FOTOGRAFIA, RAPPRESENTAZIONE, SOCIETÀ, STORIA

Joseph Roth osservatore del fascismo: fra tragico e clownesco

«Mai è esistito un uomo più fotografato. Mai la fotografia è stata una risorsa tanto importante per gli affari nazionali, e mai una dittatura si compiace di un’autenticità maggiore».

È di Mussolini che si parla e a descriverlo così è lo scrittore austriaco Joseph Roth (1894-1939), per l’occasione nelle vesti di inviato del quotidiano «Frankfurter Zeitung». Nei suoi scritti sull’Italia fascista (una cui selezione è raccolta in La quarta Italia, 2013) lo sguardo di Roth restituisce, oscillando tra senso del tragico e del clownesco, una lucida e impietosa descrizione del ventennio nella quale atteggiamenti infantili e violenti risultano inscindibilmente connessi. L’articolo da cui la citazione è tratta è del 1928 e il suo titolo è Dittatura in vetrina.

I ritratti di Mussolini, nota Roth, sono ovunque: in tutte le vetrine di caffè o ristoranti, così come in ogni casa privata. Osservando queste miriadi di immagini si nota come Mussolini abbia fatto propri gesti e comportamenti fino a quel momento riservati alle autorità nobiliari, come l’elargire e ricevere saluti o l’avanzare con solennità in mezzo alla folla. Nel campionario mussoliniano mancano tuttavia, nota Roth, i gesti del quotidiano e del triviale, che potrebbero scalfire l’immagine tanto perfetta quanto artificiosa costruita per il dittatore: Mussolini non sbadiglia mai, non si toglie mai il panciotto?

Attraverso le ironiche parole di Roth, il falso ottimismo costruito ad arte dalla propaganda fascista emerge in tutta la sua vacuità. In particolare, è in primo piano l’uso da manuale del medium fotografico, che annulla la differenza tra rappresentazione e realtà facendo sì che anche le apparizioni in pubblico del duce diventino una sorta di illustrazione anticipata, un materiale grezzo già pronto per una rivista patinata.

[ illustrazione: scheda di arresto di Benito Mussolini da parte dell’autorità svizzera (con l’accusa di vagabondaggio e istigazione allo sciopero), giugno 1903 ]

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ANTROPOLOGIA, APPRENDIMENTO, CITAZIONI, COMPLESSITÀ, CULTURA, LAVORO, SOCIETÀ

La cultura è come l’acqua

Uno dei brani più citati di David Foster Wallace (1962-2008) è quello da lui pronunciato nel maggio 2005 presso il Kenyon College (Ohio) in occasione della cerimonia di conferimento delle lauree (il testo del discorso è pubblicato in Questa è l’acqua). Wallace apre il suo intervento con l’ormai nota “storia dei pesci e dell’acqua”:

«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?»

In quest’occasione Wallace parla di fronte a una platea di laureandi e il suo scopo è di introdurre un articolato discorso sul senso della cultura umanistica. La parabola narra della difficoltà del comprendere e discutere le realtà più ovvie, pervasive e importanti. Il ruolo del pesce anziano è quello del saggio, cioè di chi ha un’esperienza e una conoscenza tali da permettergli di guardare alle cose con prospettiva e, per così dire, “da fuori”.

Da quando ho letto per la prima volta l’incipit del discorso di Wallace non ho potuto fare a meno di pensare come la metafora dell’acqua valga, al di là del suo uso specifico in questa circostanza, per raccontare in generale il rapporto dell’uomo con la cultura. La cultura non si vede e, come i pesci, ci nuotiamo e respiriamo dentro. È l’elemento più importante della nostra formazione e del suo risultato, cioè l’immagine di noi che continuamente si dà a vedere agli altri. Ciononostante, ne coltiviamo un livello di consapevolezza ridotto ai minimi termini. Data l’efficacia della storia, credo valga la pena di riflettere in particolare sul ruolo del pesce anziano: quando si parla in generale di una cultura – e per quanto riguarda il sottoscritto, l’esempio che più spesso mi capita di discutere è quello della cultura lavorativa – siamo davvero certi che la sola permanenza di lungo termine nell’acqua possa essere sufficiente per acquisire una posizione consapevole e distaccata, che permetta di percepire l’influenza della cultura sul nostro modo d’essere?

