APPRENDIMENTO, COMPLESSITÀ, CREATIVITÀ, FRUGALITÀ, INNOVAZIONE, JAZZ, LAVORO, MANAGEMENT, SOCIETÀ

Jugaad: l’approccio “jazz” all’innovazione che viene dall’India

Fa il suo arrivo nelle librerie italiane Jugaad innovation di Navi Radjou, Jaideep Prabhu e Simone Ahuja. L’editore Rubbettino – con la curatela di Gianni Lo Storto e Leonardo Previ – porta finalmente in Italia il libro che ha reso famoso in tutto il mondo un approccio al 100% indiano che ha molto da insegnare a quanti si sentono oggi chiamati, tanto nelle aziende quanto nella quotidianità, a fare di più con meno.

“Jugaad”, termine Hindi pressoché intraducibile in maniera letterale, è un sinonimo di creatività, quella vera. Vale a dire: niente di geniale o magico, ma grande abilità nel trovare nuove soluzioni per vecchi problemi, usando al meglio le risorse di contesto. Del resto, come affermava il matematico Henri Poincaré  (1854-1912):

«Essere creativi significa esercitare la capacità di combinare elementi esistenti in modo nuovo e utile».

Questo è il nucleo centrale dell’approccio jugaad: un grande patrimonio di esempi frugali provenienti da una nazione che ha saputo fare di più con meno per risolvere problemi quotidiani e per produrre un nuovo modello di innovazione per il mondo delle imprese. Ed è proprio in tema di innovazione che l’approccio jugaad ha più da offrire:

«Per troppo tempo il modello di innovazione occidentale è stato simile a un’orchestra: top-down, rigido e guidato dagli alti livelli organizzativi. Questo tipo di modello funziona bene in un mondo stabile e ricco di risorse. Ma poiché quello che le aziende occidentali dovranno affrontare nei prossimi anni è un contesto business complesso e imprevedibile, esse hanno bisogno di un approccio alternativo, più simile a quello di un gruppo jazz: bottom-up, capace di improvvisare, fluido, collaborativo e inserito in una cornice di profonda conoscenza. L’approccio jugaad rappresenta quest’alternativa».

Questo passaggio di Jugaad Innovation rende particolarmente evidente che in un momento di crisi economica globale è diventato necessario, anche per le aziende occidentali, assumere un diverso paradigma di innovazione, non più basato su un’aspettativa di abbondanza ma sulla capacità di muoversi al meglio nella scarsità e nell’imprevedibile. Gli autori del testo esemplificano questa idea facendo uso della più potente metafora di innovazione e collaborazione emergente che le imprese hanno a disposizione: quella del jazz.

L’organizzazione come orchestra, metafora ancora oggi piuttosto popolare in molte aule di formazione, ha fatto il suo tempo. Per innovare – e ancor prima sopravvivere – in un contesto di scarsità c’è oggi bisogno di coltivare le competenze tipiche di un jazzista: ascolto, interplay, improvvisazione. Solo volgendosi in questo modo al contesto è possibile fare di più con meno. Ecco cos’ha da insegnarci, arricchendo questo messaggio della saggezza e dell’esperienza indiana, l’approccio jugaad.

[ illustrazione: particolare dalla copertina del disco Jazz Meets India di Irene Schweizer Trio & Dewan Motihar Trio, 1967 ]

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ANTROPOLOGIA, FOTOGRAFIA, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE

Turista, lavoratore, fotografo: da Sontag a Taleb

«Quasi tutti i turisti si sentono costretti a mettere la macchina fotografica tra sé stessi e tutto ciò che di notevole incontrano. Malsicuri delle altre reazioni, fanno una fotografia. Questo dà una forma all’esperienza: ci si ferma, si scatta una foto, si riprende il cammino. È un metodo che garba soprattutto ai popoli handicappati da una spietata etica del lavoro, come i tedeschi, i giapponesi e gli americani. Adoperare una macchina fotografica allevia l’angoscia che l’ossessionato dal lavoro prova non lavorando, quando è in vacanza e dovrebbe teoricamente divertirsi. Può comunque fare qualcosa che è come una simpatica imitazione del lavoro: può sempre fotografare».

