oggettivazione, alla misurazione e alla razionalizzazione di ogni pratica, genera un uomo-automa che procede nel perfezionamento della sua ricerca svincolandosi da scopi e dunque deresponsabilizzandosi rispetto all’umanità. Sono figli di questo atteggiamento, nota Mumford avvicinandosi qui fortemente al pensiero di Gunther Anders (ma anche di Arnold Gehlen), le barbarie della guerra e in particolare la progettazione di armi di distruzione di massa. Benché Mumford non le citi, riconducibili a questo approccio paiono anche barbarie meno disastrose ma sottilmente pervasive, quelle generate dall’approccio scientifico al lavoro. Il lavoratore-macchina può ben dirsi figlio di Calibano e della de-umanizzazione del lavoro.

L’alleanza tra Calibano e la tecnica rappresenta la sconfitta della cultura e la realizzazione di quello che Mumford definisce  – citando Henry Miller – un “incubo ad aria condizionata”, cioè la riduzione della vita a meccanismo dentro meccanismi, senza nessuna spinta teleologica. L’antidoto all’apparentemente irreversibile marcia di Calibano è identificato da Mumford nell’impegno, a livello individuale e politico, a produrre qualcosa che trascenda l’orizzonte di una singola persona e guardi a un progetto dal lungo orizzonte futuro. Per cogliere tutta l’attualità delle parole di Mumford, pur a distanza di 60 anni da quando sono state pronunciate, è utile leggere questo suo proposito personale, che suona come una critica in nuce a quanto internet avrebbe realizzato molti anni dopo:

«La mia norma consiste nell’evitare, nei limiti del possibile, la partecipazione a tutte le organizzazioni in cui sia impossibile la conoscenza e la relazione personale, in cui il rapporto di io-tu sia stato distrutto e al suo posto sia stato introdotto un sistema di controllo remoto».

[ illustrazione: Caliban, Miranda, Prospero, C.W. Sharp, 1875 ]

Standard
CONCETTI, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

L’identikit dell’innovatore frugale

Lo studioso inglese di social entrepreneurship (e già consulente del governo di Tony Blair) Charles Leadbeater costruisce nel suo testo The Frugal Innovator (2014) una personale lettura del fenomeno dell’innovazione frugale. In seguito a fasi economiche focalizzate sul bisogno (dal 1945), sul desiderio (dal 1960) e sulla frenesia dell’offerta (dal 1990) – e soprattutto nel necessario attraversamento delle conseguenze della crisi economica del 2008 – Leadbeater riconosce nella frugalità la via di uscita dal tunnel della grande recessione. L’approccio frugale all’innovazione risponde al nuovo atteggiamento della classe media occidentale e al crescente ruolo di protagonista delle popolazioni delle nazioni emergenti. Su questa linea di pensiero, i principali riferimenti di Leadbeater sono il testo The Fortune at the Bottom of the Pyramid (2005) dello studioso C. K. Prahalad (1941-2010) e Jugaad Innovation (2013) di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja, di recente traduzione in italiano.

Ma quali sono le caratteristiche dell’innovatore frugale? Secondo Leadbeater, quattro: un approccio lean, inteso sia nel classico, toyotistico senso di efficienza processuale che come ecologica dinamica di ri-ciclo e sfruttamento degli scarti; l’orientamento alla semplicità come risposta alle esigenze concrete di un mercato orientato alla soluzione di problemi per un numero il più possibile vasto di persone; la ricerca di coesione sociale, finalizzata a costruire comunità e a condividere conoscenze; lo scrupolo di agire in maniera pulita e sostenibile rispetto all’ambiente. Questi principi vengono distillati in The Frugal Innovator grazie all’analisi di diversi casi studio, che pur attingendo abbondantemente al patrimonio di innovazioni offerto dalla jugaad indiana non mancano di individuare casi di frugalità anche in territorio Europeo.

