CAMBIAMENTO, CULTURA, FOTOGRAFIA, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, LAVORO, MARKETING, TECNOLOGIA

Polaroid e il brand come patrimonio culturale

Come molte grandi aziende del settore fotografico la cui egemonia si è sviluppata nell’era della pellicola ed è stata messa in discussione dall’avvento del digitale (su tutte: Kodak), anche Polaroid ha trascorso anni difficili. L’azienda ha dichiarato bancarotta nel 2001 e poi ancora nel 2009, anni in cui al suo vertice si sono avvicendati ben sei diversi amministratori delegati. Nel frattempo, l’azienda ha perso praticamente tutti i suoi asset conservandone fondamentalmente uno: il brand.

Grazie alla reputazione del proprio marchio, che ancora oggi comunica al grande pubblico i valori in esso instillati dal suo fondatore Edwin Herbert Land (1909-1991), Polaroid ha potuto stabilire una serie di accordi di licenza che hanno portato il brand ad avvicinarsi a nuovi ambiti di prodotto quali quello dei tablet e delle televisioni. Conservando la memoria affettiva dei tre principi con cui Land aveva fondato nel 1937 l’azienda, e cioè visione, condivisione e convenienza, i prodotti che oggi utilizzano il marchio Polaroid cercano – con discutibile successo – di tenere viva l’immagine di un’azienda che purtroppo non ha saputo innovare in relazione ai cambiamenti del contesto. In qualche maniera, Polaroid ha deciso di puntare sullo sfruttamento del suo patrimonio culturale e di non investire nello sviluppo del nuovo.

Per contrasto, il lavoro di Impossible Project, impresa olandese che nel 2008 ha rilevato da Polaroid i macchinari per la produzione di pellicole istantanee, rappresenta innovazione nella continuità. A fronte del completo arresto della produzione di pellicole per le macchine Polaroid, la domanda di mercato – decisamente significativa in una società prona al senso nostalgico del vintage – ha rischiato di rimanere frustrata. Con grande tempismo, Impossible Project ha rimesso in moto la produzione, costruendo una gamma mai così ampia e variegata di pellicole istantanee che, manco a dirlo, si giovano a loro volta del valore emotivo del brand Polaroid.

[ illustrazione: ritratto di Edwin Herbert Land ]

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APPRENDIMENTO, CONCETTI, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, MARKETING, SOCIETÀ, TECNOLOGIA, TEORIE

I “maker”, il do-it-yourself e la reinterpretazione del prosumer

Uno dei più interessanti aspetti implicati dal movimento dei “maker” rimanda all’antico approccio delle Arts & Crafts e, più in generale, alla centralità del “do it yourself”.

Chris Anderson, uno dei “guru” del movimento e autore del testo Makers. Il ritorno dei produttori (2013), riporta un interessante aneddoto a riguardo:

«When instant cake mixes were introduced in the 1950s as part of a broader trend to simplify the life of the American housewife by minimizing manual labor, housewives were initially resistant: the mixes made cooking too easy, making their labor and skill seem undervalued. As a result, manufacturers changed the recipe to require adding an egg; while there are likely several reasons why this change led to greater subsequent adoption, infusing the task with labor appeared to be a crucial ingredient».

Se saltiamo dagli anni ’50 a oggi, l’approccio dei maker sembra definire una nuova declinazione del concetto di prosumer (coniato da Alvin Toffler nel suo Future Shock nel 1970). Secondo i maker il consumatore può diventare sia producer che consumer grazie all’inedita unione tra accessibilità massima di strumenti di produzione (su tutti le stampanti 3-D e in generale quanto diffuso dalla “internet of things”) e senso di gratificazione legato al “far da sé”. Al di là delle percezioni più retoriche del movimento – che sembra in certi casi voler propagandare l’idea che usare Autocad presenti lo stesso grado di accessibilità di Powerpoint – l’idea di una fruizione personalizzata, unita alle logiche di “just-in-time massimizzato” (pensando per esempio ad aziende come Tesla), indica una strada decisamente interessante per la produzione e la fruizione di beni (e, forse, servizi).