Credo che a fare la differenza sia l’opportunità di mettere almeno qualche volta la testa fuori dall’acqua. Questo significa aver frequentato altre culture e acquisito uno spirito critico che aiuti a non restare eccessivamente immersi nel proprio ambiente culturale dominante. Una simile competenza anfibia, difficile e dolorosa da coltivare perché mette in discussione la nostra provenienza, il nostro essere e tutto ciò che ci è più vicino, è quanto può permettere di nuotare con consapevolezza e trovarsi a proprio agio anche in differenti contesti. Nel caso dei pesci, perfino sulla terraferma.

[ illustrazione: Weeki Wachee Springs, Florida, fotografia di Toni Frissell, 1947 ]

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CINEMA, LETTERATURA, SOCIETÀ, STORIE

L’omaggio a Stefan Zweig di Grand Budapest Hotel

Il personaggio centrale di Grand Budapest Hotel (regia di Wes Anderson, 2014) è il concierge Gustave H, uomo dalla professionalità indiscutibile, dotato di un inappuntabile senso dell’eleganza e, non da ultimo, di buon cuore. Se è vero che l’eccellente tour-de-force stilistico proposto da Anderson ruota soprattutto attorno a una rocambolesca e comica caccia al ladro, il film non è privo di risvolti tragici, fondamentalmente legati alla figura di Gustave H e al suo destino.

Non è un segreto che Wes Anderson si sia fortemente ispirato per questo film all’opera dello scrittore austriaco di origine ebraiche Stefan Zweig (1881-1942), alcuni tratti del quale si ritrovano proprio nel personaggio di Gustave H. In particolare, la rivista «New York Review of Books» trova un parallelismo fra il “network” di concierge di cui Gustave H si serve per evadere con successo di prigione e il circolo di intellettuali con cui Zweig era in relazione. In entrambi i casi, purtroppo, questo aiuto non è sufficiente a fronteggiare le brutalità della guerra e a evitare una tragica fine a entrambi i personaggi.

Il Saggio The Impossible Exile: Stefan Zweig at the End of the World (2014) di George Prochick ricostruisce le circostanze che dall’Austria hanno condotto Zweig prima in Inghilterra, poi a New York e infine a Petrópolis in Brasile, dove morirà suicida nel 1942. Fu proprio la condizione dell’esilio, nonché di fiera ma impotente opposizione alla guerra, a caratterizzare gran parte dell’esistenza di Zweig, le cui ultime parole scritte furono le seguenti:

«Non c’era niente da fare, da sentire, da vedere, il nulla era ovunque… un vuoto completamente senza dimensione e senza tempo».

[ illustrazione: fotogramma da Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, 2014 ]

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POLITICA, SOCIETÀ, STORIA, STORIE

Elogio del “che sarà mai”

La scritta “tutti”, tracciata con un riconoscibile carattere e in colore rosso, campeggia sulla prima pagina de «L’Unita» del 14 Giugno 1984, accompagnando l’ultimo saluto collettivo a Enrico Berlinguer (1922-1984). La stessa scritta, identico carattere e colore, ricompare sulla copertina del racconto autobiografico di Francesco Piccolo Il desiderio di essere come tutti (Einaudi, 2013).

L’anelito al “tutti” è il sofferto snodo attorno al quale Piccolo costruisce il racconto della propria crescita e, insieme, del fallimento della sinistra in Italia. La lotta contro la superficialità è la prerogativa del giovane Piccolo, che si rispecchia nelle scelte del comunismo italiano. Il passaggio dal compromesso storico all’alternativa democratica è il preludio di una autoemarginazione basata su una tanto pura quanto improduttiva celebrazione di valori ritenuti perduti. La critica della superficialità denuncia una difficoltà di integrazione con il “tutti” che a poco a poco diventa reazionarietà e, in definitiva, distacco. Questo è quel che Piccolo imputa alla sinistra italiana e alla sua classe intellettuale – dunque anzitutto a se stesso.

