GIOCO, INNOVAZIONE, MARKETING, MEDIA, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

Flappy Bird e il successo al tempo delle app

Flappy Bird è una app per smartphone lanciata nel maggio 2013 da un 29enne sviluppatore vietnamita di nome Dong Nguyen. L’app in questione è un videogioco la cui banalità va di pari passo con la capacità di generare frustrazione e dipendenza. Nonché di diventare il videogioco più scaricato su smartphone, in grado di fruttare al suo creatore – nonostante la gratuità dell’app – ben $50.000 al giorno in pubblicità. Più di un sospetto è stato generato dalla velocità con cui il gioco, unanimemente valutato dagli addetti ai lavori come mediocre (nonché copia carbone di una simile app del 2011), è diventato popolare.

Un articolo tratto dal blog Eurogamer ricostruisce con cura la parabola del successo di Flappy Bird, soffermandosi sul probabile ruolo cruciale svolto in essa da “bot” e utenti “comprati” per effettuare scaricamenti e lasciare commenti positivi. Valutare quanto spregiudicata possa essere stata l’opera di promozione dell’app è in ogni caso difficile. Di certo, per usare le parole dell’articolo (che si rifà a sua volta a uno scritto dell’Independent):

«Flappy Bird è diventato il Gangnam Style dei giochi mobile: una roba talmente brutta e incomprensibile da diventare rapidamente divertente e virale».

Il paragone rende l’idea della “cifra stilistica” del videogame, il cui successo potrebbe dunque essere frutto tanto di scaricamenti comprati quanto del basso livello critico dell’utente di videogiochi medio. O più realisticamente della combinazione dei due fenomeni, il che rappresenta un duro colpo per un’accoppiata ben più classica e ortodossa, quella cioè fra creatività e meritocrazia. Lo lezione è dura da accettare: Flappy Bird mostra che nel mondo delle app, più in generale in quello dell’innovazione di prodotto, i valori tradizionalmente messi al centro dell’idea di progetto – spesso anche con una certa retorica – sono cosa passata, buona per idealisti, nostalgici o teorici ma non per chi intenda davvero raggiungere il successo.

L’epilogo della vicenda è stato decretato dallo stesso Dong Nguyen, il quale ha deciso in data 09.02.2014 di ritirare il gioco dai vari app store. Nel suo account Twitter si dichiara provato dal troppo successo e preoccupato per la dipendenza generata dall’app in moltissimi giocatori. Questo esito rende ancora più curiosa la vicenda, che assume il tono di apologo morale: che Nguyen abbia messo in piedi l’intero progetto per impartire un paio di lezioni sulle moderne tecniche di marketing e sulla sociologia dei consumi? A proposito: ora che la app non è più scaricabile, su ebay c’è perfino chi vende, fra il serio e il faceto, il proprio smartphone con Flappy Bird installato.

[ illustrazione: screenshot tratti dalla app Flappy Bird ]

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APPRENDIMENTO, ARTE, SCIENZA, TECNOLOGIA

Ruysch, artista della morte

L’olandese Frederick Ruysch (1638-1731) è noto come botanico e anatomista e il suo nome è in particolare legato all’avanzamento delle tecniche di conservazione dei corpi. Un articolo di «Public Domain Review» ne evidenzia il valore di “artista della morte”.

Le avanzate tecniche di preservazione messe a punto da Ruysch gli permisero di realizzare per la prima volta nella storia un’esibizione di reperti che riusciva a soddisfare il bisogno di conoscenza di medici e anatomisti e, al tempo stesso, a presentare al grande pubblico una vera e propria “mostra” destinata a divenire un’inedtia attrattiva.

Quanto Ruysch era capace di mostrare andava ben oltre la semplice evidenza anatomica. La presentazione della morte veniva messa in prospettiva attraverso artifici – non privi di un peculiare senso dell’umorismo – finalizzati a rendere simbolico il senso di quanto esposto. Basti dire che in una delle sue composizioni uno scheletro affermava: “anche dopo la morte sono ancora attraente!”. Lo spirito di Ruysch è radicato in una tradizione di indagine anatomica che trova un antecedente in Vesalio (1514-1564) e un distante ma assai diretto successore, anche se ormai svincolato da interessi conoscitivi e prettamente orientato allo spettacolo, nel tedesco Gunther von Hagens.

