APPRENDIMENTO, CAMBIAMENTO, ECONOMIA, FRUGALITÀ, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Un diverso punto di vista sulla frugalità

Paolo Legrenzi, Docente di Psicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, esplora nel suo Frugalità (2014) un concetto che in tempi di crisi gode di particolare popolarità. Ma cosa significa essere frugali? Assumendo il punto di vista dello psicologo, la frugalità è un atteggiamento generale di fronte alla vita, una scelta di stile e buon gusto che poco o nulla ha che fare – come ha sostenuto Bruno Munari in Da cosa nasce cosa (1981) – con il lusso. La frugalità, nota Legrenzi, non è uno strumento orientato a uno scopo; deve essere coltivata come un fine in se stessa. Non si tratta, come nel caso della povertà, di una costrizione, ma del risultato di una libera scelta. Essere frugali significa rifiutare l’abbondanza e il superfluo, concentrandosi sull’essenziale.

Un simile approccio alla frugalità si distanzia fortemente da quello assunto dalla maggior parte dei libri di business orientati a questo tema. Come citato in apertura, se oggi si parla tanto di frugalità è principalmente a causa del generale contesto di crisi e della diffusa percezione di scarsità. Soprattutto per quanto riguarda le aziende, vissute per lungo tempo in un ambiente di abbondanza di risorse, ricorrere alla frugalità è oggi più un obbligo che una scelta. Proprio come lo è l’imparare a improvvisare per chi si è cullato per anni nella credenza che i piani possano essere immutabili e impermeabili ai cambiamenti di contesto.

La maggiore utilità del libro di Legrenzi è dunque questa: offrire un convinto paradigma di vita orientato alla frugalità a chi inizia solo ora a confrontarsi con questa parola. Benché l’autore sembri guardare i nuovi adepti dall’alto al basso (la frugalità è un sapere tacito che si impara da piccoli in famiglia, non una nozione che si apprende a scuola – sostiene Legrenzi), nelle ultime pagine di Frugalità (2014) stila un decalogo il cui senso può essere sintetizzato in una parola: autocontrollo.

[ illustrazione: Giuseppe Vermiglio, S. Paolo Eremita, circa 1649 ]

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INNOVAZIONE, MARKETING, PERCEZIONE, SCRITTURA, STORIE, TECNOLOGIA

La macchina da scrivere, questa sconosciuta

Nella storia delle innovazioni, l’incomprensione occupa un posto importante. Quel che a noi può oggi suscitare un discorso sull’antico, un’archeologia non priva di implicazioni sentimentali, doveva originariamente apparire come oggetto di mistero, per non dire di repulsione. Provate a immaginare di essere uno scrittore, attivo nel 1868: come reagireste di fronte alle promessa che uno strano incrocio tra un fonografo e un pianoforte possa sostituire penna e inchiostro? Con tutta probabilità, non in modo troppo accogliente.

L’imprenditore statunitense Christopher Latham Sholes (1819-1890) dovette fronteggiare questo tipo di perplessità quando presentò il suo brevetto nel giugno del 1868. Quanto è certo è che nulla della prima type-writer sembrava pensato per accattivarsi la possibile clientela. Basti pensare al sistema di tasti QWERTY, notoriamente nato per rallentare – non per velocizzare – la velocità di scrittura per evitare inceppamenti del meccanismo. La tastiera, con spirito spartano, era inoltre priva di tasti per lo 0 e l’1. Secondo il progetto, per produrre questi numeri era più che sufficiente poter disporre delle lettere O e I maiuscole (per inciso, le minuscole non erano date).

Se per Sholes e per gli sviluppatori che lavorarono al suo fianco gli inizi non furono facili (tanto che la macchina da scrivere finì presto per costringerli a contrarre debiti), la perseveranza nello sviluppo del prototipo e nell’azione di marketing li portò finalmente nel 1874 a un contratto di partnership che generò l’immissione nel mercato della Remington 1, venduta al salato costo di 125$ dell’epoca. Nella storia seguente, Sholes si è potuto prendere più di una rivincita nei confronti degli scettici scrittori della sua epoca. Le tastiere QWERTY, a oggi onnipresenti nella nostra galassia di device digitali, sono qui per ricordarcelo.

