DIVULGAZIONE, MUSICA, SCIENZA, STORIE, TECNOLOGIA

Una storia d’amore galattica

Nell’agosto del 1977 la NASA ha lanciato nello spazio le due sonde Voyager I e II, indirizzate su una rotta che le ha fatte transitare per Giove, Saturno, Urano e, raggiunto nel 1989, Nettuno. Le due sonde sono in seguito entrate nello spazio interstellare e continuano a essere in funzione. In particolare, il Voyager I è oggi l’oggetto costruito dall’uomo più lontano dalla Terra, a una distanza stimata a marzo 2014 di circa 19 miliardi di chilometri dal Sole.

Ciascuna delle due sonde porta con sé un messaggio rivolto dalla Terra (per la precisione dalla NASA) a forme di vita di altri pianeti. Il messaggio è stato confezionato utilizzando la tecnologia reputata più affidabile e duratura, cioè un’incisione fonografica. Il cosiddetto “golden record” è un disco di rame placcato d’oro inciso a 16 e 2/3 giri al minuto che contiene 118 fotografie, 90 minuti di musica (fra cui la Quinta Sinfonia di Beethoven, Johnny B. Goode di Chuck Berry e non, nonostante le intenzioni iniziali e per problemi di diritti, Here Comes the Sun dei Beatles), saluti incisi in 55 lingue (compresa quella delle balene), un saggio audio con suono di molteplici attività umane, il saluto dell’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite e infine l’encefalogramma di una giovane donna.

Il team che realizzò l’incisione fu guidato da Carl Sagan (1934-1996), astronomo e divulgatore scientifico già noto per aver messo a punto la placca visiva apposta sulle sonde Pioneer (lanciate nel 1972 e 1973). Quando fu deciso di inserire nel “golden record” la registrazione di un encefalogramma umano, si decise che la persona scelta avrebbe dovuto ripercorrere nella propria mente un itinerario storico di persone, avvenimenti e idee da tramandare. Venne preparato un copione e si decise che a “interpretarlo” sarebbe stata, il 3 giugno del 1977, Ann Druyan, direttore creativo del progetto e membro più giovane del team. La notte del primo giugno Sagan e Druyan si sentirono per telefono e qualcosa di inaspettato accadde. I due, fino a quel momento semplicemente colleghi e poco più che conoscenti, si dichiararono il loro amore e decisero di sposarsi. La promessa mise in discussione le vite sentimentali di entrambi (e in particolare portò Sagan al divorzio) ma venne realizzata e mantenuta viva fino alla scomparsa di Sagan.

La registrazione del 3 giugno 1977, a oggi nello spazio interstellare, contiene dunque l’encefalogramma di una giovane donna apparentemente impegnata a leggere contenuti culturali e filosofici, ma segretamente concentrata sul suo neonato amore.

[ illustrazione: installazione del “golden record” a bordo della sonda Voyager I, 1977 ]

ANTROPOLOGIA, CAMBIAMENTO, CULTURA, ECONOMIA, MOBILITÀ, TECNOLOGIA

Perché ai giovani non interessano più le automobili?

Il possesso di un’automobile ha rappresentato per più generazioni – su tutte quella dei baby boomers – una promessa di emancipazione e libertà. Per i giovani di tutto il mondo, lo status symbol dell’auto ha avuto per lungo tempo pochi rivali rispetto ad altri beni di consumo. Oggi le cose sembrano cambiare: il numero di auto intestate a giovani sotto i 35 anni è calato dal 2007 a oggi del 30%. Dato ancora più rilevante: meno della metà degli individui in età da patente si iscrive alla scuola guida entro i 18 anni, dimostrando di non avere troppa fretta di mettersi al volante. Come spiegare questo mutamento?

Un articolo della rivista «Fast Company» indaga le ragioni di un rivolgimento sociale che pare destinato a diventare sempre più significativo, aggravando la più generale stagnazione del mercato dell’automobile. Il primo fronte di analizzare è quello economico: che la diminuzione di giovani al volante sia da correlarsi ai tempi di crisi? Sembrerebbe non essere così: secondo le stime di «Fast Company», il possesso e l’utilizzo di uno smartphone (compresi i canoni mensili di traffico telefonico e dati) produce costi paragonabili a quelli di un leasing mensile per un’auto di livello medio-economico come una Honda Civic.

