BIGDATA, CONCETTI, ECONOMIA, LAVORO, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Benvenuti nell’era del taylorismo 2.0

Fra le varie ipotesi di reviviscenza del taylorismo emerse dal dibattito manageriale degli ultimi anni, ve ne è una dotata di particolare concretezza. Se è vero che alla base dello scientific management è, da sempre, il progressivo perfezionamento nella gestione di dati, il fenomeno tecno/sociale noto come “big data” sembra offrire la possibilità di una nuova, aggiornata incarnazione dello spirito tayloristico.

La reincarnazione è resa possibile dalla quasi perfetta comunanza di intenti tra un elemento tecnologico – l’enorme, pervasivo potere delle attuali infrastrutture tecnologiche – e un tratto culturale, cioè l’ideologia cyber-ottimista diffusa nel mondo dal modello delle startup americane. È la congiunzione fra questi due fattori – nota un recente articolo della rivista «Pop Matters» – a dar vita al taylorismo 2.0.

La rinascita di un’attitudine al continuo perfezionamento individuale, ben rappresentata sul web da «Life Hacker», dalla rubrica Work Smart di «Fast Company» e da molti articoli di Linkedin Pulse – testimonia della completa internalizzazione dei principi di controllo del taylorismo fatta propria da orde di “knowledge worker”. In altri termini, mettersi al servizio dell’efficientismo della macchina taylorista non è mai stato così cool.

Se questa indole rappresenta bene il colletto bianco medio, dalle organizzazioni d’impresa e dai dipartimenti HR sembra provenire una consonante risposta, riassunta dalle sperimentazioni in termini di raccolta e valutazione dati identificate dalla sigla “people analytics”. Misurare è tornato dunque decisamente di moda, con buona pace di vent’anni di letteratura manageriale spesi ad affiancare l’aggettivo “emotivo” al mondo del business.

[ illustrazione: fotogramma dal film Modern Times di Charles Chaplin, 1936 ]

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CONCETTI, ECONOMIA, INNOVAZIONE, MANAGEMENT, PAROLE, TEORIE

L’innovatore, un dilemma quasi maggiorenne

«Il diciottesimo secolo ha abbracciato l’idea di progresso; il diciannovesimo quella di evoluzione; il ventesimo quelle di crescita e innovazione. La nostra era ha prodotto la “disruption”, atavica a dispetto del suo mostrarsi futuristica. È una teoria della storia fondata su una profonda ansietà per un collasso finanziario, su una paura apocalittica di una devastazione globale».

Il quadro costruito da Jill Lepore, contributrice del «New Yorker», non può dirsi rassicurante. A diciassette anni dalla pubblicazione di Il dilemma dell’innovatore di Clayton M. Christensen, l’innovazione “disruptive” (improprio tradurla con “dirompente”) è una delle religioni più diffuse nel mondo del business. Professata – più di rado praticata – da orde di fedeli, è riconducibile al filone ideologico dell’innovazione come fine e non come mezzo.

Fra gli adepti, pochi realizzano che l’origine della disruption è di natura negativa. Il dilemma dell’innovatore è quello del fare la cosa giusta al momento sbagliato: la storia è troppo veloce, il cambiamento incalza, i più restano indietro. Chi sopravvive, guida il cambiamento. Le sue innovazioni, se guardate retrospettivamente (come del resto ogni successo, participio passato del verbo succedere), passano alla storia come radicali, dirompenti. Questo, per sommi capi, il pensiero di Christensen.

Il concetto di “disruption” altro non è che una rimasticatura in salsa americana della “distruzione creatrice” teorizzata fin dal 1942 da Joseph Schumpeter. Quanto Christensen vi aggiunge – suffragato da casi studio di cui l’articolo di Jill Lepore mette in luce una certa pretestuosità – è un’indole di spietatezza che antepone il successo a qualsiasi regola, responsabilità e sostenibilità di lungo periodo. Non è casuale l’esempio citato da Lepore in proposito: quando l’industria finanziaria si è messa a innovare in maniera disruptive, ha generato una crisi globale. E tuttavia, proprio come lo scoppio della bolla delle dot.com, la crisi non ha sedato le attitudini disruptive ma le ha rinfocolate. Mostrando tutta la ricorsività di un’ideologia il cui principale alimento è la paura.

