CULTURA, LAVORO

Il pensiero positivo e i “buoni pessimisti”

In ambito organizzativo, la dottrina del “pensiero positivo” gode di un solido e duraturo successo. Gli ottimisti, oltre a contribuire a un clima lavorativo sereno, sono in grado di prendere dal verso giusto le difficoltà, risultando resilienti e perseveranti. Il mondo lavorativo è a ogni modo popolato anche dai pessimisti. Il loro atteggiamento, critico per definizione, è a sua volta dotato di lati positivi, soprattutto rispetto alla capacità di prevedere e gestire i cosiddetti worst case scenario.

Molteplici studi – in particolare quelli condotti dagli psicologi Julie Norem and Nancy Cantor – mostrano che quanto aiuta e sostiene una persona mediamente ottimista può rivelarsi deleterio per un pessimista. Questo vale anzitutto per gli stati d’animo: se di norma il buonumore aiuta un ottimista a lavorare meglio, nel caso di un pessimista questo diventa un elemento negativo. Se di buonumore, un pessimista tende ad assumere un atteggiamento eccessivamente rilassato e compiacente che neutralizza la costitutiva dose d’ansia che normalmente anima il suo apporto.

È necessario prestare attenzione anche agli incoraggiamenti: se questi ultimi possono aiutare la performance di un ottimista, rispetto a quella di un pessimista risultano pericolosi. Il motivo di questa reazione va di nuovo individuato nel depotenziamento dello stato di critica allerta che i pessimisti riescono a usare così produttivamente. Un’accresciuta fiducia finisce per minimizzarlo, riducendo concentrazione ed efficacia di un “buon pessimista”.

[ illustrazione: Lisa Simpson – © Matt Groening ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CULTURA

Apprendimento e identità

Norbert Wiener (1894-1964), matematico americano considerato il padre fondatore della cibernetica, ha inserito nel suo Introduzione alla cibernetica. L’uso umano degli esseri umani (1958) una delle più efficaci descrizioni della centralità dell’apprendimento per la specie umana.

Anzitutto, l’uomo è una forma neotenica, cioè caratterizzata da un periodo di immaturità indeterminatamente prolungato. Questo fa sì che negli individui adulti si presenti una serie di caratteristiche tipiche delle forme infantili. Per esempio, nota Wiener, se si confronta la specie umana con le grandi scimmie si nota come l’uomo adulto somigli più alla scimmia appena nata che a quella matura. Per nulla a caso, il periodo dell’infanzia umano è relativamente più lungo di quello di qualsiasi animale.

Questo stato di “eterno Peter Pan” ha ripercussioni importanti per il tema dell’apprendimento. Poiché l’uomo non può mai dirsi del tutto adulto, nemmeno può dirsi che egli giunga mai a uno stato di maturazione cognitiva e sedimentazione di conoscenze “definitivo”. Il continuo rielaborare esperienze passate rappresenta il fulcro del nostro altrettanto continuo apprendere, così come della possibilità di emanciparci, in un modo del tutto “culturale”, dalla nostra provenienza più strettamente biologica. Secondo le parole di Wiener:

L’uomo trascorre circa il quaranta per cento della sua vita nella condizione di apprendista, per ragioni che hanno a che fare con la sua struttura biologica. È del tutto naturale che una società umana si fondi sulla capacità di apprendere, come all’opposto una comunità di formiche si basi su un modello ereditario. Essenzialmente apprendere è una forma di retroazione, nella quale il modello del comportamento è modificato dall’esperienza passata».

[ illustrazione: dettaglio da San Gerolamo nello studio di Antonello da Messina,1474-1475 circa ]

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BIGDATA, COLLABORAZIONE, CULTURA, DIVULGAZIONE, LAVORO, SOCIETÀ, TECNOLOGIA

BuzzFeed e l’uso tayloristico dei dati

Il claim del sito web BuzzFeed descrive la sua offerta come “the hottest, most social content on the web”. È probabile che sia stato proprio questo proclama a convincere lo studioso di nuovi media Evgeny Morozov a sottoporre il popolare sito, che nell’agosto 2013 ha registrato 85 milioni di visitatori, all’analisi della sua critica lente indagatrice.

Morozov nota anzitutto come la specializzazione di BuzzFeed non sia semplicemente quella di produrre contenuti, bensì di costruirli con una ricetta che li rende istantaneamente “virali”. In questo senso, il sito lavora molto più come una startup tecnologica di Silicon Valley che come una tradizionale testata giornalistica: il rigore del contenuto è in secondo piano rispetto a “share” e “like” da ottenere tramite l’ingegnerizzazione di precisi algoritmi. A questo proposito, Morozov evidenzia il sapiente – e “tayloristico” – uso dei dati messo in atto dal sito:

«Thanks to advanced analytics and tools of Big Data, they know exactly what needs to be said—and how—to get the story shared by most people. Its approach is best described as Taylorism of the viral: Just like Frederick Taylor knew how to design the factory floor to maximize efficiency, BuzzFeed knows how to design its articles to produce most clicks and shares. The content of the article is secondary to its viral performance».