Così scriveva Susan Sontag (1933-2004) nel 1977, nel suo celebre Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. A distanza di oltre 35 anni, viviamo in un’epoca in cui il fatto che la gran parte delle nostre esperienze sia mediata da immagini è quasi scontato. Tutto ciò è spesso vissuto con una certa dose di compiaciuta rassegnazione, ben rappresentata dal successo di app come Instagram.

L’atteggiamento del turista è oggi esteso a ogni momento della vita quotidiana, dando vita a quella che alcuni chiamano touristification. Quest’ultima è un’espressione coniata da Nassim Taleb, la cui più recente opera si intitola Antifragile. Prosperare nel disordine (2012). Qui Taleb parla dell’atteggiamento del turista assimilandolo a una condotta sistematicamente tesa alla riduzione dell’incertezza e della casualità quotidiana. Fin troppo facile risulta accostare questa indole a una logica di efficienza e “risk management” del tutto aziendale.

Come contraltare alla touristification, l’estensione della condotta lavorativa a quello che un tempo si soleva chiamare loisir dà vita a un tempo sociale sempre meno distinto da quello produttivo. Il fotografo-turista-lavoratore è dunque una figura antropologica che descrive piuttosto bene la contemporaneità.

[ illustrazione: foto di Martin Parr tratta dal progetto Small World, 1996 ]

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CINEMA, LAVORO, LETTERATURA, SCRITTURA

Lo stile e la ricerca secondo Hemingway e Tarkovskij

«Secondo me, però, quello che talvolta si definisce “stile” spesso non sono altro che le esitazioni di chi si è cimentato con un qualcosa che non era mai stato fatto prima. I nuovi classici non assomigliano mai ai classici dei periodi precedenti. E all’inizio, l’unica cosa che la gente nota, non essendo in grado di accorgersi di nient’altro, sono quelle esitazioni. Così quando si comincia a pensare che le esitazioni siano un nuovo stile, una marea di persone si mette a imitarlo. È davvero una brutta faccenda».

Queste parole di Ernest Hemingway (1899-1961), raccolte nel piccolo libro-intervista con il giornalista americano George Plimpton Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare (1954), affrontano il tema della ricerca di uno stile in scrittura. A detta di Hemingway, le idiosincrasie dello stile altro non sono che gli inciampi cui l’esplorazione del nuovo va incontro. Le tracce di queste esitazioni si cristallizzano sulla superficie della scrittura e vengono riconosciute come stile.

Rispetto a questo ragionamento, relativo alla scrittura ma applicabile anche ad altri contesti, utile è la correlazione con la metafora che dà titolo al libro citato, usata da Hemingway per rendere conto della relazione fra lavoro preparatorio e opera compiuta. Il “principio dell’iceberg” afferma che il lavoro di indagine, ricerca e approfondimento deve restare nascosto in profondità, sotto l’acqua, offrendo ai destinatari dell’opera solo l’essenziale, quel che deve vedersi in superficie. Che è poi il luogo in cui si depositano le esitazioni dello stile.

Vicine alle considerazioni di Hemingway sono quelle espresse da Andrej Tarkovskij (1932-1986) in Scolpire il tempo (1988):

«Nulla ha meno senso della parola “ricerca” applicata all’opera d’arte».

Secondo il grande regista, la ricerca – cioè la parte sommersa dell’iceberg – non deve essere confusa con ciò che emerge, cioè l’opera in sé. Chi mette in primo piano la ricerca – e qui il bersaglio critico di Tarkovskij è proprio tutta l’arte che si definisce “di ricerca” – denuncia un’incapacità nel dar forma a un’opera compiuta e lascia emergere, non senza una certa dose di vanità, quanto dovrebbe restare sommerso.