[ illustrazione: Free Universal Construction Kit ]

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CONCETTI, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MANAGEMENT

Innovazione organizzativa: da ideologia a prassi

L’innovazione, processo fondamentale per la sopravvivenza di qualsiasi organizzazione all’interno di un mercato competitivo, è spesso ridotta a mera ideologia. Principali responsabili di questa distorsione percettiva sono le pubblicazioni manageriali sul tema, la cui presenza sugli scaffali delle librerie aumenta di anno in anno. Il problema della maggior parte di questi libri è duplice: da un lato presentano l’innovazione come un fine (e non come un mezzo); dall’altro forniscono l’illusoria promessa di “ricette dell’innovazione” applicabili in qualsiasi contesto. Qual è il risultato di questo tipo di propaganda? Un’applicazione generalizzata del linguaggio dell’innovazione, una conoscenza superficiale di casi di studio di successo. E poco altro. Soprattutto, pochissimi cambiamenti nei processi e nelle pratiche lavorative. Un articolo pubblicato dalla «Stanford Social Innovation Review» (basato su una ricerca condotta per la Rockfeller Foundation) analizza la questione sotto una nuova luce.

Anzitutto, l’innovazione non va intesa come un risultato, ma come un processo. In questo senso, ogni organizzazione dovrebbe mettere in atto un serio lavoro di analisi dei propri processi, facendo molta attenzione a distinguere l’innovazione cosiddetta “radicale” da quella incrementale. In molti casi – l’articolo cita quello dell’ospedale oftalmico Aravind di Madurai (India) – applicare uno stravolgimento delle pratiche organizzative che replica su larga scala quanto funzionato in un contesto limitato può portare a risultati nefasti. Questo implica che, soprattutto per quanto riguarda ambienti caratterizzati da povertà diffusa come quello di Madurai, un’innovazione incrementale basata su un sistema di competenze strutturato può funzionare molto meglio di cambiamenti radicali che non tengono in adeguata considerazione il contesto di riferimento. Comprendere tutto questo sembra estremamente razionale; tuttavia, come notano gli autori dell’articolo, l’impegno e il lavoro di routine non risulteranno mai “sexy” quanto l’innovazione radicale.

Un secondo tema di attenzione riguarda il sottovalutare i propri errori inerenti all’innovazione. Citando un secondo caso indiano, quello della non profit del settore idrico Gram Vikas, l’articolo mette in luce come imparare dai propri tentativi falliti di innovazione significa soprattutto mappare il proprio contesto di riferimento e rimuovere le barriere interne che ostacolano gli sviluppi innovativi. Soprattutto quest’ultimo punto è fondamentale per qualsiasi organizzazione: a fronte della faciloneria degli slogan della letteratura di settore, costruire una prassi dell’innovazione significa soprattutto imparare a superare gli ostacoli interni – nel 90% dei casi di matrice manageriale e culturale – che possono bloccare in partenza qualsiasi iniziativa di sviluppo. In mancanza di un’attenzione di questo tipo, i progetti di innovazione continueranno a suonare ideologici quanto le “diete miracolo” che promettono di far perdere sette chili in sette giorni.

[ illustrazione: Albert Edelfelt, Ritratto di Louis Pasteur, particolare – 1885 ]

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ANTROPOLOGIA, BENI CULTURALI, CONCETTI

I beni culturali: oggetti o cose?

Quando si parla di beni culturali, la questione del rapporto fra substrato materiale e valore simbolico-immateriale è una delle più critiche. I monumenti, così come i quadri, le sculture, gli edifici, sono cose. O sono oggetti? La legislazione italiana definisce i beni culturali come “cose immobili e mobili”, ma purtroppo nelle sue pagine la parola “cosa” è priva di un’adeguata contestualizzazione.

Per disporre la parola “cosa” a un’analisi più accurata, è di aiuto affiancarla al termine “oggetto” e seguire una riflessione del filosofo Remo Bodei dedicata proprio a questa relazione. Nel suo La vita delle cose (2009), Bodei prende le mosse dall’indagine etimologica e sottolinea la natura profondamente diversa delle parole “cosa” e “oggetto”, usate per descrivere differenti modi di relazionarsi a entità di natura fisica.

L’oggetto è, seguendo Bodei, il referente di una relazione funzionale spesso conflittuale (in latino “obicere” significa “gettare contro”), che viene risolta nei termini di un assoggettamento, vale a dire di un piegarsi dell’oggetto al volere imposto dall’uomo.