[ illustrazione: antico set di strumenti da carpentiere ]

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BENI CULTURALI, ECONOMIA, INDUSTRIA, INTERNET, LIBRI, MARKETING

Amazon e la tirannia del cliente

En Amazonie (2013) è il reportage del giornalista francese Jean-Baptiste Malet, infiltratosi per tre mesi come interinale nel magazzino Amazon di Montélimar, nel sud della Francia.

Il resoconto di Malet mette in luce tanto il perfetto sistema organizzativo di Amazon, basato sui ruoli di picker (raccoglitori) e packer (imballatori), quanto la sfiancante esistenza degli interinali costretti a turni impossibili cadenzati dall’ideologia aziendale, cioè «Work hard, have fun, make history». Per la maggior parte di loro un posto a tempo indeterminato resta un sogno, nonostante le molte sovvenzioni ricevute da Amazon da parte degli enti locali.

Dal testo emerge la tirannia del cliente che, per Amazon come per molte altre aziende della grande distribuzione, è origine di una corsa all’efficienza apparentemente senza freni. Nel testo di Malet ciò è reso metaforicamente evidente dal confronto con gli enormi scaffali che raccolgono i libri e gli altri prodotti commercializzati dall’azienda di Seattle. Le montagne di “prodotti culturali”, di cui i magazzinieri hanno a malapena il tempo di osservare le copertine, rappresentano un’incredibile summa – mai prima d’ora concentrata in un unico luogo – dello scibile umano e di tutte le sue contraddizioni. Come nota Malet:

«È una cosa rivoluzionaria percorrere le scaffalature di un solo luogo e avere davanti a sé la quasi totalità delle opere che animano la vita intellettuale di un paese. Viene esplorato tutto lo spettro delle idee e delle sensibilità […]. Quali che siano i gusti, i colori, le opinioni, tutto contribuisce, suo malgrado, al fiorente successo di Amazon».

L’eterogeneità e l’indeterminatezza di questa massa di prodotti rappresentano l’esatto opposto di quanto vissuto all’interno di una libreria tradizionale, basata sul fatto che il cliente possa o meno riconoscersi in un gusto e in un orientamento condivisi con il libraio. La spersonalizzazione del libraio – di fatto la sua scomparsa – rappresenta il fattore vincente di Amazon, in grado di rispondere alle esigenze di nessuno e tutti insieme, decretando così la totale egemonia del cliente e la scomparsa, in un settore nonostante tutto ancora connotato dall’aggettivo “culturale” di qualsiasi pretesa di orientamento ed educazione al consumo.

[ Illustrazione: fotografia del magazzino Amazon di Phoenix, Arizona (AP Press) ]

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ECONOMIA, INDUSTRIA, LAVORO, MANAGEMENT

L’Arsenale di Venezia, culla industriale e manageriale

L’Arsenale di Venezia, oggi familiare soprattutto per gli spazi espositivi che presta alla Biennale, era nel Cinquecento un complesso industriale che dava lavoro fino a 5000 persone. Come nota lo studioso di management Giorgio Brunetti in Artigiani, visionari e manager. Dai mercanti veneziani alla crisi finanziaria (2012), l’Arsenale può essere definito come il primo grande insediamento industriale occidentale dell’età moderna.

La produzione delle galere, pur senza mai giungere a una vera standardizzazione – e dunque continuando ad aderire a un’impostazione artigianale – , offrì occasione per sperimentare diverse modalità di lavoro, organizzazione e rendicontazione. Analizzando i libri contabili del lavoro navale è possibile rinvenirvi una suddivisione per attività e fasi di produzione che racchiude un in sé una prima messa a punto del concetto di costo di produzione.

Quanto alla prospettiva gestionale, i resoconti legati alle problematiche quotidiane del lavoro in Arsenale non affrontavano solamente tematiche pratiche. Giungevano anche a discutere di strutture organizzative, relazioni fra capi e subordinati, disciplina dei rapporti del lavoro. L’attenzione per questi temi mostra che Venezia era fin dal Cinquecento all’avanguardia rispetto ai temi del “maneggio”, destinati a essere codificati anche in Italia come “manageriali” (ma a non prima di quatto secoli di distanza).