[ illustrazione: Ernest Hemingway, foto di Earl Theisen, 1952 ]

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APPRENDIMENTO, CINEMA, CREATIVITÀ, DECISIONE, INNOVAZIONE, LAVORO, STORIE

Essere “cattivi ragazzi” aiuta a diventare buoni manager? L’esempio di François Truffaut

Che I 400 Colpi (1959) di François Truffaut sia uno dei capolavori della storia del cinema è cosa nota. Altrettanto noto è il fatto che il protagonista Antoine Doinel – destinato a “crescere” nei successivi film di Truffaut – sia sotto molti punti di vista un alter ego del regista. Truffaut è effettivamente stato un “cattivo ragazzo”: cresciuto in strada, dedito al furto e alla menzogna, ha anche conosciuto in più occasioni l’esperienza del carcere.

La curiosa tesi presentata da un recente articolo della rivista «Open Culture» è la seguente: se Truffaut fosse cresciuto come un “bravo ragazzo”, probabilmente non sarebbe diventato un regista così eccezionale. L’indole che nel Truffaut ragazzo poteva essere bollata come “ambiguità morale” portava in sé i tratti centrali della grandezza del futuro regista, cioè la tensione a oltrepassare le regole, lavorare ai confini, essere guidato da un’urgenza personale disposta a scendere a pochi compromessi. Il suo stesso portare la cinepresa in strada – atto destinato a diventare cifra stilistica della Nouvelle Vague – può forse dirsi conseguente alla sua esperienza di vita fuori dai canoni tradizionali. In altri termini: una crescita caratterizzata da scarsa omologazione (portata nel caso di Truffaut fino alle sue estreme conseguenze) può condurre – per dirlo in linguaggio aziendale – a una maturità caratterizzata da forti tratti di auto-motivazione e capacità innovativa.

L’analisi di «Open Culture» va oltre, fino a chiamare in causa le competenze di gestione economica mostrate dal regista nel corso della sua carriera. L’indipendenza sempre cercata da Truffaut, nonché la sua precoce scelta di aprire una propria casa di produzione cinematografica, sarebbero frutto di uno spirito imprenditoriale coraggioso, nuovamente riconducibile a un’infanzia in cui la sopravvivenza materiale ed economica era stata messa quotidianamente a rischio. Imparare a vivere alla giornata e ad adattarsi al contesto produrrebbe dunque manager più concreti e audaci anche dal punto di vista della gestione delle risorse e dell’assunzione di rischi.

Tutte tesi interessanti, non facili da mettere alla prova con casistiche reali. Di certo, guardare i film di Truffaut non può che giovare all’apertura mentale di qualsiasi manager.

[ illustrazione: fotogramma dal film Les Quatre Cents Coups di François Truffaut, 1959 ]

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CAMBIAMENTO, LAVORO, LETTERATURA, SOCIETÀ

Disoccupazione e ruolo sociale delle aziende, dal 1959 a oggi

Quel che più colpisce leggendo oggi Donnarumma all’assalto, romanzo scritto da Ottiero Ottieri nel 1959, sono i grandi cambiamenti subiti nel corso del tempo dal fenomeno della disoccupazione, osservato nei suoi elementi scatenanti e nelle conseguenze sociali.

È a valle dell’esperienza di selezionatore del personale presso lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli che Ottieri scrisse questo libro, che risulta colmo della sofferenza dell’autore nell’interpretazione uno scomodo ruolo di cerniera fra impresa e cittadini. Nel romanzo i disoccupati – di cui il rancoroso e violento Donnarumma diventa principale simbolo – recriminano un lavoro che difficilmente potrà loro essere dato, soprattutto per via del cambiamento in corso nelle modalità di organizzazione aziendale, ormai improntate all’automazione e alla specializzazione del manovale. La rabbia proletaria, simbolicamente rivolta contro la schematicità dei test di valutazione “psicotecnici” (su cui ironizzerà anche Ermanno Olmi nel suo Il posto, film del 1961), si innesta sul senso di bisogno di un posto di lavoro che viene percepito,raffrontandosi con un’istituzione aziendale cui si attribuisce un ruolo civile e non solo economico, come dovuto.