[ illustrazione: La lezione di anatomia del Dott. F. Ruysch di Adriaen Backer (1670), Amsterdams Historisch Museum ]

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ARCHITETTURA, BENI CULTURALI, CITTÀ, COLORI, FOTOGRAFIA

La forma della città in Joel Meyerowitz

Nel 1978 Joel Meyerowitz realizza una serie di immagini dedicate a New York. Quella riprodotta qui sopra è intitolata Young Dancer, 34th Street and 9th Ave.

Cosa rappresenta questa fotografia? In primo piano è la “young dancer” del titolo, in attesa di qualcosa, lo sguardo che punta fuori dal fotogramma. Alle sua spalle un negozio, probabilmente una drogheria. Banane in primo piano e l’ombra di una persona che si muove all’interno. All’incrocio fra le due strade, un ambiente apparentemente deserto ma a ben vedere popolato da almeno due sagome in movimento, probabilmente uomini di passaggio. E poi una donna, vestita di un verde non lontano da quello dell’abito della ballerina. Con lei uno, o forse più bambini. Il verde torna anche in un’auto parcheggiata al bordo della carreggiata. È mattina presto, la luce scalda dolcemente gli edifici in primo piano e si riflette in modo abbagliante sui palazzi nello sfondo. Un sole che sorge appare nel semplice disegno dell’edificio in primo piano.

E poi c’è l’Empire State Building. A prima vista presenza di sfondo, a ben vedere vero protagonista della foto (nonostante il titolo). La ragazza sta sulla soglia dell’immagine, una presenza transitoria che punta fuori. Al contrario, l’Empire State Building si staglia nella sua solidità e permanenza. Fornisce un punto di riferimento. E Meyerowitz – che qui lavora con un banco ottico e non con l’abituale 35mm – costruisce con cura un’inquadratura che lo valorizza e lo incornicia.

Questa fotografia fa parte, è il caso di rivelarlo, di una serie dedicata da Meyerowitz non semplicemente a New York, ma proprio all’Empire State Building. Nell’intera raccolta di immagini l’edificio è a tutti gli effetti un riferimento, un simbolo che guida l’orientamento dello sguardo sulla città. Evidentemente non un riferimento a caso. Proposto – ma bocciato – come una delle sette meraviglie del mondo, con maggior modestia l’edificio più alto della città fra il 1931 e il 1973 e poi ancora tra il 2001 e il 2012. In mezzo, ovviamente, le Twin Towers (e ora la Freedom Tower). Perfino aggredito da King Kong nel film del 1933 e colpito da un B-25 nella realtà del 1945.

Attraverso un simbolo indiscusso della città Meyerowitz riesce a disegnarne la forma, raccontando la quotidianità e mettendola a confronto con la permanenza. Fornendo un grande saggio di fotografia di strada.

[ illustrazione: Joel Meyerowitz, Young Dancer, 34th Street and 9th Ave., 1978 ]

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BIGDATA, LETTERATURA, LIBRI, MARKETING, TECNOLOGIA

I big data non svelano il libro perfetto, solo il lettore imperfetto

Far uso di un dispositivo e-book significa, in modo più o meno consapevole, acconsentire al fatto che il gestore del servizio possa raccogliere – senza fatica e a titolo gratuito – un certo numero di dati relativi all’esperienza di lettura. Parliamo di preferenze di scelta, tempi di fruizione, brani evidenziati perché interessanti: avere a disposizione dati di questa natura rappresenta per autori e case editrici un’inedita opportunità per produrre testi che rispondano esattamente alle preferenze dei lettori. La via per il libro perfetto sembra dunque tracciata, e se è innegabile che pensare di percorrerla evoca una disposizione etica che si avvicina a quella di chi propaganda neonati perfetti coltivati in vitro, va da sé che sono già in molti a paventarne le peggiori conseguenze.