[ illustrazione: particolare dal brevetto per la prima macchina da scrivere Sholes, 1868 ]

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APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, IMMAGINI, LETTERATURA, PAROLE, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE

Il mondo così com’è

Conoscere il mondo è un’immodesta pretesa, aggravata dall’incapacità di fare a meno delle parole. Ricorrere alla loro mediazione significa applicare etichette atte a riconoscere e trasmettere esperienze altrimenti condannate alla soggettività. Ma cosa accade quando la relazione si inverte, cioè quando non siamo noi ad apporre etichette alle cose, ma le cose stesse a emanare parole? È quel che si chiedono, nella graphic novel Il mondo così com’è (2014), Massimo Giacon e Tiziano Scarpa.

Alfio Betiz, protagonista del racconto, è affetto da una curiosa quanto grave patologia neurologica, causa di allucinazioni “grafiche” la cui forma è quella di messaggi – resi nelle tavole di Giacon con classici balloon fumettistici – emanati dalle cose che lo circondano:

«Il mondo gli apriva un varco per svelargli ciò che pensavano le cose. A volte erano pensieri profondi, a volte stupidaggini belle e buone, ma non era una rivelazione anche questa?»

Il mondo così com’è si dà a vedere ad Alfio Betiz visualizzando il pensiero tacito delle cose. Avvicinarsi ai segreti dell’inanimato lo porta in breve a distanziarsi dagli affetti delle persone. Fa eccezione la dottoressa Zedda, del cui interesse non è dato comprendere appieno la natura: il suo amore è volto ad Alfio o alla di lui malattia? Mentre ci si pone questa domanda, le condizioni della malattia peggiorano e, forse per contrappasso rispetto all’eccesso di visione sul mondo loro concesso, gli occhi di Alfio iniziano progressivamente a perdere funzione, fino a giungere alla cecità. Avvicinandosi alle sue ultime pagine, il tono del racconto diventa tragico, facendosi riflessione sull’attaccamento alla vita, alle relazioni, alle cose:

«Come mai ci affezioniamo alle cose solo quando stiamo per perderle?»

[ illustrazione: particolare di una tavola da Il mondo così com’è (2014) di Massimo Giacon e Tiziano Scarpa ]

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ARTE, PERCEZIONE, STORIE

L’invenzione della Pop Art

Una relazione di amicizia, una lettera persa nel tempo, un nuovo tassello aggiunto alla storia dell’arte. Questo il racconto di Jean-Jacques Lebel nel piccolo volume Elogio di «Funny Guy» Picabia, inventore della pop art, appena dato alle stampe da Johan & Levi.

Quando si pensa alla Pop Art si pensa anzitutto a Warhol e più in generale a un fenomeno culturale “made in USA”. Tuttavia l’arte pop nasce in Inghilterra e a ricordarlo basta il collage di Richard Hamilton (1922-2011) Just What Is It Makes Today’s Homes So Different, So Appealing? (1956), tradizionalmente considerato la prima opera di questa corrente artistica.

Antecedenti della Pop Art possono essere rinvenuti, sempre in Europa ma in anni precedenti, tanto in Courbet quanto in Picasso e, come ci aiuta a scoprire Jean-Jacques Lebel, Francis Picabia (1879-1953). Ad accreditare questa tesi è il ritrovamento di una busta a lungo considerata dispersa, inviata nel 1923 da Picabia all’amico André Breton. La busta conteneva, insieme a un breve scritto e a una poesia, dodici piccole illustrazioni pensate per la rivista «Littérature», ovviamente mai pubblicate dato lo smarrimento della lettera. In questi piccoli disegni, realizzati semplicemente con inchiostro nero su carta, Picabia si diverte a citare e sovvertire le regole della comunicazione di massa, rendendo arte l’annuncio pubblicitario – completo di prezzo e varianti di colore – di un cappello o di un tavolino pieghevole.

Lebel chiama in causa Aby Warburg e con lui la dea greca Mnemosyne nell’evocare il fascino di una archeologia delle immagini che superi la lettura univoca di un’attribuzione puntuale – l’invenzione della pop art – grazie alla ricerca di affinità sottili e complesse che rendono più ricca l’indagine della storia dell’arte.