[ illustrazione: proiezione iconografica dell’Arsenale di Venezia realizzata da Gian Maria Maffioletti, 1797 – particolare ]

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CAMBIAMENTO, CONCETTI, INDUSTRIA, LAVORO, SOCIETÀ, STORIE, UFFICI

Dalle 9 alle 5: brevissima storia delle 8 ore lavorative

La scansione della giornata in tre parti, di 8 ore ciascuna e dedicate rispettivamente a lavoro, svago e riposo, è un’invenzione del socialista utopista Robert Owen (1771-1858), che nel 1817 lanciò in Inghilterra una campagna di rivendicazione dei diritti dei lavoratori basata proprio su questo tipo di organizzazione temporale. L’idea di Owen nacque come reazione agli oppressivi orari di fabbrica imposti dalla rivoluzione industriale, i cui turni di lavoro giornaliero potevano raggiungere anche le 10-18 ore.

L’iniziativa di Owen non ebbe immediata fortuna, ma mise in moto una rivendicazione di diritti che prese corpo in una lunga serie di “factory acts”, cioè atti approvati dal Parlamento britannico e finalizzati alla progressiva riduzione dell’orario lavorativo di uomini, donne e bambini. La lotta per le 8 ore trovò nel 1884 un degno successore nel sindacalista Tom Mann (1856-1941), che con la sua “Eight Hour League” riuscì nell’impresa.

Le rivendicazioni inglesi diffusero la propria eco in tutta Europa e si manifestarono anche oltreoceano. Per la verità, i primi movimenti di protesta negli Stati Uniti nacquero già nel 1791 e il primo maggio del 1886 a Chicago ebbe luogo la prima May Day Parade della storia. La prima azienda americana a instaurare orari giornalieri di otto ore fu nel 1914 Ford Motor Company, che si rese protagonista anche di un inedito raddoppio dei salari degli operai. Pur a fronte dell’innovazione di Ford, solo nel 1937 le otto ore lavorative furono standardizzate in tutti gli Stati Uniti.

Quanto all’Italia, l’ufficializzazione di un orario basato su 8 ore giornaliere e 48 settimanali arrivò nel 1923, con un Decreto del primo governo Mussolini. Il provvedimento italiano fondò le sue radici in una lotta dal basso durata più di un secolo e mezzo, all’interno della quale i moti del 1848 rappresentarono una tappa fondamentale.

[ illustrazione: manifesto con il celebre proclama di Robert Owen ]

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APPRENDIMENTO, CINEMA, COMUNICAZIONE, INDUSTRIA, INNOVAZIONE, SCRITTURA, TECNOLOGIA

Le innovazioni della macchina da scrivere

In tema di tecnologie comunicative, la storia delle innovazioni legate alla macchina da scrivere è fra le più interessanti. Originariamente sviluppatasi in Europa tra il 1830 e il 1870 circa, la macchina da scrivere diede vita a una miriade di sperimentazioni che continuarono a fiorire, anche oltreoceano, fino agli anni ’70 del XX secolo (sostanzialmente, fino all’avvento dei personal computer).

Una delle più curiose “piste” innovative dello sviluppo della macchina da scrivere fu quella legata alla presenza di elementi sferici nel design. Paradigmatica in questo senso fu la “Writing Ball” prodotta dal danese Rasmus Malling-Hansen a partire dal 1870. Sferica nel suo complesso, questa macchina da scrivere fu il primo modello distribuito commercialmente, nonché strumento d’elezione per gli ultimi anni di attività di Friedrich Nietzsche.

A novant’anni di distanza – e in questo caso in America – un elemento di design sferico tornò a comparire nella cosiddetta “golf-ball” del modello IBM Selectric. Commercializzata dal 1961, questa macchina da scrivere presentava, al posto delle classiche “stanghette” individuali per le lettere, un elemento rotatorio in grado di imprimere su carta i caratteri. L’invenzione di questo dispositivo è stata recentemente “romanzata” dal film Tutti pazzi per Rose (2012) di Régis Roinsard, in cui ad avere l’idea è un francese che poi cede a mani americane, notoriamente più scaltre in termini di business, lo sviluppo del progetto.