[ illustrazione: immagine tratta dal sito settimanadelbaratto.it ]

Standard
GIOCO, LAVORO, METAFORE, SOCIETÀ, UFFICI

Office Boy: prima di Monopoly, il gioco come strumento per l’educazione al lavoro

Parker Brothers è un’azienda americana produttrice di giochi da tavolo e giocattoli. La sua storia inizia nel 1883 a Salem (Massachusetts), quando il sedicenne George Parker mette a punto la sua prima creazione: “Banking” è un gioco che simula una scalata al successo mediata da prestiti bancari e scommesse di investimento. Nata come George S. Parker Company per iniziativa del solo George, con l’ingresso in società dei suoi due fratelli nel 1888 l’azienda diventa Parker Brothers. Il più grande successo giunge nel 1935 con “Monopoly”, al quale seguiranno nel decennio successivo altri giochi destinati alla celebrità come “Cluedo” e “Risiko!” Dalla fine degli anni ’60, l’azienda inizia a produrre meno innovazioni – nonostante un interessante avventura nel mondo dei videogame che produrrà titoli come “Q-Bert” – e a staccarsi dalla gestione familiare. Come ultimo esisto di una serie di acquisizioni, il marchio è attualmente proprietà del gruppo Hasbro.

Uno dei più peculiari giochi prodotti da Parker Brothers nei suoi primi anni di attività è, nel 1889, “Office Boy”. L’ispirazione economica già alla base di “Banking” viene in questo caso letta alla luce del più importante fenomeno sociale del momento: l’ascesa del lavoro d’ufficio. Coerente con lo spirito del “sogno americano” alimentato dai romanzi di Horatio Alger (1832-1899), “Office Boy” mette i giocatori nei panni di un ragazzo di bottega pronto a iniziare la sua avventura nel mondo del lavoro. Attraverso un semplice “gioco dell’oca”, l’office boy inizia la sua carriera dalle posizioni aziendali più basse (per esempio portatore o magazziniere) e, diventando poi venditore e dirigente, può aspirare a giungere a capo dell’intera organizzazione. Il cammino è costellato da elementi che consentono l’avanzamento del giocatore o lo costringono all’arresto, brillantemente rappresentati da atteggiamenti lavorativi di segno opposto: disattento/attento, disonesto/onesto, incapace/ambizioso. Attraverso un apparentemente semplice gioco da tavolo, il ragazzo medio americano inizia a fare esperienza dei valori lavorativi che il mondo degli uffici sta iniziando a diffondere nella società. Di lì a poco l’office boy, accompagnato dal suo ideale di scalata sociale e anelito al successo, diventerà il simbolo di più generazioni di colletti bianchi.

[ illustrazione: tabellone di gioco di “Office Boy” di Parker Brothers, 1889 ]

Standard
APPRENDIMENTO, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

Edward Filene, dallo shop management alla traduzione simultanea

Benché trovi un antecedente nel semplice atto del bisbigliare nelle orecchie, la traduzione simultanea come processo mediato dalla tecnologia ha un preciso anno di origine, il 1925. Nel contesto della Società delle Nazioni, nata nel 1919, le due lingue parlate nel quartier generale di Ginevra erano inglese e francese, motivo per cui un processo di traduzione era continuamente necessario. Per qualche anno si utilizzò l’inefficace pratica della traduzione consecutiva, finché Edward Filene (1860-1937) non propose di accorpare in un unico atto l’ascoltare, il tradurre e il parlare.