In tema di smartphone, è da anni ormai palese che il nuovo status symbol dei giovani di tutto il mondo è proprio il telefono cellulare, accompagnato da altri gadget tecnologici fra cui computer, tablet, videogiochi. La pista da seguire per comprendere il disinteresse verso l’auto sarebbe dunque questa: laddove lo smartphone viene visto come un possesso personale irrinunciabile e del tutto privato, i giovani si mostrano più che ben disposti a condividere un mezzo di trasporto con gli amici, il che congiura positivamente a favore di una mobilità più consapevole. D’altro canto, le logiche dello spostamento e dell’incontro sono in mutazione. L’incontro on-line è non solo un surrogato, ma sempre più spesso un sostituto di quello in presenza e la distanza dell’on-line è lo spazio in cui prendono forma l’identità individuale e le opportunità di confronto intersoggettivo. I bisogni di emancipazione e libertà della generazione Y sembrano dunque farsi molto più individualizzati e virtuali di quelli delle generazioni precedenti. Il che sembra sufficiente a spiegare perché le auto stanno cedendo il posto agli smartphone.

[ illustrazione: fotogramma dal film Dazed and Confused di Richard Linklater, 1993 ]

BIGDATA, IRONIA, LETTERATURA, LIBRI, TECNOLOGIA

La lettura digitale e le vicine/lontane sorti di Italo Svevo e Steve Jobs

Difficile immaginare personaggi meno compatibili di Italo Svevo (1861-1928) e Steve Jobs (1955-2011). A differenziarli sono il tempo e il luogo in cui hanno vissuto, la professione, il ruolo sociale. Ad avvicinarli sono oggi, inaspettatamente, i dati di lettura raccolti in Italia da Amazon: sui dispositivi Kindle i due libri maggiormente “sottolineati” sono La coscienza di Zeno (1923) e Steve Jobs di Walter Isaacson (2011).

Le citazioni più estratte da Svevo sono queste:

«È un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente».
«Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz’obiezioni, il destino».
«È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta — raramente — non si può fare a meno».

Quelle tratte dal libro di Isaacson le seguenti:

«Gli insegnai che, se si agisce come se si fosse in grado di fare qualcosa, quel qualcosa si realizza. Gli dissi: fa’ finta di avere il controllo assoluto della situazione e la gente penserà che tu ce l’abbia davvero».
«Ripeteva che non bisogna mai fondare un’azienda con l’obiettivo di diventare ricchi. L’obiettivo dev’essere produrre qualcosa in cui si crede e creare un’industria che duri nel tempo».
«Siccome non sapevo che non si poteva fare, mi sentivo in grado di farlo».

Se l’accostamento tra i due personaggi è già di per sé curioso, giustapporre le citazioni tratte dai libri dà vita a un bizzarro mash-up in cui profonde riflessioni sul destino dell’uomo si mescolando a spunti motivazionali di stampo aziendale. E viene da chiedersi: Svevo sta in cima alla classifica solo perché è scaricabile gratuitamente o perché in fondo gli italiani, pur leggendo poco, leggono bene? E con Isaacson come la mettiamo? E ancora: saranno in molti ad avere entrambi i libri sul Kindle? Al di là del piacere di gusto “pop” del trovare accostati mondi così lontani, interpretare i dati di Amazon è praticamente impossibile. Il futuro degli studi sulla “letteratura digitale” è destinato a essere caratterizzato molto più da curiose casualità che dalla possibilità di indagini critiche.

[ illustrazione: Henri Matisse, Natura morta con libri e candela, 1890 ]

ARTE, LETTERATURA, POLITICA, SOCIETÀ

La letteratura come insurrezione: Max Frisch e il Quadrato Nero di Malevič

Nella seconda di due lezioni sulla letteratura tenute nel novembre 1981 presso il City College di New York, Max Frisch racconta di un ambasciatore straniero in visita al museo dell’Ermitage. L’ambasciatore si mostra curioso di poter vedere un’opera nascosta negli archivi del museo, negata al pubblico perché considerata socialmente pericolosa. L’opera in questione è il Quadrato Nero di Kazimir Malevič, tela del 1915 che costituisce l’esempio forse più noto dell’arte suprematista, descritta dal pittore in questi termini:

«Questo disegno avrà una importanza enorme per la pittura. Rappresenta un quadrato nero, l’embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente».