Un recente articolo del New Yorker cerca di portare la questione su binari interpretativi meno assolutistici. Anzitutto, poiché si è sempre inteso scrivere per qualcuno, cercare di intercettare i gusti del proprio pubblico non è certo cosa nuova. Le tecnologie digitali, dunque, possono solo rendere la raccolta dati più semplice. Ma quanto significativa? Rispondere a questa domanda non è facile. Per esempio: i dati di diversi store e-book indicano che solo l’1% dei lettori conclude la lettura del classico romanzo di Jane Austen Orgoglio e pregiudizio (1813). Peccato che non sappiano spiegare perché. Questo deficit conoscitivo – tipico dell’era big data – certo non favorisce la creazione in vitro del “libro perfetto” di cui sopra.

La raccolta di precisi e freddi dati di lettura, lungi dall’illuminare sul futuro della scrittura e della narrazione, rischia di servire solo a smascherare la verità celata dietro a tante letture millantate ma mai compiute. Il che ci fa sentire tutti un po’ in colpa. A questo proposito, a chi come il sottoscritto non è mai riuscito a finire – fra gli altri – Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace, consiglio di dare un’occhiata a un libro dal titolo più che azzeccato: Come parlare di un libro senza averlo mai letto (2009) di Pierre Bayard.

[ illustrazione: Woman reading, National Media Museum – Kodak Gallery Collection, circa 1890 ]

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ANTROPOLOGIA, FOTOGRAFIA, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE

Turista, lavoratore, fotografo: da Sontag a Taleb

«Quasi tutti i turisti si sentono costretti a mettere la macchina fotografica tra sé stessi e tutto ciò che di notevole incontrano. Malsicuri delle altre reazioni, fanno una fotografia. Questo dà una forma all’esperienza: ci si ferma, si scatta una foto, si riprende il cammino. È un metodo che garba soprattutto ai popoli handicappati da una spietata etica del lavoro, come i tedeschi, i giapponesi e gli americani. Adoperare una macchina fotografica allevia l’angoscia che l’ossessionato dal lavoro prova non lavorando, quando è in vacanza e dovrebbe teoricamente divertirsi. Può comunque fare qualcosa che è come una simpatica imitazione del lavoro: può sempre fotografare».

Così scriveva Susan Sontag (1933-2004) nel 1977, nel suo celebre Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. A distanza di oltre 35 anni, viviamo in un’epoca in cui il fatto che la gran parte delle nostre esperienze sia mediata da immagini è quasi scontato. Tutto ciò è spesso vissuto con una certa dose di compiaciuta rassegnazione, ben rappresentata dal successo di app come Instagram.

L’atteggiamento del turista è oggi esteso a ogni momento della vita quotidiana, dando vita a quella che alcuni chiamano touristification. Quest’ultima è un’espressione coniata da Nassim Taleb, la cui più recente opera si intitola Antifragile. Prosperare nel disordine (2012). Qui Taleb parla dell’atteggiamento del turista assimilandolo a una condotta sistematicamente tesa alla riduzione dell’incertezza e della casualità quotidiana. Fin troppo facile risulta accostare questa indole a una logica di efficienza e “risk management” del tutto aziendale.

Come contraltare alla touristification, l’estensione della condotta lavorativa a quello che un tempo si soleva chiamare loisir dà vita a un tempo sociale sempre meno distinto da quello produttivo. Il fotografo-turista-lavoratore è dunque una figura antropologica che descrive piuttosto bene la contemporaneità.

[ illustrazione: foto di Martin Parr tratta dal progetto Small World, 1996 ]

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CINEMA, LAVORO, LETTERATURA, SCRITTURA

Lo stile e la ricerca secondo Hemingway e Tarkovskij

«Secondo me, però, quello che talvolta si definisce “stile” spesso non sono altro che le esitazioni di chi si è cimentato con un qualcosa che non era mai stato fatto prima. I nuovi classici non assomigliano mai ai classici dei periodi precedenti. E all’inizio, l’unica cosa che la gente nota, non essendo in grado di accorgersi di nient’altro, sono quelle esitazioni. Così quando si comincia a pensare che le esitazioni siano un nuovo stile, una marea di persone si mette a imitarlo. È davvero una brutta faccenda».