Edward Filene è uno dei personaggi più interessanti vissuti tra il secolo XVIII e il XIX. Nativo del Massachussetts, ereditò l’attività familiare di commercio di abbigliamento e sviluppò insieme al fratello la catena Filene’s. Ispirato dagli aspetti più illuminati dello scientific management tayloristico, mise a punto moltissime innovazioni nei processi di gestione di magazzino e di vendita. Fra queste, il meccanismo del cosiddetto “automatic bargain”, secondo il quale i prodotti venivano automaticamente scontati e spostati dal piano terra al piano sotterraneo del magazzino, per poi essere infine – se di nuovo invenduti – donati in beneficenza. Filene introdusse inoltre sistemi per il match dei colori dei tessuti e complete e trasparenti policy nei confronti dei clienti, compreso l’ormai classico “soddisfatti o rimborsati”. Fu estremamente corretto e solidale con la classe lavorativa, sostenendo lo sviluppo di cooperative di credito in tutto il Paese e agendo a livello più generale come filantropo, quasi rendendo fattivo l’involontario gioco di parole suggerito dalla radice “fil-” del suo cognome.

Per quanto riguarda la Società delle Nazioni – di cui Filene fu immediato sostenitore – e la traduzione simultanea, furono probabilmente gli stessi principi di scientific management praticati da Filene nella sua azienda a suggerirgli l’innovazione. L’inefficienza della traduzione consecutiva raddoppiava infatti i tempi di traduzione, cosa inammissibile per una comunicazione efficace. L’intuizione di Filene venne sviluppata sul piano tencnologico grazie a un coeso gioco di squadra che coinvolse l’ingegnere meccanico inglese A. Gordon-Finlay e il fondatore dell’IBM Thomas Watson Sr. In seguito alla loro introduzione, le cabine di traduzione simultanea vennero utilizzate sporadicamente durante gli anni ’30 a Ginevra e in Unione Sovietica, per poi riemergere durante il processo di Norimberga.

[ illustrazione: cabina di traduzione simultanea presso il quartier generale dell’aviazione internazionale Montréal, 1949 ]

Standard
COLLABORAZIONE, INNOVAZIONE, INTERNET, LAVORO, MANAGEMENT, STORIE, TECNOLOGIA

JAVA: storia di un’innovazione intraprenditoriale

Non c’è bisogno di essere esperti di informatica per aver visto comparire il nome e il logo “Java” sul monitor di un computer. Per la maggior parte di noi (cioè per i non addetti ai lavori), Java è un linguaggio informatico che permette l’esecuzione di applicazioni web: dagli editor di testo ai filmati, dalle chat ai videogiochi. La sua diffusione va in realtà ben oltre l’ambito web, occupando un ruolo importante nei data center e nelle tecnologie per telefoni cellulari. Se sapete cos’è Java, è tuttavia probabile che possiate non conoscerne la storia.

Nel 1990 il web come lo conosciamo oggi è un fenomeno non ancora pronto a esplodere a livello di massa. Il PC, inteso come personal computer “desktop”, è il prodotto di punta dell’industria informatica, sia in ufficio che nel mercato casalingo. In questo contesto si muove Sun Microsystems, un’azienda della Silicon Valley californiana fondata nel 1982 in relazione all’università di Stanford di Palo Alto. All’inizio del nuovo decennio Sun sta attraversando un periodo di crisi, dovuta alla sua concentrazione sul solo mercato delle workstation professionali e dei server. I suoi prodotti hanno la fama di essere troppo complicati per un mercato di massa; i suoi software non sono all’altezza di quanto Microsoft sta sviluppando.

Patrick Naughton è un programmatore venticinquenne che lavora in Sun da tre anni. Durante una serata conviviale con lo staff dell’azienda, Naughton si avvicina al suo boss – e AD di Sun – Scott McNealy e, fra una birra e l’altra, gli rivela la sua condizione di delusione e frustrazione rispetto al proprio lavoro. Naughton si dice stufo di lavorare a prodotti che sembrano vecchi rispetto alle innovazioni del mercato. Sente che il proprio lavoro non è valorizzato adeguatamente e, afferma, sta valutando di andare a lavorare per NeXT Computer Inc. McNealy prende la palla al balzo e risponde grosso modo così a Naughton: «Prima che tu te ne vada, metti per iscritto quel che pensi Sun oggi stia sbagliando. Non limitarti a indicarmi il problema, dammi una soluzione. Dimmi cosa faresti se qui comandassi tu».