La richiesta dell’ambasciatore viene esaudita e la sua reazione è uno sbigottito “tutto qui?”. Che bisogno c’è di tenere nascosta un’opera che, a ben vedere, il popolo non degnerebbe di uno sguardo? La risposta che l’ambasciatore riceve è la seguente: è vero, il popolo non riuscirebbe a capire il senso del quadrato nero, ma tramite esso vedrebbe che oltre alla società e allo Stato esiste altro. In questo “esiste altro” c’è il senso della letteratura per Frisch, la missione di un’arte che possa contrapporsi al potere.

Quello di Frisch è un discorso politico interamente incentrato sul ruolo della parola e della scrittura: il potere impone una lingua che informa e determina la percezione di sé e il racconto. È la lingua che impariamo a scuola, fatta di luoghi comuni, frasi fatte e stereotipi tarati sugli interessi della classe dominante. Il mestiere di chi scrive è quello di liberare sé e i propri lettori da questa egemonia, andando in cerca di una lingua più autentica, che possa avvicinarsi all’esperienza. Questo è il valore della letteratura come “quadrato nero”:

«Accade che la sua lingua mi liberi […]. Può darsi che inizialmente mi riduca al silenzio, giacché scopro grazie alla letteratura che quelle con le quali convivo sono tutte frasi fatte. E questo significa che non vivo me stesso. [La letteratura] mi sfida. Per dirla in breve: mi fa insorgere. Se questo non succede, leggere è superfluo».

[ illustrazione: Kazimir Malevič, Quadrato Nero, 1915 ]

ARTE, CINEMA, FOTOGRAFIA, TEMPO

La luce del ricordo nelle fotografie di Andrej Tarkovskij

Quello della continuità, a fronte di variazioni di forma e mezzo, è un risultato difficile da perseguire per qualsiasi artista. Le istantanee di Andrej Tarkovskij (1932-1986) raccolte nel libro fotografico Luce istantanea (2002) riescono in questo difficile compito, restituendo sensazioni visive assai vicine a quelle trasmesse dal grande regista in film come Lo Specchio (1975) o Stalker (1979).

Verso la fine degli anni ’70 Tarkovskij “scoprì” la Polaroid, realizzando molte immagini durante i suoi spostamenti tra Russia e Italia. La “luce istantanea” di uno strumento fotografico semplice è messa al servizio di un’attenzione che si volge a piccoli frammenti domestici o a spazi naturali carichi di placida trascendenza. In tutte le immagini prevale la riflessione personale impressa dal regista sulla pellicola, attraverso un senso dell’esperienza che, come notato dal fotografo Giovanni Chiaramonte in un commento alla raccolta, si fa ricordo.

Queste immagini sembrano accompagnare la profonda indagine di Tarkovskij sul senso del tempo, tema centrale della sua produzione cinematografica oltre che delle più esplicite riflessioni del saggio Scolpire il tempo (1988). In relazione alle note contenute in questo testo riguardo al ruolo dell’arte per la conoscenza e più in generale a un’esperienza autenticamente fenomenologica del mondo, il senso delle Polaroid di Tarkovskij pare interamente catturato da questo pensiero:

«Naturalmente l’uomo si avvale di tutto il patrimonio di conoscenze accumulato dall’umanità, ma tuttavia l’esperienza di autoconoscenza morale, etica, costituisce l’unico scopo della vita di ciascuno e soggettivamente viene vissuta ogni volta come un’esperienza totalmente nuova».

[ illustrazione: Andrej Tarkovskij, Mjasnoe, 1980 ]