Se già tutto questo evoca una prospettiva inedita per la diffusione di notizie via web, BuzzFeed risulta un caso interessante anche rispetto ai suoi contenuti. Questi ultimi sono oggi “english only”, ma saranno presto tradotti in molte lingue, raggiungendo un obiettivo di “viralità localizzata” perfettamente coniugabile con la globalizzazione dei contenuti. Tutto ciò è possibile da una partnership con Duolingo, startup dell’apprendimento di lingue via web.

Duolingo è stata fondata da Luis von Ahn, giovane professore di matematica divenuto celebre per il suo lavoro sui “captcha”, i codici di controllo che i siti web usano per verificare che l’utente sia davvero una persona (e non un robot che diffonde “spam”). Uno degli aspetti meno noti dei “captcha” riguarda la loro evoluzione nel corso del tempo: alle stringhe di testo casuali hanno cominciato ad affiancarsi parole scansite da libri che, in questo modo, vengono digitalizzati parola per parola grazie al contributo degli utenti. Questa dinamica di utilizzo incrociato di dati e del contributo gratuito – e spesso ignaro degli utenti rappresenta un tratto tipico dell’era “big data”.

Un meccanismo simile a quello dei “capctha” guida il rapporto tra Duolingo e BuzzFeed: la prima azienda offre gratuitamente corsi di lingue a studenti cui verranno sottoposti, parola per parola, i contenuti che la seconda ha bisogno di tradurre. Sistema perfetto, che Morozov non manca di criticare rispetto alla sua dinamica globalizzata: la diffusione globale delle news “americanocentriche” di BuzzFeed finirà probabilmente per sovrastare news locali dotate di scarsa forza “virale”.

[ illustrazione: staff della rivista studentesca “Aurora” della Eastern Michigan University, 1907]

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CULTURA, SOCIETÀ

Le disuguaglianza dell’economia cinese

La veloce e sorprendente crescita economica della società cinese porta con sé grandi disuguaglianze e un rapporto con la ricchezza sotto molti punti di vista problematico. Per mettere in luce tutto questo, un articolo della rivista China Daily si sofferma sull’attuale uso sostantivo cinese “tuhao”. Questo termine, che pare fosse utilizzato da Mao Zedong per stigmatizzare atteggiamenti devianti rispetto all’ideologia comunista, ha oggi assunto un significato che è sostanzialmente quello del “ricco parvenu”.

L’individuo “tuhao” ostenta la propria ricchezza attraverso scelte e comportamenti che, pur nascendo da una più che comprensibile ricerca di riconoscimento sociale, finiscono per degenerare e diventare oggetto di derisione. Si parte brandendo un iPhone color oro e si finisce per arredare la propria dimora come una Casa Bianca in versione kitsch; si inizia col mostrarsi filantropi nei confronti della collettività e ci si riduce a diventare inutilmente generosi, offrendo ricche cene a sconosciuti senza un motivo plausibile.

Nell’attuale società cinese, etichettare qualcuno come “tuhao” significa canzonarlo e criticarlo ma anche, più sommessamente, invidiarlo. Questa relazione di amore / odio rappresenta l’aspetto più sottile e controverso del rapporto dei cinesi con la ricchezza. Rifacendosi a una fittizia “favola buddista”, l’articolo del China Daily racconta questa contraddizione con una certa ironia:

«A man asked a Buddhist priest: “Master, I’m wealthy but I’m unhappy. Can you give me some guidance?”.

“But what is wealth?” retorted the priest. (Spiritual men talk in this way to enhance their mystique).

“The money in my bank has reached eight digits, and on top of that I have three apartments at Beijing’s most expensive location. Does that make me wealthy?” The priest did not say anything, but put out one hand. The man said: “You mean I should learn to be thankful?”

“No,” said the priest in a timid voice. “Can I, I mean, can we be friends?”»

 

[ illustrazione: particolare dall’opera Untitled di Yue Minjun ]

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ANTROPOLOGIA, CONCETTI, CULTURA, TECNOLOGIA

Intellettuali e “teste d’uovo” in America, dal 1900 a oggi

In Inventing the Egghead: The Battle over Brainpower in American Culture (2013), lo storico Aaron Lecklider ricostruisce la curiosa evoluzione del termine “egghead” all’interno del contesto culturale americano. Questa espressione, che letteralmente significa “testa d’uovo”, inizia a essere usata a partire dagli anni ’50 per stigmatizzare – e sostanzialmente deridere – un’attitudine intellettuale estremamente tecnica e scientifica che oggi definiremmo da “nerd”.

Il racconto di Lecklider prende le mosse dall’inizio del Novecento, quando in America essere intellettuali non era affatto considerato “nerd”. Un buon esempio della considerazione popolare e democratizzata di cui in quegli anni godeva la cura dell’intelletto è rappresentato dal circolo Chautauqua, una sorta di equivalente ante litteram degli odierni TED Talks. Una visione “dispregiativa” dell’intellettuale tuttavia esisteva anche allora e faceva riferimento all’uso del termine “long-hair”, che può forse tradursi, senza cogliere particolarmente nel segno, con “capellone”. Questo tipo di intellettuale era criticato per un certo narcisismo e un’attitudine alla cultura di stampo prettamente umanistico, dunque lontana dal pragmatismo dell’uomo comune. Quando si arriva agli anni ’50 e al termine “egghead”, una significativa inversione di rotta viene compiuta, perché l’approccio intellettuale preso di mira diviene, come detto, quello scientifico.