Queste parole di Ernest Hemingway (1899-1961), raccolte nel piccolo libro-intervista con il giornalista americano George Plimpton Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare (1954), affrontano il tema della ricerca di uno stile in scrittura. A detta di Hemingway, le idiosincrasie dello stile altro non sono che gli inciampi cui l’esplorazione del nuovo va incontro. Le tracce di queste esitazioni si cristallizzano sulla superficie della scrittura e vengono riconosciute come stile.

Rispetto a questo ragionamento, relativo alla scrittura ma applicabile anche ad altri contesti, utile è la correlazione con la metafora che dà titolo al libro citato, usata da Hemingway per rendere conto della relazione fra lavoro preparatorio e opera compiuta. Il “principio dell’iceberg” afferma che il lavoro di indagine, ricerca e approfondimento deve restare nascosto in profondità, sotto l’acqua, offrendo ai destinatari dell’opera solo l’essenziale, quel che deve vedersi in superficie. Che è poi il luogo in cui si depositano le esitazioni dello stile.

Vicine alle considerazioni di Hemingway sono quelle espresse da Andrej Tarkovskij (1932-1986) in Scolpire il tempo (1988):

«Nulla ha meno senso della parola “ricerca” applicata all’opera d’arte».

Secondo il grande regista, la ricerca – cioè la parte sommersa dell’iceberg – non deve essere confusa con ciò che emerge, cioè l’opera in sé. Chi mette in primo piano la ricerca – e qui il bersaglio critico di Tarkovskij è proprio tutta l’arte che si definisce “di ricerca” – denuncia un’incapacità nel dar forma a un’opera compiuta e lascia emergere, non senza una certa dose di vanità, quanto dovrebbe restare sommerso.

[ illustrazione: Ernest Hemingway, foto di Earl Theisen, 1952 ]

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CAMBIAMENTO, DIVULGAZIONE, FOTOGRAFIA, MARKETING, TECNOLOGIA

Il fenomeno HistoryInPics e la forza della fotografia sul web

Il recente fenomeno di History in Pictures è a suo modo, oltre che un interessante esempio di imprenditorialità 2.0, una riprova della forza della fotografia riletta, piaccia o non piaccia, ai tempi di Twitter.

La storia è semplice: nel luglio 2013 due ragazzi americani (17 e 19 anni, uno australiano, l’altro americano) esperti di social media lanciano un account Twitter. L’account pubblica foto vintage – di ogni genere, ma anzitutto “belle” – accompagnate da semplici didascalie che offrono un minimo di contestualizzazione (il nome del fotografo è spesso opzionale). A oggi, l’account conta più di un milione di follower e produce dati impressionanti: un tweet viene in media ritwittato più di 1600 volte e aggiunto ai preferiti oltre 1800.

La sorprendente capacità di generare “click” dei due giovani imprenditori è già diventata un caso business osservato con attenzione da più parti. L’uso “spregiudicato” di materiale fotografico coperto da copyright ha a sua volta aperto un fronte polemico non indifferente. In relazione a tutto questo, c’è da chiedersi quanto sia centrale per il successo dell’iniziativa l’uso della fotografia – a ben vedere un certo uso di essa, del tutto coerente con lo spirito vintage e nostalgico che caratterizza molti aspetti della nostra epoca.

Le foto di History in Pictures sono belle, curiose e spesso incorporano un certo grado di valore storico. Tutto questo, impacchettato in una fruizione cui l’utente medio dedica qualche secondo, rappresenta un surrogato del potere attrattivo che una fotografia è in grado di esercitare, anche all’interno di un medium “sbrigativo” come Twitter. Se la fotografia se la cava bene – in termini informativi e conoscitivi – perfino fra un tweet e l’altro, quanto potrebbe funzionare se le se dedicasse un po’ più di attenzione?