[ illustrazione: fotogramma dal film Populaire (2012) di Régis Roinsard ]

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ARTE, BIGDATA, INDUSTRIA, TECNOLOGIA, VIDEOGIOCHI

Il valore “mistico” dei big data

I Big Data stanno entrando in moltissimi aspetti della nostra vita. Anche nei videogiochi, nota un articolo della rivista KillScreen, e non con esiti esaltanti. L’output delle nuove applicazioni come Fuseboxx, che monitora e analizza l’esperienza di chi gioca per poter poi offrire nuovi prodotti conformati su quanto raccolto, rischia di assomigliare agli esiti di un bizzarro esperimento condotto a partire dal 1993 da due artisti di nome Vitaly Komar e Alexander Melamid. Questi ultimi condussero in diverse nazioni una ricerca volta a identificare l’opera d’arte visiva “più desiderata”, elaborando un numero molto alto di fattori di preferenza espressi da cittadini. Si cominciò dagli USA, dove l’output – poi realizzato tramite un elaborazione digitale – risultò quanto meno “pittoresco”:

«Most people polled thought that blue was the color they would like to see most in a painting so the painting is mostly blue. Most people wanted natural outdoor scenes featuring bodies of water, so that’s the landscape. Most people wanted to see animals, people and historical figures, so there is a few people, some deer, and George Washington. It’s a terrible painting and a great joke».

Il raffronto tra videogiochi e arte visiva serve a tenere a mente, casomai ce ne fosse bisogno, due certezze relative alla realizzazione di qualsiasi prodotto culturale: il pubblico è sovrano, ma meglio non fidarsi troppo dei suoi gusti (ne parlava già Karel Teige nel 1936 ne Il Mercato dell’arte); l’opera di inventiva e creatività di un progettista (meglio questo termine del troppo connotato “artista”) non è sostituibile da alcun computer o algoritmo, per quanto preciso esso possa essere.

A queste considerazioni la rivista affianca un’osservazione dello studioso di videogiochi italiano Matteo Bittanti:

«The problem, he said, is the almost mystical value we attribute to big data, the illusion that science provides all the answers. He compares it to our ongoing obsession with neural science, brain imagery that can supposedly teach us everything there is to know about human behavior».

La fiducia nei big data è il più delle volte cieca, semplicemente perché essi ci spiegano i “cosa” ma non i “perché” di quel che accade. Il parallelismo con l’ossessione per lo studio delle neuroscienze è molto calzante: il sapere quale area del cervello si attiva quando prendiamo un certo tipo di decisione ci spiega forse perché lo facciamo? Ironicamente, tutto questo ricorda la  storia di Kaspar Hauser, “freak” vissuto a inizio Ottocento e studiato con forzato zelo dalla scienza di allora, impegnata a educarlo e a comprendere i meccanismi biologici legati alla sua devianza. Che rimasero misteriosi anche a fronte dell’autopsia che permise loro di esaminare il suo cervello.

[ illustrazione: Most Wanted Painting, America, elaborazione grafica di Vitaly Komar e Alexander Melamid, 1995 ]

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INDUSTRIA, LAVORO, MARKETING

Marketing all’indiana: da cheap a cool, è una questione di percezione culturale

La Nano è un modello di vettura introdotto sul mercato nel 2009 dall’indiana Tata con un obiettivo molto chiaro: essere l’auto più economica sul mercato. Con un prezzo di circa 2000$, la Nano si è rivolta alla classe media indiana con l’intento di aiutarla a emanciparsi dal caotico – e pericoloso – trasporto su due ruote grazie a un veicolo semplice, sicuro ed economico. Questa strategia austera e low-profile non ha tuttavia sortito gli effetti desiderati.

In base a quanto ricostruito da un articolo del Wall Street Journal, Tata ha investito circa 400 milioni di dollari per progettare la Nano e almeno altri 200 per sostenerne la produzione agli alti ritmi di 20000 unità al mese. A fronte di questo investimento, Tata vende circa 2500 Nano al mese. Il contrasto tra unità prodotte e vendute ha comportato la messa agli atti, a fine 2013, di un -40% di introiti rispetto all’anno precedente. Interessante affiancare a questi dati quelli relativi alla vendita di auto Jaguar (marchio acquisito da Tata nel Regno Unito): nell’agosto 2013 sono state vendute tante Jaguar XF quante Nano. Con una significativa differenza: con un prezzo base di circa 47000$, una XF costa quanto 19 Nano.