La mattina dopo, Naughton invia a McNealy un report di 20 pagine, che viene subito girato all’intera prima linea manageriale. Il giorno seguente, la casella e-mail di Naughton è piena di messaggi di questo tenore: «È quello che pensavamo anche noi da tempo, ma nessuno aveva avuto il coraggio di ammettere i propri errori». Naughton viene immediatamente inserito in un gruppo di lavoro ad hoc insieme a diversi ingegneri di alto livello. Nel corso di un brainstorming notturno, il neonato gruppo delinea le linee guida per lo sviluppo di un nuovo prodotto. Competere con Microsoft è fuori discussione, si decide così di mettersi al lavoro per costruire un software che possa sostanzialmente “funzionare ovunque”, anche in contesti che ancora non vengono associati all’idea di computer.

Nel 1991 il team di sviluppo è attivo in maniera totalmente indipendente dalle attività considerate core business da Sun. Già in agosto, è pronta una bozza di software che prende il nome di Oak, in inglese quercia, cioè l’albero che si vede fuori dalla finestra della stanza in cui il gruppo di programmatori lavora. Nel 1995 si giunge a una versione stabile del software, sviluppata per diventare una “killer app” come compagna per i nascenti web browser (non a caso, uno dei primi accordi commerciali sarà con l’allora dominante Netscape). Poiché nel team di lavoro si consumavano grandi quantità di caffè Java, si decide di rinominare il software in un modo più funzionale anche rispetto alle esigenze di marketing. Nasce così Hot Java. Il resto è storia, una storia che comprende la diffusione di questo linguaggio software praticamente ovunque. La vicenda di Sun come entità indipendente ha una conclusione nel 2010, quando l’azienda viene acquisita da Oracle, che oggi detiene il marchio Java. Ma questa è un’altra storia.

[ illustrazione: testata del «San Jose Mercury News» del 23 marzo 1995 ]

Standard
BIGDATA, CONCETTI, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Benvenuti nell’era del taylorismo 2.0

Fra le varie ipotesi di reviviscenza del taylorismo emerse dal dibattito manageriale degli ultimi anni, ve ne è una dotata di particolare concretezza. Se è vero che alla base dello scientific management è, da sempre, il progressivo perfezionamento nella gestione di dati, il fenomeno tecno/sociale noto come “big data” sembra offrire la possibilità di una nuova, aggiornata incarnazione dello spirito tayloristico.

La reincarnazione è resa possibile dalla quasi perfetta comunanza di intenti tra un elemento tecnologico – l’enorme, pervasivo potere delle attuali infrastrutture tecnologiche – e un tratto culturale, cioè l’ideologia cyber-ottimista diffusa nel mondo dal modello delle startup americane. È la congiunzione fra questi due fattori – nota un recente articolo della rivista «Pop Matters» – a dar vita al taylorismo 2.0.

La rinascita di un’attitudine al continuo perfezionamento individuale, ben rappresentata sul web da «Life Hacker», dalla rubrica Work Smart di «Fast Company» e da molti articoli di Linkedin Pulse – testimonia della completa internalizzazione dei principi di controllo del taylorismo fatta propria da orde di “knowledge worker”. In altri termini, mettersi al servizio dell’efficientismo della macchina taylorista non è mai stato così cool.

Se questa indole rappresenta bene il colletto bianco medio, dalle organizzazioni d’impresa e dai dipartimenti HR sembra provenire una consonante risposta, riassunta dalle sperimentazioni in termini di raccolta e valutazione dati identificate dalla sigla “people analytics”. Misurare è tornato dunque decisamente di moda, con buona pace di vent’anni di letteratura manageriale spesi ad affiancare l’aggettivo “emotivo” al mondo del business.

[ illustrazione: fotogramma dal film Modern Times di Charles Chaplin, 1936 ]

Standard