[ illustrazione: disegno di Francis Picabia, 1923 ]

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CINEMA, EPISTEMOLOGIA, FILOSOFIA, PERCEZIONE

Fidarsi delle immagini

Martin, cieco dalla nascita, scatta fotografie di tutto ciò che lo circonda. Ne chiede poi una descrizione alle persone che incontra, per quanto sia convinto che gli altri non facciano che mentirgli. Il suo più grande dubbio riguarda le descrizioni degli ambienti della sua infanzia restituitegli da sua madre. Di questi ambienti non gli resta che la muta prova di una fotografia, un’istantanea del giardino di fronte a casa sua che Martin ha conservato senza mai averla mostrata a nessuno. In una sorta di ribaltamento della posizione di Roland Barthes in La camera chiara (1980), Martin assegna all’immagine mai vista un valore di affettività negata, cioè il ruolo di un punctum che non ha mai potuto materializzarsi in mancanza di fiducia nei confronti del valore ontologico dell’immagine.

Istantanee di Jocelyn Moorhouse (Proof, 1991) è un film che parla di fiducia, nelle persone ma soprattutto nelle immagini. La conclusione del film vede finalmente confermato, da parte dell’amico più caro, il racconto della madre di Martin. La fotografia conservata mostra esattamente quel che le parole della donna avevano detto. La fiducia è ritrovata, l’immagine dice la realtà. Secondo l’interpretazione del filosofo Julio Cabrera in Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film (1999), ciò che alla fine Martin ottiene è una conferma morale dell’esistenza del mondo, una sorta di prova cartesiana che tuttavia non discende dall’evidenza interiore del cogito ma piuttosto dal fuori, dal mondo descritto attraverso un’immagine.

Si tratta di avere fiducia nelle immagini, dunque. E anzitutto capire perché a certe crediamo e ad altre no. Le istantanee, a rischio praticamente nullo di manipolazione, sono per tradizione immagini di cui ci si può fidare, impronte del reale su carta fotografica. Molto meno ci fidiamo di altri tipi di immagini, in particolare di quelle digitali. È senz’altro la parentela con il computer, denunciata dall’inevitabile tramite dello schermo/monitor, ad accomunare la maggior parte delle immagini con cui abbiamo a che fare oggi, ombre mutevoli e sfuggenti. Tuttavia, poiché a essere etichettati come “new media” sono soprattutto i media con i quali non siamo cresciuti, la mancanza di fiducia nei confronti di queste immagini è a ben vedere relativa, generazionale e affettiva.

Comprendere la relazione che ci lega a diversi tipi di immagini significa affrontare con rinnovata consapevolezza i rapporti interpersonali. Il problema delle immagini è anzitutto un tema culturale e antropologico, che mette in gioco il nostro modo di guardare al mondo. Non restare imprigionati fra le tante immagini che pulsano sui nostri monitor è una necessità urgente tanto quella di far fronte alle attuali forme di dislocazione e frammentazione che trasformano i rapporti sociali.

[ illustrazione: fotogramma da Proof di Jocelyn Moorhouse (1991) ]

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ANTROPOLOGIA, FOTOGRAFIA, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE

Turista, lavoratore, fotografo: da Sontag a Taleb

«Quasi tutti i turisti si sentono costretti a mettere la macchina fotografica tra sé stessi e tutto ciò che di notevole incontrano. Malsicuri delle altre reazioni, fanno una fotografia. Questo dà una forma all’esperienza: ci si ferma, si scatta una foto, si riprende il cammino. È un metodo che garba soprattutto ai popoli handicappati da una spietata etica del lavoro, come i tedeschi, i giapponesi e gli americani. Adoperare una macchina fotografica allevia l’angoscia che l’ossessionato dal lavoro prova non lavorando, quando è in vacanza e dovrebbe teoricamente divertirsi. Può comunque fare qualcosa che è come una simpatica imitazione del lavoro: può sempre fotografare».

Così scriveva Susan Sontag (1933-2004) nel 1977, nel suo celebre Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. A distanza di oltre 35 anni, viviamo in un’epoca in cui il fatto che la gran parte delle nostre esperienze sia mediata da immagini è quasi scontato. Tutto ciò è spesso vissuto con una certa dose di compiaciuta rassegnazione, ben rappresentata dal successo di app come Instagram.