La cosa è invece il risultato di un investimento emozionale: il soggetto vive con essa una relazione che scaturisce da attribuzioni di significato non funzionali – o, se si preferisce, disinteressate. In questo caso l’etimologia del termine, proveniente dal latino “causa” – che indica qualcosa di così importante da mobilitarci in sua difesa (da cui il detto “combattere per una buona causa”) – , trasmette tutta l’affezione emotiva implicata da questo tipo di rapporto.

Il passaggio dagli “oggetti” alle “cose” descrive bene la trasformazione di un’entità fisica dotata di un valore prettamente funzionale (per esempio un edificio) in una nuova entità, insieme fisica e simbolica, che per convenzione chiamiamo “bene culturale”. Ecco perché, seppur in maniera probabilmente inconsapevole, la legislazione ha ragione a definire i beni culturali come cose.

[ illustrazione: Giovanni Paolo Pannini, Galleria immaginaria di vedute di Roma antica, 1756 ]

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APPRENDIMENTO, CONCETTI, DIVULGAZIONE, MANAGEMENT, TEORIE

Tanta pratica porta alla perfezione? Una critica alla teoria delle “10.000 ore”

In anni caratterizzati da un “boom” di teorie provenienti dal campo delle neuroscienze, quella delle “10.000” ore continua a essere una delle più gettonate. Resa celebre dall’americano Malcolm Gladwell nel suo Fuoriclasse (2009), la teoria ha origine nel 2003, anno in cui gli esperimenti di laboratorio condotti da tre psicologi (K. Anders Ericsson, Ralf Th. Krampe e Clemens Tesch-Romer) giungono a una conclusione: per diventare “esperti” in un qualsiasi campo, sono necessarie almeno 10.000 ore di pratica, cioè tre ore al giorno per dieci anni. Nei seguenti dieci anni la teoria è stata applicata, ottenendo un generale e quasi incondizionato plauso, agli ambiti più diversi: dalla scrittura allo sport, dalla musica al management.

In Focus (2013), ultimo saggio del “padre” dell’intelligenza emotiva Daniel Goleman, la tesi delle 10.000 ore viene finalmente affrontata con un certo distacco critico. Anzitutto, nota Goleman, quel che più conta del tempo speso a esercitarsi non è la quantità ma la qualità. Osservazione sensata, ma certo più degna della saggezza popolare che di uno psicologo di fama internazionale. Va da sé che, in presenza di un errore reiterato, 10.000 ore di pratica diventano praticamente inutili. Il molto tempo dedicato all’esercizio è dunque una condizione necessaria ma non sufficiente per giungere alla maestria.

Una seconda osservazione di Goleman tocca un aspetto meno scontato, quello cioè del senso di soddisfazione cui una certa quantità di pratica solitamente conduce. Dopo circa 50 ore di esercizio – lo 0,5% delle famose 10.000 ore – si tende a sentirsi “bravi abbastanza” e ad abbassare la propria soglia di concentrazione. È questo il momento più critico di qualsiasi processo di apprendimento: se si continua a far pratica accompagnati dal relax e dall’autocompiacimento, difficilmente si raggiungeranno grandi risultati, anche nell’ipotesi di andare avanti per 10.000 ore. Solo obbligandosi a un’attenzione vigile e a una continua rimessa in discussione dei propri errori – in altri termini: non smettendo mai di sentirsi principianti e non sentendosi mai troppo tranquilli né soddisfatti – si potrà aspirare a diventare “esperti”.

[ illustrazione: fotogramma dal film Karate Kid di John G. Avildsen, 1984 ]

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APPRENDIMENTO, CONCETTI, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, MARKETING, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, TEORIE

I “maker”, il do-it-yourself e la reinterpretazione del prosumer

Uno dei più interessanti aspetti implicati dal movimento dei “maker” rimanda all’antico approccio delle Arts & Crafts e, più in generale, alla centralità del “do it yourself”.

Chris Anderson, uno dei “guru” del movimento e autore del testo Makers. Il ritorno dei produttori (2013), riporta un interessante aneddoto a riguardo:

«When instant cake mixes were introduced in the 1950s as part of a broader trend to simplify the life of the American housewife by minimizing manual labor, housewives were initially resistant: the mixes made cooking too easy, making their labor and skill seem undervalued. As a result, manufacturers changed the recipe to require adding an egg; while there are likely several reasons why this change led to greater subsequent adoption, infusing the task with labor appeared to be a crucial ingredient».