ARTE, INNOVAZIONE, JAZZ, MUSICA, SOCIETÀ, STORIE

Il rito della primavera: da Stravinskij a The Bad Plus, passando per Walt Disney

The Bad Plus è un ensemble americano che nel corso degli anni si è imposto come una delle più interessanti declinazioni contemporanee della classica formazione jazz del piano-trio, ideale erede – insieme al gruppo guidato dal pianista Brad Mehldau – dei celebri trio di Bill Evans e Keith Jarrett. Una delle caratteristiche che hanno portato The Bad Plus alla notorietà è la capacità di rileggere in chiave jazz alcuni “standard” della musica pop e rock originariamente composti da band e artisti come Nirvana, Pixies, Pink Floyd, David Bowie, Black Sabbath. Nel marzo 2014 è uscito il loro The Rite of Spring, quasi in coincidenza con l’equinozio di primavera e in esatto ritardo di un anno rispetto al centenario de Le Sacre du printemps, il celebre concerto per balletto e orchestra composto da Igor Stravinskij (1882-1971) e andato in scena per la prima volta il 29 maggio 1913 a Parigi, presso l’allora appena inaugurato teatro degli Champs-Élysées. Cimentarsi con il materiale di Stravinskij è per The Bad Plus una prova del tutto nuova, che la band riesce ad affrontare con successo, mantenendo la propria identità e senza cadere nella banale trappola di una “versione jazz” di Stravinskij.

Le musiche di quella che in italiano è stata malamente tradotta come La sagra della primavera rappresentano uno dei materiali più importati e rivoluzionari della musica novecentesca. Stravinskij fu capace di innovare con questa partitura su più fronti: tanto sulla tonalità, quanto sul metro; tanto sulla dissonanza, quanto sul ritmo. La forza dirompente delle musiche di Stravinskij è pienamente dimostrata dai resoconti d’epoca, che narrano di un ormai “mitologico” tumulto – oggi irripetibile, dato il cambiamento dei costumi musicali e più in generale culturali – scoppiato tra le mura del teatro degli Champs-Élysées nella notte del 29 maggio 1913. Per la verità, critiche violente continuarono a presentarsi anche nelle successive repliche – a partire dalla seconda, cui presenziò un indignato Giacomo Puccini – e nelle messe in scena in altre nazioni.

Le Sacre du printemps arrivò negli Stati Uniti solo nel 1930, finalmemente accompagnato da un clima di maggiore comprensione dell’opera. Fra i suoi ascoltatori più entusiasti spiccò Walt Disney (1901-1966), che decise di utilizzare buona parte del concerto per il proprio film Fantasia (1940), interamente basato sull’interazione fra animazione e musica sinfonica. La parte di Fantasia che utilizza Le Sacre du printemps è quella che narra l’origine della Terra, dalla comparsa delle prime forme viventi fino all’estinzione dei dinosauri. Come ben argomentato da un articolo del «Washington Post», la versione filmica di Disney ha reso molta più giustizia a Le Sacre du printemps di quanto siano riuscite a fare nel corso del tempo moltissime coreografie di balletto, dalla prima, deludente, di Vaslav Nijinsky, fino a quella altamente controversa messa in scena da Pina Bausch nel 1975. Le musiche di Stravinskij, che narrano di un rito pagano che risale alle origini della civiltà, si sposano perfettamente con la danza delle forze naturali messa in scena da Disney. Guardare il brano di Fantasia, farlo seguire da un ascolto della reinterpretazione di The Bad Plus – e poi concludere con una più tradizionale interpretazione come quella diretta dal finlandese Esa-Pekka Salonen – è il miglior modo per celebrare i cento anni di una composizione fondamentale per la storia della musica occidentale.

[ illustrazione: caricatura di Jean Cocteau che rappresenta Igor Stravinsky intento a suonare la Sagra della Primavera, 1913 ]

GIOCO, INNOVAZIONE, MARKETING, MEDIA, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

Flappy Bird e il successo al tempo delle app

Flappy Bird è una app per smartphone lanciata nel maggio 2013 da un 29enne sviluppatore vietnamita di nome Dong Nguyen. L’app in questione è un videogioco la cui banalità va di pari passo con la capacità di generare frustrazione e dipendenza. Nonché di diventare il videogioco più scaricato su smartphone, in grado di fruttare al suo creatore – nonostante la gratuità dell’app – ben $50.000 al giorno in pubblicità. Più di un sospetto è stato generato dalla velocità con cui il gioco, unanimemente valutato dagli addetti ai lavori come mediocre (nonché copia carbone di una simile app del 2011), è diventato popolare.