Come mette bene in luce un articolo della rivista «The Point» a firma di Evan Kindley , questo passaggio è fondamentale per capire la reale portata critica espressa dai sostantivi “long-hair” e “egghead”. Se è vero che in entrambi i casi stigmatizzazione e derisione nascono da una mancata comprensione da parte degli “incolti”, la critica agli umanisti ha luogo proprio nel momento in cui questi passano loro malgrado agli scienziati il testimone di una corsa particolarmente importante, quella che guida lo sviluppo del sapere – e dell’economia – occidentale. In mezzo ci sono stati l’emergere e l’affermarsi dello Scientific Management ideato da Frederick Taylor e il ruolo centrale rivestito dal sapere scientifico tanto nell’uscire dalla Grande Depressione del 1919 quanto nel determinare le sorti della Seconda Guerra Mondiale. Quando la massa inizia a deridere gli “egghead”, lo fa dunque con una più o meno esplicita consapevolezza del loro strapotere nel determinare le sorti del progresso (a questo proposito, utile anche ricordare che il celebre Le due culture di C.P. Snow è del 1959).

Tutto ciò ci conduce all’oggi e a leggere prospetticamente un percorso che allinea i termini “long-hair” e “egghead” con il più neutro e contemporaneo “geek”. Secondo Kindley infatti:

«If the paradigmatic intellectual of the 20s was the artist and of the 50s the scientist, today it’s the tech CEO (it seems worth noting that, in our own time, there has been little to no populist resentment of Silicon Valley or the tech industry)».

[ illustrazione: Bill Gates in una foto del 1985 ]

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APPRENDIMENTO, ARTE, CONCETTI, CULTURA, PAROLE

Smart vs dumb?

Kenneth Goldsmith, poeta anti-creativo e fondatore dell’archivio dell’avant-garde UbuWeb (nonché  promotore dell’incredibile progetto crowdsourcing Printing out the Internet), è autore di un saggio on-line dal titolo Being Dumb.

Lo scritto gioca sulla contrapposizione fra “smart” e “dumb”. “Smart” è aggettivo obiettivamente stanco e abusato, ormai esteso a praticamente qualsiasi cosa: dai telefoni alle città; dalle reti elettriche alle scatole regalo. Se applicato alle persone, “Smart” è per Goldsmith sinonimo di una condotta competitiva, faticosa, estenuante e in ultima analisi meccanica:

Smart is a star student, flawlessly dotting i’s and crossing t’s […]. Smart is an over-achieving athlete, accomplishing things that mere mortals can only dream of. Complex and deep, exclusive and elite, smart brims with value. Having sweated for what it’s accomplished, smart pays a handsome dividend to those invested […]. But by playing a high stakes game, smart is always paranoid that it might lose hard-won ground […]. Success or failure, win or lose, smart trades in binaries. Smart is exhausting—and exhausted.

Ben diverso è per Goldsmith l’essere “dumb”, interpretato in maniera tutt’altro che negativa e anzi inteso come sinonimo di riconoscibili capacità creative

Dumb is an ill-prepared slacker, riding on hunches and intuition […]. Caring little for progress or narrative, dumb moves laterally, occasionally spiraling back in on itself […]. Dumb favors re—recontextualization, reframing, redoing, remixing, recycling—rather than having to go through the effort of creating something from scratch.

Giocando con le parole, Goldsmith costruisce alcune combinazioni (“dumb dumb”, “smart smart”, “smart dumb”) e le identifica con personaggi, aziende e istituzioni:

Dumb dumb is rednecks and racists, football hooligans, gum-snapping marketing girls, and thick-necked office boys. Dumb dumb is Microsoft, Disney, and Spielberg.

Smart smart is TED talks, think tanks, NPR news, Ivy League universities, The New Yorker, and expensive five-star restaurants. By trying so hard, smart smart really misses the point.

Smart dumb is The Fugs, punk rock, art schools, Gertrude Stein, Vito Acconci, Marcel Duchamp, Samuel Beckett, Seth Price, Tao Lin, Martin Margiela, Mike Kelley, and Sofia Coppola. Smart dumb plays at being dumb dumb but knows better.

L’essere “smart dumb” è  per Golsmith l’esito più sensato e utile del percorso fra “smartness” e “dumbness”. Ma attenzione, il percorso è lungo:

Dumb is not an inborn condition. You get to dumb after going through smart. Smart is stupid because it stops at smart. Smart is a phase. Dumb is post-smart. Smart is finite, well-trod, formulaic, known. The world runs on smart. It’s clearly not working.

[ illustrazione: Dumb Ways to Die ]

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