Se saltiamo dagli anni ’50 a oggi, l’approccio dei maker sembra definire una nuova declinazione del concetto di prosumer (coniato da Alvin Toffler nel suo Future Shock nel 1970). Secondo i maker il consumatore può diventare sia producer che consumer grazie all’inedita unione tra accessibilità massima di strumenti di produzione (su tutti le stampanti 3-D e in generale quanto diffuso dalla “internet of things”) e senso di gratificazione legato al “far da sé”. Al di là delle percezioni più retoriche del movimento – che sembra in certi casi voler propagandare l’idea che usare Autocad presenti lo stesso grado di accessibilità di Powerpoint – l’idea di una fruizione personalizzata, unita alle logiche di “just-in-time massimizzato” (pensando per esempio ad aziende come Tesla), indica una strada decisamente interessante per la produzione e la fruizione di beni (e, forse, servizi).

[ illustrazione: antico set di strumenti da carpentiere ]

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CONCETTI, LAVORO, MARKETING, METAFORE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

La nuova ideologia della “mindfulness”

«If Max Weber were alive today, he would definitely write a second, supplementary, volume to his Protestant Ethic, entitled The Taoist Ethic and the Spirit of Global Capitalism».

Così il filosofo sloveno Slavoj Žižek, a proposito dell’ideologia “new age” che guida la classe dirigente del nuovo capitalismo. A citarlo è, in un articolo per «The New Republic», Evgeny Morozov, esperto di new media bielorussso noto per le sue posizioni avverse al “cyber-ottimismo”.

Morozov si collega alle parole di Žižek per costruire un’argomentazione critica nei confronti della moda della “mindfulness”. Che l’espressione sia tanto diffusa quanto oscura è di fronte agli occhi di tutti, tanto che Morozov la descrive come la nuova “sostenibilità” (senza dubbio una delle categorie più abusate dell’ultimo decennio).

Quanto Morozov nota della mindfulness – interpretata soprattutto come volontà di “disconnessione” – è la viziosità del circolo che da ciò che la origina conduce alle sue soluzioni. L’artificialità degli stimoli in relazione ai quali nasce il bisogno di essere “mindful” corrisponderebbe fin troppo bene all’artificiosità delle risposte messe in atto da chi se ne professa seguace. Non a caso, tanto stimoli quanto risposte hanno origine dallo stesso substrato culturale, cioè quello di Silicon Valley (di qui il rimando a Weber, tramite Žižek). Soprattutto, la nota più debole del movimento della mindfulness sarebbe – secondo Morozov – l’incapacità di superare un approccio individuale “reazionario” per costruire una più autentica emancipazione su base collettiva.

[ illustrazione: uffici di Google a Tel Aviv ]

 

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CONCETTI, LAVORO, PERCEZIONE, SOCIETÀ

In cerca del silenzio, nuova frontiera del business

Se vi è capitato di acquistare, ben disposti al sovrapprezzo, un biglietto di treno che promette “area silenzio”, sapete di cosa si parla. Lo sapete anche se siete acquirenti di automobili ed elettrodomestici “silenziosi” o cuffie “noise-canceller” (comprate magari per contrastare gli effetti di un open-space lavorativo). Nonostante John Cage abbia dimostrato in tempi non sospetti che il silenzio non esiste, il business che riguarda la sua ricerca pare essere molto concreto. Un recente articolo della rivista «The New Republic» ne segue le tracce.