Un articolo tratto dal blog Eurogamer ricostruisce con cura la parabola del successo di Flappy Bird, soffermandosi sul probabile ruolo cruciale svolto in essa da “bot” e utenti “comprati” per effettuare scaricamenti e lasciare commenti positivi. Valutare quanto spregiudicata possa essere stata l’opera di promozione dell’app è in ogni caso difficile. Di certo, per usare le parole dell’articolo (che si rifà a sua volta a uno scritto dell’Independent):

«Flappy Bird è diventato il Gangnam Style dei giochi mobile: una roba talmente brutta e incomprensibile da diventare rapidamente divertente e virale».

Il paragone rende l’idea della “cifra stilistica” del videogame, il cui successo potrebbe dunque essere frutto tanto di scaricamenti comprati quanto del basso livello critico dell’utente di videogiochi medio. O più realisticamente della combinazione dei due fenomeni, il che rappresenta un duro colpo per un’accoppiata ben più classica e ortodossa, quella cioè fra creatività e meritocrazia. Lo lezione è dura da accettare: Flappy Bird mostra che nel mondo delle app, più in generale in quello dell’innovazione di prodotto, i valori tradizionalmente messi al centro dell’idea di progetto – spesso anche con una certa retorica – sono cosa passata, buona per idealisti, nostalgici o teorici ma non per chi intenda davvero raggiungere il successo.

L’epilogo della vicenda è stato decretato dallo stesso Dong Nguyen, il quale ha deciso in data 09.02.2014 di ritirare il gioco dai vari app store. Nel suo account Twitter si dichiara provato dal troppo successo e preoccupato per la dipendenza generata dall’app in moltissimi giocatori. Questo esito rende ancora più curiosa la vicenda, che assume il tono di apologo morale: che Nguyen abbia messo in piedi l’intero progetto per impartire un paio di lezioni sulle moderne tecniche di marketing e sulla sociologia dei consumi? A proposito: ora che la app non è più scaricabile, su ebay c’è perfino chi vende, fra il serio e il faceto, il proprio smartphone con Flappy Bird installato.

[ illustrazione: screenshot tratti dalla app Flappy Bird ]

APPRENDIMENTO, ARTE, SCIENZA, TECNOLOGIA

Ruysch, artista della morte

L’olandese Frederick Ruysch (1638-1731) è noto come botanico e anatomista e il suo nome è in particolare legato all’avanzamento delle tecniche di conservazione dei corpi. Un articolo di «Public Domain Review» ne evidenzia il valore di “artista della morte”.

Le avanzate tecniche di preservazione messe a punto da Ruysch gli permisero di realizzare per la prima volta nella storia un’esibizione di reperti che riusciva a soddisfare il bisogno di conoscenza di medici e anatomisti e, al tempo stesso, a presentare al grande pubblico una vera e propria “mostra” destinata a divenire un’inedtia attrattiva.

Quanto Ruysch era capace di mostrare andava ben oltre la semplice evidenza anatomica. La presentazione della morte veniva messa in prospettiva attraverso artifici – non privi di un peculiare senso dell’umorismo – finalizzati a rendere simbolico il senso di quanto esposto. Basti dire che in una delle sue composizioni uno scheletro affermava: “anche dopo la morte sono ancora attraente!”. Lo spirito di Ruysch è radicato in una tradizione di indagine anatomica che trova un antecedente in Vesalio (1514-1564) e un distante ma assai diretto successore, anche se ormai svincolato da interessi conoscitivi e prettamente orientato allo spettacolo, nel tedesco Gunther von Hagens.

[ illustrazione: La lezione di anatomia del Dott. F. Ruysch di Adriaen Backer (1670), Amsterdams Historisch Museum ]

ARCHITETTURA, BENI CULTURALI, CITTÀ, COLORI, FOTOGRAFIA

La forma della città in Joel Meyerowitz

Nel 1978 Joel Meyerowitz realizza una serie di immagini dedicate a New York. Quella riprodotta qui sopra è intitolata Young Dancer, 34th Street and 9th Ave.

Cosa rappresenta questa fotografia? In primo piano è la “young dancer” del titolo, in attesa di qualcosa, lo sguardo che punta fuori dal fotogramma. Alle sua spalle un negozio, probabilmente una drogheria. Banane in primo piano e l’ombra di una persona che si muove all’interno. All’incrocio fra le due strade, un ambiente apparentemente deserto ma a ben vedere popolato da almeno due sagome in movimento, probabilmente uomini di passaggio. E poi una donna, vestita di un verde non lontano da quello dell’abito della ballerina. Con lei uno, o forse più bambini. Il verde torna anche in un’auto parcheggiata al bordo della carreggiata. È mattina presto, la luce scalda dolcemente gli edifici in primo piano e si riflette in modo abbagliante sui palazzi nello sfondo. Un sole che sorge appare nel semplice disegno dell’edificio in primo piano.