Provando a confrontare questa visione della disoccupazione, collocata nell’Italia industriale del boom, con quella dominante oggi nel nostro Paese, emergono differenze molto significative per quel che riguarda l’atteggiamento degli stessi disoccupati. Questi ultimi, soprattutto quando particolarmente giovani, si caratterizzano per una sensazione di frustrazione e rassegnazione che non è in grado di esprimere nessuna forma di protesta nei confronti delle istituzioni organizzative. La sensazione di impotenza che la “crisi sistemica” ha inculcato nei giovani si unisce a un atteggiamento di immobilismo rafforzato dal ruolo di protezione spesso rivestito dalle famiglie. Se a ciò si aggiunge il sentimento di disillusione nei confronti dell’impegno politico (manifestato dall’emergere di nuovi movimenti guidati da “tribuni del popolo”), il quadro dei disoccupati d’oggi risulta completo e non potrebbe essere più distante da quello descritto da Ottieri oltre cinquanta anni fa.

[ illustrazione: fotogramma da La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, 1971 ]

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ANTROPOLOGIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MEDIA, MUSICA, TECNOLOGIA

Il valore creativo delle tecnologie obsolete

Il passaggio da una tecnologia all’altra porta con sé un adattamento a diverse pratiche di pensiero e azione. Abbracciare un nuovo mezzo di espressione e creazione significa anche, implicitamente, abbandonare modalità di pensiero di cui spesso siamo scarsamente consapevoli. Su questa traccia si innestano alcune riflessioni di un recente articolo di William Gibson, autore noto per la fantascienza – su tutte, la sua opera più famosa è Neuromante (1984) – a cui si deve anche uno dei più interessanti contributi di “saggistica varia” degli ultimi anni, cioè Distrust That Particular Flavor (2012).

Spunto di riflessione è per Gibson l’iniziativa che risponde al nome di “The 78 Project”, che recupera il progetto di documentazione musicale “universale” che fu proprio del musicologo e antropologo americano Alan Lomax (1915-2002). Lomax è stato il primo grande etnomusicologo del mondo occidentale. Le sue registrazioni audio, in seguito confluite nell’Archive of American Folk Song della Biblioteca del Congresso, hanno portato alla scoperta di musicisti fondamentali per le radici della musica blues e rock, fra cui per esempio un personaggio circondato da un alone mitico come Leadbelly (1885-1949). Lomax non si limitò all’America, conducendo le sue ricerche anche in Africa, Asia, Europa (e Italia).

L’opera di Lomax è oggi ripresa nello spirito da “The 78 Project”, il cui nome fa riferimento alla tecnica con cui i promotori del progetto stanno affrontando la loro ricerca di musica per il mondo, cioè la cattura di musica tramite un semplice microfono e un registratore “Presto” degli anni ’30 che incide su vinile a 78 giri, storicamente il primo supporto fonografico (subito dopo i “cilindri” di Thomas Edison), introdotto da Emile Berliner nel 1888.

E qui torniamo a Gibson: l’utilizzo di una tecnologia obsoleta come quella del 78 giri è strettamente correlato al recupero di un progetto altrettanto passé. Seguendo il filo del discorso di Gibson, sembrerebbe che la scelta di un particolare mezzo sia centrale per poter anche solo pensare alla costruzione di un dato contenuto. Detto in altri termini: è proprio l’uso del 78 giri a rendere possibile il recupero di una certa modalità di registrazione musicale. Gibson discute anche il caso dell’ampio – per lo meno in America – filone di giovani scrittori che tornano alla vecchia macchina da scrivere, in cerca di un diverso approccio alla scrittura non più disponibile attraverso le tastiere dei computer.

Le considerazioni di Gibson aiutano ad andare oltre i pregiudizi – moda? revival? – che accompagnano oggi il recupero di molte tecnologie (su tutte la fotografia analogica), portando a concentrarsi sull’effettivo valore di interfaccia creativa insito in ogni medium.