[ illustrazione: la foto usata per il profilo Twitter @historyinpics, cioè il ritratto di Abramo Lincoln realizzato da Alexander Gardner l’8 novembre 1863 ]

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ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, COLORI, FOTOGRAFIA, SOCIETÀ

Il colore dell’estate italiana degli anni ’80

«Siccome ogni secolo e ogni popolo ha avuto la propria bellezza, noi dobbiamo avere per forza la nostra. E ciò è nell’ordine delle cose».
Charles Baudelaire, Salon del 1846

Dolce Via, nuovo libro del fotografo americano Charles Traub, raccoglie le immagini da lui scattate in Italia nei primi anni ’80. La “dolce via” è ovviamente un gioco di parole felliniano, apparentemente irrinunciabile per un americano in Italia. Ma la dolce via è soprattutto quella percorsa da Traub lungo l’Italia, da Milano a Marsala. È infatti una serie di foto di “via”, di strada, che restituiscono un’immagine degli anni ’80 italiani molto più antica, quotidiana, popolare – e per molti versi povera – di quello che ci si potrebbe aspettare. E calda, ché le immagini di Traub sembrano tutte prese durante sue vacanze estive.

A Traub non interessa l’Italia da cartolina: i “landmark” sono quasi sempre assenti o comunque in secondo piano – salvo, di nuovo per probabili ascendenze felliniane, un ricorrere della Fontana di Trevi. Gli interessa piuttosto cercare il particolare all’interno del quotidiano e per questo gioca molto col colore. Lontano da quello desaturato e “instagrammato” di molta fotografia contemporanea – di cui uno dei principali ispiratori, Luigi Ghirri, è stato amico e mentore di Traub – , il tono di queste immagini è vivido e acceso, soprattutto quando cerca il rosso, colore che emerge fortissimo da molte di esse. Uno dei meriti di questa serie è dunque quello di costruire un’estetica della nostalgia per niente sbiadita ma piuttosto “satura”, che valeva decisamente la pena, a distanza di trent’anni, di tirare fuori dal cassetto.

[ illustrazione: Charles Traub, Roma, 1982 ]

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CULTURA, POLITICA, SOCIETÀ, STORIA

Svizzera: fra difesa e neutralità nelle memorie di Max Frisch

«La nostra volontà di difesa si fondava sulla speranza che la semplice esibizione della nostra volontà di difesa dissuadesse il nemico».

In Svizzera il servizio militare è obbligatorio. A fine 2013, quando un referendum popolare antimilitarista ne ha chiesto l’abolizione, la risposta del 73% della popolazione è stata “no”. Per essere compresa, questa scelta va relazionata – in maniera non dissimile da quella di un successivo e più noto referendum, quello del 9 febbraio 2014 –  alla celebre neutralità della nazione: è dal 1674, anno della prima dichiarazione di neutralità dei Cantoni, che la Svizzera si mostra non più “guerriera” ma pronta a difendersi.

Max Frisch (1911-1991) fu arruolato nell’esercito svizzero a più riprese, con la mansione di cannoniere. In particolare, prestò servizio tra il 1939 e il 1940, momento in cui la Svizzera era minacciata di invasione da parte delle truppe tedesche, secondo i piani della mai attuata “operazione Tannenbaum”. La preparazione dell’esercito svizzero fu organizzata con rigore e disciplina, anche se accompagnata dallo spirito espresso dalle parole citate in apertura, tratte da Libretto di servizio (1974), memoriale dedicato da Frisch alla sua esperienza di soldato.

Partendo dall’autobiografia e assumendo progressivamente il ruolo di critico attento e intransigente, Frisch descrive quello che in quarta di copertina dell’edizione italiana del libro (Einaudi, 1977) viene definito come un “limbo ambiguo”, vale a dire la mescolanza di preoccupazione, opportunismo politico e obbedienza che caratterizzava la società svizzera di quegli anni, realizzandone un ritratto a tutto tondo non privo di amara ironia:

«Decisivo è il senso del quotidiano. Il vero svizzero non si lascia andare alle utopie, per cui si considera un realista. La storia svizzera, così come viene insegnata, gli ha sempre dato ragione».