Rimandando a Weber, Piccolo nota come sia solo l’etica della responsabilità – e non quella dei principi – a rendere possibile l’integrazione con “tutti”, tenendo conto dei difetti umani. E sembra avere fin troppo a cuore il dichiarare di essersi avvicinato a questi difetti, per lo meno nella parte di testo in cui compie un gratuito “coming out” su quanto ha più manifestamente infranto la sua originaria purezza. Ciononostante, il suo racconto culmina, in nome dell’etica della responsabilità, in un atteggiamento costruttivo e di speranza che credo non sia casuale trovare associato alla femminilità. Nel “che-sarà-mai” con cui Piccolo identifica l’atteggiamento quotidiano della compagna c’è la forza di recuperare finalmente la superficialità come positiva capacità di rielaborazione e, in definitiva, di andare avanti giorno dopo giorno cercando di avvicinarsi a “tutti”.

[ illustrazione: Enrico Berlinguer, foto di Luigi Ghirri, 1983 ]

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SOCIETÀ, STORIE

Tipi da spiaggia: la moda delle macchine da bagno

«Alice era stata al mare una sola volta in vita sua, e ne aveva tratto la conclusione che dovunque si vada sulla costa inglese, si trova un certo numero di macchine da bagno nell’acqua, dei bambini che scavavano nella sabbia con palette di legno, quindi una fila di pensioni e, dietro queste, una stazione ferroviaria».

Così narra un passaggio di Alice nel paese delle meraviglie (1865) di Lewis Carroll: che le “macchine da bagno” citate nel testo siano una delle tante, fantastiche invenzioni dello scrittore inglese? Niente affatto: in epoca georgiana e vittoriana, le macchine per il bagno erano una presenza comunissima sulle spiagge dell’Inghilterra, così come in quelle di altre nazioni europee (e perfino d’America). Perfetto complemento degli abiti di flanella con cui ci si presentava in spiaggia – che come nota Lynn Sherr nel suo bellissimo Nuotare (2013) erano più adatti alla chiesa che non alla spiaggia – le macchine da bagno rispondevano perfettamente al senso del pudore e al bisogno di privacy dell’epoca.

Una macchina da bagno altro non era che una cabina di legno su quattro ruote, trainata da un cavallo o da una persona. All’interno della cabina, una gentil dama poteva mettersi in segreto in tenuta da bagno mentre veniva condotta in mare. Una volta giunta al largo, la dama poteva finalmente uscire dalla cabina – spesso accompagnata dall’ulteriore privacy di un telo coprente – e farsi il bagno in solitudine e tranquillità. L’uso delle cabine non era infrequente anche da parte degli uomini, anche se questi ultimi spesso si concedevano addirittura, una volta al riparo da occhi indiscreti, di nuotare nudi.

[ illustrazione: Portobello Beach, Scozia, 1890-1900 ]

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ARTE, CITTÀ, CULTURA, SOCIETÀ

La costruzione di un mito: Saint-Germain-des-Prés

Nessuna visita a Parigi può essere prova di una tappa a Saint-Germain-des-Prés, quartiere-simbolo della vita intellettuale francese del secondo dopoguerra. Culla del movimento esistenzialista e avamposto europeo del jazz, al quartiere – e soprattutto a locali come i caffè De Flore e Deux Magots – sono inscindibilmente legati nomi e gesta di personaggi come Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Boris Vian, Juliette Gréco.

Un libro appena pubblicato dallo storico e giornalista canadese Eric Dussault, intitolato L’invention de Saint-Germain-des-Prés (2014), mette in discussione l’immagine del quartiere giunta fino a noi. Ad averla generata sarebbero stati gli stessi esistenzialisti, con il sostegno della stampa e per la gioia dei commercianti della zona. Secondo Dussault, la Saint-Germain-des-Prés che è passata alla storia – e di cui si continua a celebrare la memoria – rappresenta una visione letteraria ed edulcorata di un quartiere in realtà caratterizzato da povertà e conflitti sociali.

Chi ha raccontato la Saint-Germain-des-Prés degli anni ’40-’60 – in particolare la stessa de Beauvoir in L’età forte (1960), si sarebbe dunque fatto cantore di un mondo autoreferenziale e chiuso su se stesso, bisognoso di costruirsi un proprio mito celebrativo. Mito cui va in ogni caso riconosciuto il merito di saper conservare a oggi – nonostante il libro di Dussault – tutta la sua forza.

