Un’intensa e tristissima storia d’amore; un’acuminata quanto ironica critica della società: questo è La schiuma dei giorni (1946) di Boris Vian. Alcune delle più riuscite riflessioni sociologiche offerte da questo romanzo sono quelle rivolte al mondo del lavoro. Se già nelle righe poste in esergo al testo Vian nota come le uniche due cose che davvero contano nella vita siano l’amore e la musica (jazz, fondamentalmente) e non certo il lavoro, le peripezie del protagonista Colin prendono le mosse dal totale rifiuto del lavoro e culminano con la sofferta scelta di affrontarlo per poter prestare le dovute cure all’amata Chloe, afflitta da una rara malattia.

In un dialogo contenuto nella prima parte del testo, Vian fa dire a Colin quanto segue:

«Non è colpa loro. Tutto dipende dal fatto che gli hanno detto: “Il lavoro è sacro, è bello, è buono, è la cosa più importante, e solo chi lavora ha tutti i diritti”. Poi però si fa il possibile per farli lavorare continuamente, così che loro non hanno il tempo di far valere i propri diritti».

A questa pessimistica lettura della consapevolezza del lavoratore medio (e del ruolo paternalistico e coercitivo del sistema lavorativo nel suo complesso) fa eco la parabola di un altro personaggio del libro, Chic. Questi è ingegnere, lavora svogliatamente in una fabbrica da cui verrà cacciato a causa di una divorante passione per gli scritti del letterato Jean-Sol Partre (esplicita moquerie del culto che all’epoca del libro circondava il filosofo Jean-Paul Sartre). Il cieco fanatismo che porta Chic ad acquistare ogni produzione di Partre è metafora della deriva consumistica della cultura che Vian mette sotto accusa con grande anticipo rispetto alla pubblicazione di opere “serie” come La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture (1970) del sociologo Jean Baudrillard.

[ illustrazione: fotogramma dal film di Michel Gondry L’ecume des jours (2013) ]