Al di là delle cifre, l’aspetto centrale del “flop” della Nano può essere messo in luce abbozzando un’analisi antropologica dei suoi presunti destinatari. Alla middle class indiana non è piaciuto sentirsi rappresentata da un’auto “povera” che costa quanto un tuk tuk e ha un’apparenza a dir poco ordinaria. Le ambizioni di crescita e riconoscimento globale di una classe media che cerca di spiccare un balzo fuori dalla povertà vanno ben oltre.

Tata pare averlo compreso. Oggi il claim che campeggia nel sito web della Nano è “celebrate awesomeness”, slogan che introduce una vettura che raggiunge il costo di 3500$ circa e presenta un make-up del suo esterno e interno, oltre a nuove ruote e a un potente impianto stereo. Tutto questo per rendere l’auto più attrattiva per un pubblico under 35 in cerca di un’affermazione di status. Mutare la percezione del veicolo da “cheap” a “cool” non sarà tuttavia semplice. Come nota con saggezza Ankush Arora, responsabile della gamma dei veicoli per passeggeri Tata:

«Perceptions are hard to change overnight. It’s going to take us a while».

[ illustrazione: Paperino e la sua 313 – © Disney Company ]

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FOTOGRAFIA, INDUSTRIA, MANAGEMENT, TECNOLOGIA

Kodak e Fuji, due casi studio di fronte al cambiamento

Fra i casi business più interessanti degli ultimi anni spicca un confronto, quello fra due “big” dell’industria fotografica: Kodak e Fujifilm.

Nel 1881 l’imprenditore americano George Eastman (1854-1932) fonda a Rochester (stato di New York) la sua azienda produttrice di pellicole fotografiche e nel 1888 lancia il primo apparecchio Kodak (neologismo senza significato che suona bene in tutte le lingue), che viene venduto carico di pellicola e accompagnato dal celebre slogan “you press the button, we do the rest”. Facciamo un salto di qualche anno e spostiamoci dall’altra parte del mondo: nel 1932 nasce a Tokyo Fujifilm Photo Film Co. , inserendosi da subito nel mercato delle pellicole fotografiche per uso domestico e iniziando a produrre fotocamere dal 1948.

Kodak e Fujifilm possono essere considerate aziende competitor a livello paritario (ognuna con le proprie pellicole caratterizzanti e “best seller”) per lo meno fino al 1975. Questa data è estremamente importante per la storia della fotografia perché segna la messa a punto da parte di Kodak, nella persona dell’ingegnere Steven Sasson, della prima macchina fotografica digitale della storia. L’enorme potenziale competitivo offerto dall’invenzione non venne tuttavia capitalizzato a dovere da Kodak, che aspettò il 1991 per mettere sul mercato la gamma DCS di dorsi digitali dedicati ai fotografi professionisti, facendosi battere sul tempo da Sony con la sua Mavica del 1981.

Dagli anni ’90 a oggi, è nel segno del digitale che si è giocato il destino delle principali aziende fotografiche. Nel caso di Kodak, gli esiti sono noti: l’azienda ha dichiarato bancarotta nel corso del 2012 ed è oggi in una difficoltosa fase di rinnovamento. Il suo fallimento è stato causato dall’incapacità di inserirsi a dovere – nonostante l’invenzione del 1975 – nel mercato digitale, di cui non ha mai realmente saputo cogliere le potenzialità. Al caso Kodak si applica molto bene la parabola della “rana bollita”, resa celebre dal guru del pensiero sistemico Peter Senge nel suo La quinta disciplina (1990). L’incapacità dell’azienda di leggere i segnali deboli di un contesto business in lento ma inesorabile cambiamento, unita alla sicurezza conferitale dai successi per lunghissimo tempo ottenuti dal suo core business, ne ha segnato l’inevitabile declino.