[ illustrazione: il Café de Flore negli anni ’40 ]

 

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APPRENDIMENTO, COMPLESSITÀ, CREATIVITÀ, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, JAZZ, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ

Jugaad: l’approccio “jazz” all’innovazione che viene dall’India

Fa il suo arrivo nelle librerie italiane Jugaad innovation di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja. L’editore Rubbettino – con la curatela di Gianni Lo Storto e Leonardo Previ – porta finalmente in Italia il libro che ha reso famoso in tutto il mondo un approccio al 100% indiano che ha molto da insegnare a quanti si sentono oggi chiamati, tanto nelle aziende quanto nella quotidianità, a fare di più con meno.

“Jugaad”, termine Hindi pressoché intraducibile in maniera letterale, è un sinonimo di creatività, quella vera. Vale a dire: niente di geniale o magico, ma grande abilità nel trovare nuove soluzioni per vecchi problemi, usando al meglio le risorse di contesto. Del resto, come affermava il matematico Henri Poincaré  (1854-1912):

«Essere creativi significa esercitare la capacità di combinare elementi esistenti in modo nuovo e utile».

Questo è il nucleo centrale dell’approccio jugaad: un grande patrimonio di esempi frugali provenienti da una nazione che ha saputo fare di più con meno per risolvere problemi quotidiani e per produrre un nuovo modello di innovazione per il mondo delle imprese. Ed è proprio in tema di innovazione che l’approccio jugaad ha più da offrire:

«Per troppo tempo il modello di innovazione occidentale è stato simile a un’orchestra: top-down, rigido e guidato dagli alti livelli organizzativi. Questo tipo di modello funziona bene in un mondo stabile e ricco di risorse. Ma poiché quello che le aziende occidentali dovranno affrontare nei prossimi anni è un contesto business complesso e imprevedibile, esse hanno bisogno di un approccio alternativo, più simile a quello di un gruppo jazz: bottom-up, capace di improvvisare, fluido, collaborativo e inserito in una cornice di profonda conoscenza. L’approccio jugaad rappresenta quest’alternativa».

Questo passaggio di Jugaad Innovation rende particolarmente evidente che in un momento di crisi economica globale è diventato necessario, anche per le aziende occidentali, assumere un diverso paradigma di innovazione, non più basato su un’aspettativa di abbondanza ma sulla capacità di muoversi al meglio nella scarsità e nell’imprevedibile. Gli autori del testo esemplificano questa idea facendo uso della più potente metafora di innovazione e collaborazione emergente che le imprese hanno a disposizione: quella del jazz.

L’organizzazione come orchestra, metafora ancora oggi piuttosto popolare in molte aule di formazione, ha fatto il suo tempo. Per innovare – e ancor prima sopravvivere – in un contesto di scarsità c’è oggi bisogno di coltivare le competenze tipiche di un jazzista: ascolto, interplay, improvvisazione. Solo volgendosi in questo modo al contesto è possibile fare di più con meno. Ecco cos’ha da insegnarci, arricchendo questo messaggio della saggezza e dell’esperienza indiana, l’approccio jugaad.

[ illustrazione: particolare dalla copertina del disco Jazz Meets India di Irene Schweizer Trio & Dewan Motihar Trio, 1967 ]

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ARTE, LETTERATURA, POLITICA, SOCIETÀ

La letteratura come insurrezione: Max Frisch e il Quadrato Nero di Malevič

Nella seconda di due lezioni sulla letteratura tenute nel novembre 1981 presso il City College di New York, Max Frisch racconta di un ambasciatore straniero in visita al museo dell’Ermitage. L’ambasciatore si mostra curioso di poter vedere un’opera nascosta negli archivi del museo, negata al pubblico perché considerata socialmente pericolosa. L’opera in questione è il Quadrato Nero di Kazimir Malevič, tela del 1915 che costituisce l’esempio forse più noto dell’arte suprematista, descritta dal pittore in questi termini:

«Questo disegno avrà una importanza enorme per la pittura. Rappresenta un quadrato nero, l’embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente».