L’atteggiamento del turista è oggi esteso a ogni momento della vita quotidiana, dando vita a quella che alcuni chiamano touristification. Quest’ultima è un’espressione coniata da Nassim Taleb, la cui più recente opera si intitola Antifragile. Prosperare nel disordine (2012). Qui Taleb parla dell’atteggiamento del turista assimilandolo a una condotta sistematicamente tesa alla riduzione dell’incertezza e della casualità quotidiana. Fin troppo facile risulta accostare questa indole a una logica di efficienza e “risk management” del tutto aziendale.

Come contraltare alla touristification, l’estensione della condotta lavorativa a quello che un tempo si soleva chiamare loisir dà vita a un tempo sociale sempre meno distinto da quello produttivo. Il fotografo-turista-lavoratore è dunque una figura antropologica che descrive piuttosto bene la contemporaneità.

[ illustrazione: foto di Martin Parr tratta dal progetto Small World, 1996 ]

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CONCETTI, LAVORO, PERCEZIONE, SOCIETÀ

In cerca del silenzio, nuova frontiera del business

Se vi è capitato di acquistare, ben disposti al sovrapprezzo, un biglietto di treno che promette “area silenzio”, sapete di cosa si parla. Lo sapete anche se siete acquirenti di automobili ed elettrodomestici “silenziosi” o cuffie “noise-canceller” (comprate magari per contrastare gli effetti di un open-space lavorativo). Nonostante John Cage abbia dimostrato in tempi non sospetti che il silenzio non esiste, il business che riguarda la sua ricerca pare essere molto concreto. Un recente articolo della rivista «The New Republic» ne segue le tracce.

La ricerca del silenzio trae origine, più che dalla percezione di crescenti disturbi sonori in termini di decibel (per la cronaca, le città italiane più rumorose del 2013 risultano Roma, Milano, Genova e Napoli), da una brama di “assenze” intese come sinonimo di purezza e riconquistata originarietà. I vari slogan del “senza tossine/grassi/conservanti/eccipienti/”, fino al classico “senza zucchero”, paiono  rispondere a una simile ricerca di sottrazione. Tornando sul piano sonoro, secondo lo studioso Jonathan Sterne, autore del testo The Audible Past: Cultural Origins of Sound Reproduction (2003), il silenzio sarebbe diventato una metafora particolarmente calzante per la ricerca di una condizione utopica e irraggiungibile, agognata in reazione al cosiddetto rumore di fondo (in certi casi letterale, ma soprattutto simbolico) della quotidianità.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Artist di Michel Hazanavicius, 2011 ]

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COMPLESSITÀ, IMMAGINI, PERCEZIONE, RAPPRESENTAZIONE, SEGNI

Abitare la complessità, imparando dalle immagini

«Con le parole presentiamo una accumulazione; con le immagini una totalità. Le parole sono perfette per analizzare un’esperienza; per esprimere la totalità abbiamo bisogno delle immagini».

Questa citazione è tratta da L’ordine complicato. Come costruire un’immagine (2008) di Yona Friedman. Questo testo mette in luce come la gestione di ciò che appare complesso necessiti di strumenti diversi da quelli abituali. Il raffronto fra testo e immagine sta a indicare esattamente questa opportunità: se il testo è senza dubbio lo strumento conoscitivo predominante nella civiltà occidentale, l’immagine – a partire dal suo ruolo defilato (in quanto ritenuta dominio dell’immaginario e non della “verità”) – è in grado di offrire un diverso approccio alla conoscenza, che senza la pretesa di essere “superiore” aiuta a costruire un punto di vista più ricco.

Le immagini sono in grado di esplorare e raccontare la complessità grazie alla loro capacità sintetica. Questo è quanto intende Friedman: la totalità che un’immagine restituisce agevola una comprensione sistemica – e non, come solitamente fa il testo, lineare – di ciò che ci circonda. Disegnare e in generale utilizzare le immagini aiuta, per dirla con gli americani, a costruire una “big picture” di un contesto e dunque a orientarsi meglio al suo interno.

