ANTROPOLOGIA, FOTOGRAFIA, LAVORO, MANAGEMENT, PERCEZIONE

Turista, lavoratore, fotografo: da Sontag a Taleb

«Quasi tutti i turisti si sentono costretti a mettere la macchina fotografica tra sé stessi e tutto ciò che di notevole incontrano. Malsicuri delle altre reazioni, fanno una fotografia. Questo dà una forma all’esperienza: ci si ferma, si scatta una foto, si riprende il cammino. È un metodo che garba soprattutto ai popoli handicappati da una spietata etica del lavoro, come i tedeschi, i giapponesi e gli americani. Adoperare una macchina fotografica allevia l’angoscia che l’ossessionato dal lavoro prova non lavorando, quando è in vacanza e dovrebbe teoricamente divertirsi. Può comunque fare qualcosa che è come una simpatica imitazione del lavoro: può sempre fotografare».

Così scriveva Susan Sontag (1933-2004) nel 1977, nel suo celebre Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. A distanza di oltre 35 anni, viviamo in un’epoca in cui il fatto che la gran parte delle nostre esperienze sia mediata da immagini è quasi scontato. Tutto ciò è spesso vissuto con una certa dose di compiaciuta rassegnazione, ben rappresentata dal successo di app come Instagram.

L’atteggiamento del turista è oggi esteso a ogni momento della vita quotidiana, dando vita a quella che alcuni chiamano touristification. Quest’ultima è un’espressione coniata da Nassim Taleb, la cui più recente opera si intitola Antifragile. Prosperare nel disordine (2012). Qui Taleb parla dell’atteggiamento del turista assimilandolo a una condotta sistematicamente tesa alla riduzione dell’incertezza e della casualità quotidiana. Fin troppo facile risulta accostare questa indole a una logica di efficienza e “risk management” del tutto aziendale.

Come contraltare alla touristification, l’estensione della condotta lavorativa a quello che un tempo si soleva chiamare loisir dà vita a un tempo sociale sempre meno distinto da quello produttivo. Il fotografo-turista-lavoratore è dunque una figura antropologica che descrive piuttosto bene la contemporaneità.

[ illustrazione: foto di Martin Parr tratta dal progetto Small World, 1996 ]

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CINEMA, LAVORO, LETTERATURA, SCRITTURA

Lo stile e la ricerca secondo Hemingway e Tarkovskij

«Secondo me, però, quello che talvolta si definisce “stile” spesso non sono altro che le esitazioni di chi si è cimentato con un qualcosa che non era mai stato fatto prima. I nuovi classici non assomigliano mai ai classici dei periodi precedenti. E all’inizio, l’unica cosa che la gente nota, non essendo in grado di accorgersi di nient’altro, sono quelle esitazioni. Così quando si comincia a pensare che le esitazioni siano un nuovo stile, una marea di persone si mette a imitarlo. È davvero una brutta faccenda».

Queste parole di Ernest Hemingway (1899-1961), raccolte nel piccolo libro-intervista con il giornalista americano George Plimpton Il principio dell’iceberg. Intervista sull’arte di scrivere e narrare (1954), affrontano il tema della ricerca di uno stile in scrittura. A detta di Hemingway, le idiosincrasie dello stile altro non sono che gli inciampi cui l’esplorazione del nuovo va incontro. Le tracce di queste esitazioni si cristallizzano sulla superficie della scrittura e vengono riconosciute come stile.

Rispetto a questo ragionamento, relativo alla scrittura ma applicabile anche ad altri contesti, utile è la correlazione con la metafora che dà titolo al libro citato, usata da Hemingway per rendere conto della relazione fra lavoro preparatorio e opera compiuta. Il “principio dell’iceberg” afferma che il lavoro di indagine, ricerca e approfondimento deve restare nascosto in profondità, sotto l’acqua, offrendo ai destinatari dell’opera solo l’essenziale, quel che deve vedersi in superficie. Che è poi il luogo in cui si depositano le esitazioni dello stile.

Vicine alle considerazioni di Hemingway sono quelle espresse da Andrej Tarkovskij (1932-1986) in Scolpire il tempo (1988):

«Nulla ha meno senso della parola “ricerca” applicata all’opera d’arte».

Secondo il grande regista, la ricerca – cioè la parte sommersa dell’iceberg – non deve essere confusa con ciò che emerge, cioè l’opera in sé. Chi mette in primo piano la ricerca – e qui il bersaglio critico di Tarkovskij è proprio tutta l’arte che si definisce “di ricerca” – denuncia un’incapacità nel dar forma a un’opera compiuta e lascia emergere, non senza una certa dose di vanità, quanto dovrebbe restare sommerso.

[ illustrazione: Ernest Hemingway, foto di Earl Theisen, 1952 ]

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