La richiesta dell’ambasciatore viene esaudita e la sua reazione è uno sbigottito “tutto qui?”. Che bisogno c’è di tenere nascosta un’opera che, a ben vedere, il popolo non degnerebbe di uno sguardo? La risposta che l’ambasciatore riceve è la seguente: è vero, il popolo non riuscirebbe a capire il senso del quadrato nero, ma tramite esso vedrebbe che oltre alla società e allo Stato esiste altro. In questo “esiste altro” c’è il senso della letteratura per Frisch, la missione di un’arte che possa contrapporsi al potere.

Quello di Frisch è un discorso politico interamente incentrato sul ruolo della parola e della scrittura: il potere impone una lingua che informa e determina la percezione di sé e il racconto. È la lingua che impariamo a scuola, fatta di luoghi comuni, frasi fatte e stereotipi tarati sugli interessi della classe dominante. Il mestiere di chi scrive è quello di liberare sé e i propri lettori da questa egemonia, andando in cerca di una lingua più autentica, che possa avvicinarsi all’esperienza. Questo è il valore della letteratura come “quadrato nero”:

«Accade che la sua lingua mi liberi […]. Può darsi che inizialmente mi riduca al silenzio, giacché scopro grazie alla letteratura che quelle con le quali convivo sono tutte frasi fatte. E questo significa che non vivo me stesso. [La letteratura] mi sfida. Per dirla in breve: mi fa insorgere. Se questo non succede, leggere è superfluo».

[ illustrazione: Kazimir Malevič, Quadrato Nero, 1915 ]

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ARTE, INNOVAZIONE, JAZZ, MUSICA, SOCIETÀ, STORIE

Il rito della primavera: da Stravinskij a The Bad Plus, passando per Walt Disney

The Bad Plus è un ensemble americano che nel corso degli anni si è imposto come una delle più interessanti declinazioni contemporanee della classica formazione jazz del piano-trio, ideale erede – insieme al gruppo guidato dal pianista Brad Mehldau – dei celebri trio di Bill Evans e Keith Jarrett. Una delle caratteristiche che hanno portato The Bad Plus alla notorietà è la capacità di rileggere in chiave jazz alcuni “standard” della musica pop e rock originariamente composti da band e artisti come Nirvana, Pixies, Pink Floyd, David Bowie, Black Sabbath. Nel marzo 2014 è uscito il loro The Rite of Spring, quasi in coincidenza con l’equinozio di primavera e in esatto ritardo di un anno rispetto al centenario de Le Sacre du printemps, il celebre concerto per balletto e orchestra composto da Igor Stravinskij (1882-1971) e andato in scena per la prima volta il 29 maggio 1913 a Parigi, presso l’allora appena inaugurato teatro degli Champs-Élysées. Cimentarsi con il materiale di Stravinskij è per The Bad Plus una prova del tutto nuova, che la band riesce ad affrontare con successo, mantenendo la propria identità e senza cadere nella banale trappola di una “versione jazz” di Stravinskij.

Le musiche di quella che in italiano è stata malamente tradotta come La sagra della primavera rappresentano uno dei materiali più importati e rivoluzionari della musica novecentesca. Stravinskij fu capace di innovare con questa partitura su più fronti: tanto sulla tonalità, quanto sul metro; tanto sulla dissonanza, quanto sul ritmo. La forza dirompente delle musiche di Stravinskij è pienamente dimostrata dai resoconti d’epoca, che narrano di un ormai “mitologico” tumulto – oggi irripetibile, dato il cambiamento dei costumi musicali e più in generale culturali – scoppiato tra le mura del teatro degli Champs-Élysées nella notte del 29 maggio 1913. Per la verità, critiche violente continuarono a presentarsi anche nelle successive repliche – a partire dalla seconda, cui presenziò un indignato Giacomo Puccini – e nelle messe in scena in altre nazioni.