[ illustrazione: la modella Nellie Elizabeth “Irish” McCalla ascolta un disco – foto degli anni ’50 ]

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CAMBIAMENTO, CITTÀ, CULTURA, ECONOMIA, LAVORO, LETTERATURA, LIBRI, MANAGEMENT, SOCIETÀ, TEMPO

Da Kansas City a Milano: Bianciardi, Parise e il cambiamento culturale

«Non siamo in America, dove non c’è cultura umanistica che affonda nel passato, e dove il paesaggio e la realtà giornaliera coincidono perfettamente con la cultura americana».

«Essendo il nostro paese molto vecchio permangono in molti suoi abitanti e nonostante il velocissimo processo di integrazione in corso che rende uguale ogni apparenza, alcuni frammenti di “cultura umanistica”: cioè autoctona, locale […]. Essi sono scomparsi completamente nella nuova borghesia imprenditoriale, piccola e grande, specialmente al Nord […], malata di una malattia americana: il pragmatismo».

Così scriveva Goffredo Parise (1929-1986) tra il luglio e l’agosto del 1974, in due articoli pubblicati su una rubrica di corrispondenza con i lettori da lui curata per il «Corriere della Sera» in quegli anni (di cui oggi viene presentata una piccola selezione in Dobbiamo disobbedire, 2013). Qui il tema è quello delle origini culturali e della loro cancellazione da parte del pensiero funzionalista diffuso dalla cultura lavorativa di stampo americano. Dalle parole di Parise emerge il riconoscimento di una cultura “umanistica”, retaggio di un passato agricolo, popolare paesano e cattolico, e insieme la consapevolezza di non poter fare nulla di fronte alla sua scomparsa, causata da quella che, in altri articoli tratti dalla sua rubrica, egli chiama con ineluttabile semplicità la “forza delle cose”.

Il frammento tratto da Parise ne evoca un altro di Luciano Bianciardi (1922-1971), estratto da Il lavoro culturale (1957-1964):

«Kansas City, Kansas City è la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovi».

Kansas City è per Bianciardi la sua Grosseto, percepita dai più giovani – di cui lo scrittore si sente parte – come senza origini, nonostante ci fossero ancora molti accapigliati a cercarle, per esempio indagando la storia degli Etruschi. Per Bianciardi il dialogo è fra Grosseto/Kansas City e Milano, città che rappresenta “il lavoro culturale” e in cui si trova incarnata, tanto nella sostanza quanto nella forma del “linguaggio aziendale”, l’ideologia pragmatista di stampo americano di cui parlerà poi anche Parise. Non a caso, Bianciardi si trasferirà proprio a Milano in cerca di lavoro e riconsidererà con amarezza la sua Kansas City.

Questi due frammenti, scritti in anni diversi da autori coevi, fotografano lo sforzo dell’intellettuale nel dar conto di un momento che, per il nostro Paese, è stato di effettiva svolta e di forzato scontro culturale. Le parole di Bianciardi e Parise testimoniano un cambiamento il cui destino è forse solo oggi possibile vedere nel pieno sviluppo delle sue conseguenze.

[ illustrazione: articolo di «Epoca» del 29 aprile 1962 ]

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CONCETTI, LAVORO, MARKETING, METAFORE, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, UFFICI

La nuova ideologia della “mindfulness”

«If Max Weber were alive today, he would definitely write a second, supplementary, volume to his Protestant Ethic, entitled The Taoist Ethic and the Spirit of Global Capitalism».

Così il filosofo sloveno Slavoj Žižek, a proposito dell’ideologia “new age” che guida la classe dirigente del nuovo capitalismo. A citarlo è, in un articolo per «The New Republic», Evgeny Morozov, esperto di new media bielorussso noto per le sue posizioni avverse al “cyber-ottimismo”.

Morozov si collega alle parole di Žižek per costruire un’argomentazione critica nei confronti della moda della “mindfulness”. Che l’espressione sia tanto diffusa quanto oscura è di fronte agli occhi di tutti, tanto che Morozov la descrive come la nuova “sostenibilità” (senza dubbio una delle categorie più abusate dell’ultimo decennio).