Altrettanto interessante – in questo caso in chiave positiva – l’approccio al cambiamento agito da Fujifilm. Anzitutto, l’azienda ha saputo cavalcare l’onda del digitale grazie a una strategia distintiva che l’ha condotta a essere oggi più che competitiva nel settore delle compatte prosumer, giocando sul rapporto tra soluzioni tecnologiche innovative ed estetica retrò. Ancora più significativa è stata la scelta di Fujifilm di convertire asset e tecnologie legate alla produzione delle pellicole – attività ormai ridotta pressoché a zero – a un mercato del tutto inaspettato e lontano dal core business dell’azienda: quello della cosmetica. È così nata, a partire dal 2007, la produzione di Astalift, brand di prodotti di bellezza facente capo alla holding Fujifilm e distribuito in tutto il mondo. Questa brillante svolta aziendale, basata su una expertise in tema di collagene e antiossidanti maturata in oltre 70 anni di attività, dimostra la destrezza con cui l’azienda ha saputo evitare di finire “bollita” innovando grazie a una lungimirante riconversione delle proprie risorse.

[ illustrazione: pellicola Kodak, foto di paperplanepilot ]

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CITTÀ, INDUSTRIA, LAVORO

Crespi d’Adda, company town all’italiana

Crespi d’Adda è una frazione del Comune di Capriate San Gervasio, in provincia di Bergamo. Qui, nel 1878, l’industriale varesotto Cristoforo Benigno Crespi acquistò 85 ettari di terra per portarvi dalla natia Busto Arsizio la sua industria tessile e fondare attorno al suo opificio un villaggio operaio ispirato alle prime company town europee.

La fabbrica, che nel momento di massima attività contò ben 4000 lavoratori, fu soggetta a più momenti di difficoltà gestionali che causarono un progressivo distacco tra opificio e villaggio. Ai Crespi succedette già negli anni ’30 la STI (Stabilimenti Tessili Italiani), poi la famiglia Legler, che fu costretta alla chiusura nel 2003, e infine il Gruppo Polli. Gli immobili della fabbrica sono oggi di proprietà del Gruppo Percassi, holding fondata dall’ex-calciatore Antonio Percassi, che ne farà il proprio quartier generale in tempo utile per l’Expo 2015.

Chi visita oggi Crespi d’Adda, dal 1995 riconosciuta come patrimonio Unesco, viene accolto da un’atmosfera surreale. Passeggiare fra le casette operaie, mantenute dai discendenti dei lavoratori in uno stato di perfetta conservazione e valorizzate da colori vivaci e sculture floreali, ricorda la dimensione di sogno della città di Edward Scissorhands di Tim Burton (1990).

Negli anni del suo fiorire, il villaggio è stato teatro di un altro genere di sogno, quello del capitalismo paternalistico. Ogni lavoratore riceveva in affidamento un alloggio, insieme all’opportunità di usufruire gratuitamente dei diversi servizi collegati ai luoghi istituzionali del villaggio, fra cui una scuola, un ospedale, una chiesa (costruita sul modello di quella di Busto Arsizio), un teatro, un dopolavoro e perfino una piscina. Visitando il monumentale cimitero del villaggio si ha l’impressione che il monumento funebre della famiglia Crespi, una curiosa piramide di stile eclettico, continui ad abbracciare e proteggere la memoria di tutti i lavoratori che si sono mossi ai suoi piedi.

Il progetto utopistico delle company town non potrebbe risultare più lontano dalle attuali condizioni antropologiche del lavoro, nelle quali l’ideologia spersonalizzante e astratta del “capitalismo delle corporation” ha cancellato quasi ogni traccia di rapporto personale fra padroni e lavoratori. Queste parole di Cristoforo Benigno Crespi hanno la capacità di evocare tanto le ragioni che hanno dato vita al suo progetto utopico quanto i motivi che l’hanno portato al fallimento:

«Ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprenditore che egli vi si trovi comodo, tranquillo ed in pace; adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai la vittima del vizio e della neghittosità. I più bei momenti della giornata per l’industriale previdente sono quelli in cui vede i robusti bambini dei suoi operai scorrazzare per fioriti giardini, correndo incontro ai padri che tornano contenti dal lavoro; sono quelli in cui vede l’operaio svagarsi e ornare il campicello o la casa linda e ordinata; sono quelli in cui scopre un idillio o un quadro di domestica felicità; in cui fra l’occhio del padrone e quello del dipendente, scorre un raggio di simpatia, di fratellanza schietta e sincera. Allora svaniscono le preoccupazioni di assurde lotte di classe e il cuore si apre ad ideali sempre più alti di pace e d’amore universale».

[ illustrazione: il cimitero di Crespi D’Adda, luglio 2013, foto di Dario Villa ]

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