[ illustrazione tratta da L’Ordine Complicato (2008) di Yona Friedman ]

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CINEMA, CONCETTI, ECONOMIA, PERCEZIONE, SOCIETÀ

Il Monello di Chaplin e il teorema delle finestre rotte

In una delle più riuscite sequenze di The Kid (1921) di Charlie Chaplin, il monello del titolo infrange a sassate le finestre di alcune abitazioni, preparando così il successivo passaggio del padre, “casualmente” dotato di vetri di ricambio. Questa scena comica rimanda a un teorema diffuso fin dal 1850 ed elaborato dall’economista Frédéric Bastiat. Il teorema è noto come il “racconto della finestra rotta”.

Il racconto originario somiglia molto alla sua versione filmica: un ragazzino infrange la finestra di un commerciante e i cittadini inizialmente simpatizzano per quest’ultimo, identificandosi con il torto subito. In seguito, essi cambiano opinione: il danno alla finestra darà lavoro al vetraio, il quale potrà a sua volta acquistare qualcosa dal panettiere, il quale potrà a sua volta divenire cliente del calzolaio… E così via. A questo punto il ragazzino, lungi dall’essere considerato un semplice vandalo, inizia a essere visto come qualcuno in grado di “muovere” l’economia cittadina.

Soffermarsi sulle conseguenze economiche positive del danno subito dal commerciante nasconde tuttavia quelle negative. Il denaro speso per ricomprare una finestra non potrà essere utilizzato per altro, annullando così qualsiasi precedente progettualità di spesa del commerciante. Secondo questa seconda interpretazione, il ragazzino non avrebbe generato un beneficio economico alla città ma, più semplicemente, l’avrebbe privata di una finestra.

Nel corso della storia il racconto di Bastiat è stato commentato e discusso da molti economisti, oltre che applicato ad ambiti che costituiscono a oggi oggetto di dibattito comune. Su tutti, il caso delle guerre: a seconda del punto di vista, esse sono considerabili tanto forze devastanti e distruttrici quanto possibili motori di lavoro e progresso.

[ illustrazione: fotogramma da The Kid di Charles Chaplin, 1921 ]

 

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APPRENDIMENTO, EPISTEMOLOGIA, PERCEZIONE

Sull’utilità e il danno del sapersi concentrare

«Part of normal human development is learning to notice less than we are able to».

On Looking (2013) di Alexandra Horowitz, il cui sottotitolo è “Eleven walks with expert eyes”, è un’affascinante narrazione multisensoriale e sinestetica agita tramite il confronto con alcuni “esperti” di specifiche forme di percezione.

Il racconto di Horowitz prende le mosse da un’uscita in città con il proprio figlio e si chiude portando a spasso il proprio cane, passando per passeggiate accompagnate dallo sguardo di persone abituate a studiare i suoni, le ere geologiche, gli insetti e diversi altri aspetti della nostra esperienza. Presa isolatamente, ognuna di queste esperienze risulta tanto specifica quanto parziale. Al contrario, la loro giustapposizione contribuisce a costruire uno spettro percettivo sorprendentemente vasto.

Il “guardare” cui il titolo del testo allude ha – e insieme non ha – a che fare con gli occhi. Se quella dello sguardo è indubitabilmente l’egemonia percettiva cui la nostra esperienza è quotidianamente sottoposta, le esperienze narrate dall’autrice mostrano come sia possibile guardare in molti modi diversi e, sopratutto, farlo anche facendo a meno degli occhi.

Altro tema centrale del testo è quello dell’attenzione. A questo riguardo Horowitz mostra come concentrarsi su qualcosa non significhi altro che ridurre in maniera deliberata (ma non sempre consapevole) la ricchezza percettiva di cui siamo naturalmente dotati finalizzandola a un unico scopo la cui efficacia va di pari passo con la limitatezza.

Imparare a concentrarsi è una tanto necessaria quanto discutibile conquista del nostro percorso di crescita. Detto in altri termini, diventare adulti significa acquisire un’abilità percettiva sempre più grande all’interno di un campo di osservazione sempre più piccolo. Sforzarsi di controvertire questa tendenza può rivelarsi un orientamento ricco di sorprese.

[ Particolare da un’inserzione pubblicitaria di un refrigeratore a gas Electrolux, 1932 ]

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