Quanto Morozov nota della mindfulness – interpretata soprattutto come volontà di “disconnessione” – è la viziosità del circolo che da ciò che la origina conduce alle sue soluzioni. L’artificialità degli stimoli in relazione ai quali nasce il bisogno di essere “mindful” corrisponderebbe fin troppo bene all’artificiosità delle risposte messe in atto da chi se ne professa seguace. Non a caso, tanto stimoli quanto risposte hanno origine dallo stesso substrato culturale, cioè quello di Silicon Valley (di qui il rimando a Weber, tramite Žižek). Soprattutto, la nota più debole del movimento della mindfulness sarebbe – secondo Morozov – l’incapacità di superare un approccio individuale “reazionario” per costruire una più autentica emancipazione su base collettiva.

[ illustrazione: uffici di Google a Tel Aviv ]

 

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CONCETTI, LAVORO, PERCEZIONE, SOCIETÀ

In cerca del silenzio, nuova frontiera del business

Se vi è capitato di acquistare, ben disposti al sovrapprezzo, un biglietto di treno che promette “area silenzio”, sapete di cosa si parla. Lo sapete anche se siete acquirenti di automobili ed elettrodomestici “silenziosi” o cuffie “noise-canceller” (comprate magari per contrastare gli effetti di un open-space lavorativo). Nonostante John Cage abbia dimostrato in tempi non sospetti che il silenzio non esiste, il business che riguarda la sua ricerca pare essere molto concreto. Un recente articolo della rivista «The New Republic» ne segue le tracce.

La ricerca del silenzio trae origine, più che dalla percezione di crescenti disturbi sonori in termini di decibel (per la cronaca, le città italiane più rumorose del 2013 risultano Roma, Milano, Genova e Napoli), da una brama di “assenze” intese come sinonimo di purezza e riconquistata originarietà. I vari slogan del “senza tossine/grassi/conservanti/eccipienti/”, fino al classico “senza zucchero”, paiono  rispondere a una simile ricerca di sottrazione. Tornando sul piano sonoro, secondo lo studioso Jonathan Sterne, autore del testo The Audible Past: Cultural Origins of Sound Reproduction (2003), il silenzio sarebbe diventato una metafora particolarmente calzante per la ricerca di una condizione utopica e irraggiungibile, agognata in reazione al cosiddetto rumore di fondo (in certi casi letterale, ma soprattutto simbolico) della quotidianità.

[ illustrazione: fotogramma dal film The Artist di Michel Hazanavicius, 2011 ]

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ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, MANAGEMENT

L’Arsenale di Venezia, culla industriale e manageriale

L’Arsenale di Venezia, oggi familiare soprattutto per gli spazi espositivi che presta alla Biennale, era nel Cinquecento un complesso industriale che dava lavoro fino a 5000 persone. Come nota lo studioso di management Giorgio Brunetti in Artigiani, visionari e manager. Dai mercanti veneziani alla crisi finanziaria (2012), l’Arsenale può essere definito come il primo grande insediamento industriale occidentale dell’età moderna.

La produzione delle galere, pur senza mai giungere a una vera standardizzazione – e dunque continuando ad aderire a un’impostazione artigianale – , offrì occasione per sperimentare diverse modalità di lavoro, organizzazione e rendicontazione. Analizzando i libri contabili del lavoro navale è possibile rinvenirvi una suddivisione per attività e fasi di produzione che racchiude un in sé una prima messa a punto del concetto di costo di produzione.

Quanto alla prospettiva gestionale, i resoconti legati alle problematiche quotidiane del lavoro in Arsenale non affrontavano solamente tematiche pratiche. Giungevano anche a discutere di strutture organizzative, relazioni fra capi e subordinati, disciplina dei rapporti del lavoro. L’attenzione per questi temi mostra che Venezia era fin dal Cinquecento all’avanguardia rispetto ai temi del “maneggio”, destinati a essere codificati anche in Italia come “manageriali” (ma a non prima di quatto secoli di distanza).

[ illustrazione: proiezione iconografica dell’Arsenale di Venezia realizzata da Gian Maria Maffioletti, 1797 – particolare ]

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