E poi c’è l’Empire State Building. A prima vista presenza di sfondo, a ben vedere vero protagonista della foto (nonostante il titolo). La ragazza sta sulla soglia dell’immagine, una presenza transitoria che punta fuori. Al contrario, l’Empire State Building si staglia nella sua solidità e permanenza. Fornisce un punto di riferimento. E Meyerowitz – che qui lavora con un banco ottico e non con l’abituale 35mm – costruisce con cura un’inquadratura che lo valorizza e lo incornicia.

Questa fotografia fa parte, è il caso di rivelarlo, di una serie dedicata da Meyerowitz non semplicemente a New York, ma proprio all’Empire State Building. Nell’intera raccolta di immagini l’edificio è a tutti gli effetti un riferimento, un simbolo che guida l’orientamento dello sguardo sulla città. Evidentemente non un riferimento a caso. Proposto – ma bocciato – come una delle sette meraviglie del mondo, con maggior modestia l’edificio più alto della città fra il 1931 e il 1973 e poi ancora tra il 2001 e il 2012. In mezzo, ovviamente, le Twin Towers (e ora la Freedom Tower). Perfino aggredito da King Kong nel film del 1933 e colpito da un B-25 nella realtà del 1945.

Attraverso un simbolo indiscusso della città Meyerowitz riesce a disegnarne la forma, raccontando la quotidianità e mettendola a confronto con la permanenza. Fornendo un grande saggio di fotografia di strada.

[ illustrazione: Joel Meyerowitz, Young Dancer, 34th Street and 9th Ave., 1978 ]

BIGDATA, LETTERATURA, LIBRI, MARKETING, TECNOLOGIA

I big data non svelano il libro perfetto, solo il lettore imperfetto

Far uso di un dispositivo e-book significa, in modo più o meno consapevole, acconsentire al fatto che il gestore del servizio possa raccogliere – senza fatica e a titolo gratuito – un certo numero di dati relativi all’esperienza di lettura. Parliamo di preferenze di scelta, tempi di fruizione, brani evidenziati perché interessanti: avere a disposizione dati di questa natura rappresenta per autori e case editrici un’inedita opportunità per produrre testi che rispondano esattamente alle preferenze dei lettori. La via per il libro perfetto sembra dunque tracciata, e se è innegabile che pensare di percorrerla evoca una disposizione etica che si avvicina a quella di chi propaganda neonati perfetti coltivati in vitro, va da sé che sono già in molti a paventarne le peggiori conseguenze.

Un recente articolo del New Yorker cerca di portare la questione su binari interpretativi meno assolutistici. Anzitutto, poiché si è sempre inteso scrivere per qualcuno, cercare di intercettare i gusti del proprio pubblico non è certo cosa nuova. Le tecnologie digitali, dunque, possono solo rendere la raccolta dati più semplice. Ma quanto significativa? Rispondere a questa domanda non è facile. Per esempio: i dati di diversi store e-book indicano che solo l’1% dei lettori conclude la lettura del classico romanzo di Jane Austen Orgoglio e pregiudizio (1813). Peccato che non sappiano spiegare perché. Questo deficit conoscitivo – tipico dell’era big data – certo non favorisce la creazione in vitro del “libro perfetto” di cui sopra.

La raccolta di precisi e freddi dati di lettura, lungi dall’illuminare sul futuro della scrittura e della narrazione, rischia di servire solo a smascherare la verità celata dietro a tante letture millantate ma mai compiute. Il che ci fa sentire tutti un po’ in colpa. A questo proposito, a chi come il sottoscritto non è mai riuscito a finire – fra gli altri – Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace, consiglio di dare un’occhiata a un libro dal titolo più che azzeccato: Come parlare di un libro senza averlo mai letto (2009) di Pierre Bayard.

[ illustrazione: Woman reading, National Media Museum – Kodak Gallery Collection, circa 1890 ]