Le Sacre du printemps arrivò negli Stati Uniti solo nel 1930, finalmemente accompagnato da un clima di maggiore comprensione dell’opera. Fra i suoi ascoltatori più entusiasti spiccò Walt Disney (1901-1966), che decise di utilizzare buona parte del concerto per il proprio film Fantasia (1940), interamente basato sull’interazione fra animazione e musica sinfonica. La parte di Fantasia che utilizza Le Sacre du printemps è quella che narra l’origine della Terra, dalla comparsa delle prime forme viventi fino all’estinzione dei dinosauri. Come ben argomentato da un articolo del «Washington Post», la versione filmica di Disney ha reso molta più giustizia a Le Sacre du printemps di quanto siano riuscite a fare nel corso del tempo moltissime coreografie di balletto, dalla prima, deludente, di Vaslav Nijinsky, fino a quella altamente controversa messa in scena da Pina Bausch nel 1975. Le musiche di Stravinskij, che narrano di un rito pagano che risale alle origini della civiltà, si sposano perfettamente con la danza delle forze naturali messa in scena da Disney. Guardare il brano di Fantasia, farlo seguire da un ascolto della reinterpretazione di The Bad Plus – e poi concludere con una più tradizionale interpretazione come quella diretta dal finlandese Esa-Pekka Salonen – è il miglior modo per celebrare i cento anni di una composizione fondamentale per la storia della musica occidentale.

[ illustrazione: caricatura di Jean Cocteau che rappresenta Igor Stravinsky intento a suonare la Sagra della Primavera, 1913 ]

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GIOCO, INNOVAZIONE, MARKETING, MEDIA, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

Flappy Bird e il successo al tempo delle app

Flappy Bird è una app per smartphone lanciata nel maggio 2013 da un 29enne sviluppatore vietnamita di nome Dong Nguyen. L’app in questione è un videogioco la cui banalità va di pari passo con la capacità di generare frustrazione e dipendenza. Nonché di diventare il videogioco più scaricato su smartphone, in grado di fruttare al suo creatore – nonostante la gratuità dell’app – ben $50.000 al giorno in pubblicità. Più di un sospetto è stato generato dalla velocità con cui il gioco, unanimemente valutato dagli addetti ai lavori come mediocre (nonché copia carbone di una simile app del 2011), è diventato popolare.

Un articolo tratto dal blog Eurogamer ricostruisce con cura la parabola del successo di Flappy Bird, soffermandosi sul probabile ruolo cruciale svolto in essa da “bot” e utenti “comprati” per effettuare scaricamenti e lasciare commenti positivi. Valutare quanto spregiudicata possa essere stata l’opera di promozione dell’app è in ogni caso difficile. Di certo, per usare le parole dell’articolo (che si rifà a sua volta a uno scritto dell’Independent):

«Flappy Bird è diventato il Gangnam Style dei giochi mobile: una roba talmente brutta e incomprensibile da diventare rapidamente divertente e virale».

Il paragone rende l’idea della “cifra stilistica” del videogame, il cui successo potrebbe dunque essere frutto tanto di scaricamenti comprati quanto del basso livello critico dell’utente di videogiochi medio. O più realisticamente della combinazione dei due fenomeni, il che rappresenta un duro colpo per un’accoppiata ben più classica e ortodossa, quella cioè fra creatività e meritocrazia. Lo lezione è dura da accettare: Flappy Bird mostra che nel mondo delle app, più in generale in quello dell’innovazione di prodotto, i valori tradizionalmente messi al centro dell’idea di progetto – spesso anche con una certa retorica – sono cosa passata, buona per idealisti, nostalgici o teorici ma non per chi intenda davvero raggiungere il successo.

L’epilogo della vicenda è stato decretato dallo stesso Dong Nguyen, il quale ha deciso in data 09.02.2014 di ritirare il gioco dai vari app store. Nel suo account Twitter si dichiara provato dal troppo successo e preoccupato per la dipendenza generata dall’app in moltissimi giocatori. Questo esito rende ancora più curiosa la vicenda, che assume il tono di apologo morale: che Nguyen abbia messo in piedi l’intero progetto per impartire un paio di lezioni sulle moderne tecniche di marketing e sulla sociologia dei consumi? A proposito: ora che la app non è più scaricabile, su ebay c’è perfino chi vende, fra il serio e il faceto, il proprio smartphone con Flappy Bird installato.

[ illustrazione: screenshot tratti dalla app Flappy Bird ]

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