[ illustrazione: cartolina svizzera, anni ’30 ]

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ARTE, CULTURA, JAZZ, RAPPRESENTAZIONE, STORIE

Un viaggio nel jazz delle origini: King Zulu di Jean-Michel Basquiat

Qualche anno fa, visitando la mostra “Il Secolo del Jazz” presso il MART di Rovereto, mi sono trovato di fronte alla grande tela di King Zulu, dipinto del 1986 di Jean-Michel Basquiat (1960-1988). Sfogliando il catalogo della mostra, si trova l’opera così descritta: «Questa tela esibisce su un bel fondo blu un trombettista e qualche altro strumentista». Queste parole, che descrivono per sommi capi quel che l’opera rappresenta, possono essere sufficienti per molti, soprattutto per chi non sia stato colpito in presenza dalla sua forza. Di certo non sono sembrate sufficienti allo storico del jazz Francesco Martinelli, autore di un profondo lavoro di indagine capace di restituire il senso simbolico di ogni riferimento iconografico contenuto nell’opera e, soprattutto, il rispetto e l’amore di Basquiat per il jazz.

Anzitutto, il “king zulu” del titolo altri non è che Louis Armstrong, il quale tornando nel 1949 alla nativa New Orleans venne celebrato come “re zulu” della festa di Mardi Gras. Un’immagine d’epoca associa a questo evento la stessa maschera qui rappresentata. Ecco allora che il quadro si rivela un omaggio ad Armstrong, ricco di riferimenti rispecchiabili nell’autobiografia scritta dal musicista nel 1954. E così si prosegue con la scritta, poco visibile sotto a “king zulu”, “do not stand in front of orchestra”, segnale per il pubblico che campeggia in alcune foto dell’orchestra “natante” sul Mississipi del pianista Fate Marable, uno dei primi musicisti a cogliere il valore di Armstrong. La figura di trombettista in primo piano è probabilmente tratteggiata pensando a una foto di Bunk Johnson, altro musicista di New Orleans, mentre la piccola immagine di sassofonista in alto sulla destra rimanda forse al celeberrimo Lester Young o più probabilmente al meno noto Norman Mason, che suonava con Armstrong nell’orchestra di Marable. Il trombonista sulla sinistra è con tutta probabilità Bill Mathews, mentre la misteriosa figura in bianco sulla destra si rifà alla silhouette di una foto del trombettista Henry “Kid” Rena, entrambi nuovamente riconducibili alla scena di New Orleans. Per concludere, la “G” che si trova sotto alla scritta “king zulu” riproduce il lettering del logo dell’etichetta discografica Gennett. La “G” è accompagnata da un numero di matricola precisamente riconducibile a un disco, cioè l’incisione di Sensation del 1924 a opera dei Wolverines, band di musicisti bianchi in cui spiccava il grande trombettista Bix Beiderbecke. Il racconto del jazz delle origini condotto da Basquiat si chiude quindi con la celebrazione della relazione fra Armstrong e Beiderbecke, fra le radici afroamericane di questa musica e uno dei primi musicisti bianchi ad abbracciarla.

Questo non è che uno sbrigativo sunto dell’attenta indagine di Martinelli, che offre molto più che un gioco di “riconoscimenti” e vale per lo meno la pena di seguire in questa presentazione. Quanto all’opera di Basquiat, si possono qui riprendere le parole dell’ottimo blog Jazz from Italy (fonte di diverse illustrazioni qui riportate):

«King Zulu usa i codici e le parole, come fossero pennellate, per accedere nel mondo del non detto, permettendoci di seguirlo, per avvicinarsi all’universo ignorato dalla cultura dominante, al cosmo cancellato dalle storie precedenti, al creato dell’emotivo reale, eppur invisibile ai più».

[ illustrazione: King Zulu di Jean-Michel Basquiat, 1986 ]

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