La ricerca del silenzio trae origine, più che dalla percezione di crescenti disturbi sonori in termini di decibel (per la cronaca, le città italiane più rumorose del 2013 risultano Roma, Milano, Genova e Napoli), da una brama di “assenze” intese come sinonimo di purezza e riconquistata originarietà. I vari slogan del “senza tossine/grassi/conservanti/eccipienti/”, fino al classico “senza zucchero”, paiono  rispondere a una simile ricerca di sottrazione. Tornando sul piano sonoro, secondo lo studioso Jonathan Sterne, autore del testo The Audible Past: Cultural Origins of Sound Reproduction (2003), il silenzio sarebbe diventato una metafora particolarmente calzante per la ricerca di una condizione utopica e irraggiungibile, agognata in reazione al cosiddetto rumore di fondo (in certi casi letterale, ma soprattutto simbolico) della quotidianità.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Artist di Michel Hazanavicius, 2011 ]

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CINEMA, CONCETTI, ECONOMIA, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Il Monello di Chaplin e il teorema delle finestre rotte

In una delle più riuscite sequenze di The Kid (1921) di Charlie Chaplin, il monello del titolo infrange a sassate le finestre di alcune abitazioni, preparando così il successivo passaggio del padre, “casualmente” dotato di vetri di ricambio. Questa scena comica rimanda a un teorema diffuso fin dal 1850 ed elaborato dall’economista Frédéric Bastiat. Il teorema è noto come il “racconto della finestra rotta”.

Il racconto originario somiglia molto alla sua versione filmica: un ragazzino infrange la finestra di un commerciante e i cittadini inizialmente simpatizzano per quest’ultimo, identificandosi con il torto subito. In seguito, essi cambiano opinione: il danno alla finestra darà lavoro al vetraio, il quale potrà a sua volta acquistare qualcosa dal panettiere, il quale potrà a sua volta divenire cliente del calzolaio… E così via. A questo punto il ragazzino, lungi dall’essere considerato un semplice vandalo, inizia a essere visto come qualcuno in grado di “muovere” l’economia cittadina.

Soffermarsi sulle conseguenze economiche positive del danno subito dal commerciante nasconde tuttavia quelle negative. Il denaro speso per ricomprare una finestra non potrà essere utilizzato per altro, annullando così qualsiasi precedente progettualità di spesa del commerciante. Secondo questa seconda interpretazione, il ragazzino non avrebbe generato un beneficio economico alla città ma, più semplicemente, l’avrebbe privata di una finestra.

Nel corso della storia il racconto di Bastiat è stato commentato e discusso da molti economisti, oltre che applicato ad ambiti che costituiscono a oggi oggetto di dibattito comune. Su tutti, il caso delle guerre: a seconda del punto di vista, esse sono considerabili tanto forze devastanti e distruttrici quanto possibili motori di lavoro e progresso.

[ illustrazione: fotogramma da The Kid di Charles Chaplin, 1921 ]

 

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CONCETTI, LAVORO, PAROLE, STORIE

L’origine del boicottaggio

Nella seconda metà del XIX secolo la pressoché totale gestione del territorio agricolo d’Irlanda era nelle mani di una piccola élite (circa il 2% della popolazione) che imponeva a chi lavorava la terra condizioni di lavoro piuttosto restrittive. In reazione a queste circostanze nacque l’Irish National League, i cui princìpi erano rappresentati da tre “F”: “Fair rent, Fixity of tenure, Free Sale”.

Uno dei presupposti dell’Irish National League fu fin dall’inizio quello della resistenza non violenta. Per questo, fra le sue diverse iniziative, nel 1880 l’ente invitò i contadini a rifiutarsi di prestare la loro opera nelle aziende agricole più grandi e insieme più coercitive. Fra queste rientravano i terreni di Lord Enre, localizzati nell’Irlanda occidentale. Loro amministratore era un certo Charles Cunningham Boycott (1832-1897), il quale si trovò a fronteggiare la protesta dei contadini.

Boycott fu oggetto di una vera e propria campagna di ostracismo, cui di fatto parteciparono non solo i lavoratori agricoli ma l’intera popolazione locale, che si rifiutò di interagire (dalle più basiche relazioni sociali a quelle commerciali) con Boycott. Quest’ultimo, a causa dell’inaridimento delle terre di Enre, venne licenziato e fu costretto a trasferirsi a Dublino e in seguito, continuamente perseguitato dall’alone di protesta legato al suo nome, addirittura a lasciare l’Irlanda.

La nefasta fama di Boycott lo accompagnò nei suoi peregrinaggi europei e perfino in terra americana, ove fu costretto a viaggiare sotto falso nome. Ma era ormai troppo tardi: già dal 1888 l’espressione verbale “to boycott”, ormai dotata di valenza simbolica e universale, iniziò a entrare nei dizionari di lingua inglese per poi diffondersi in tutto il mondo.

[ illustrazione: ritratto di Charles Cunningham Boycott ]

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